Da dove partire per sviluppare un lavoro educativo efficace, rispondente alle esigenze dei singoli e alle urgenze di questi tempi travagliati, la cui validità sia riconoscibile e valutabile, e che sia, perché no, attraente?
Sono in molti a offrire ricette e a indicare soluzioni.
C’è chi si affida principalmente agli strumenti e vede nelle nuove tecnologie le risorse ideali e decisive per raggiungere gli obiettivi indicati. Altri rielaborano progetti basati su pedagogie più o meno costruttiviste inventando nuove formule, dalla classe scomposta, alla didattica aumentata, alla flipped class e altre ancora; dove in primo piano c’è l’allievo che costruisce autonomamente il proprio sapere. Altri ancora esplorano varie forme di didattica non tradizionale e propongono, anche per le discipline scientifiche, il ricorso a forme di comunicazione e di partecipazione attiva degli alunni attraverso realizzazioni multimediali, drammatizzazioni, fino a vere e proprie rappresentazioni teatrali.
Molte di queste proposte contengono spunti interessanti e vanno a toccare nodi importanti dell’esperienza della conoscenza e del processo di apprendimento; trascinando però con sé implicazioni e problemi che spesso non vengono avvertiti e comunque vengono sottovalutati.
Così, come non vedere le enormi potenzialità offerte dalle tecnologie digitali per un insegnamento più ricco, più vario, più flessibile e coinvolgente?
Ma sono altrettanto evidenti e non trascurabili i problemi che un massiccio utilizzo dei potenti strumenti informatici pone a livello dello sviluppo di capacità percettive, mnemoniche, operative, relazionali. Anche l’enfasi data al protagonismo e alla centralità dello studente nel processo di apprendimento coglie un punto cruciale: la necessità che ogni percorso conoscitivo sia personalizzato e non si riduca a una acritica assunzione di contenuti.
Tuttavia è difficile pensare a un cammino di personalizzazione che, soprattutto in età giovanile, prescinda da un intenso e responsabile rapporto con adulti che possano introdurre e accompagnare in quel cammino e non limitarsi ad attivarne la possibilità.
Infine, le stesse forme di comunicazione innovative vengono incontro alla esigenza di partecipazione personale e di riconoscimento delle diverse dimensioni anche del sapere scientifico: per esempio della dimensione storica; a condizione però di non appiattire i livelli e i linguaggi e di non dare per scontato che comunicazione equivalga a comprensione.
Riprendendo allora la domanda iniziale, «da dove partire?», c’è un suggerimento che, nella sua essenzialità, ci sembra adeguato e che tutti possono applicare in qualunque situazione: si tratta di partire dalla realtà.
È un’indicazione che contiene un po’ tutti i punti prima evidenziati. Perché è il rendersi conto della realtà, e di qualche suo aspetto particolare di volta in volta, che suscita il desiderio di conoscenza che è in tutti, anche negli alunni più svogliati e distratti. Un desiderio che si traduce in domande e in attesa di risposte. L’accorgersi che il sapere ereditato da chi ci ha preceduto non è solo un fardello pesante da caricarsi sulle spalle ma racchiude proprio le risposte a quelle domande sulla realtà, è una delle esperienze più significative, che segnalano il graduale formarsi di una personalità e quindi il raggiungimento degli obiettivi di una scuola.
Il realismo detta anche il metodo del lavoro conoscitivo: l’attaccamento alla realtà consentirà di apprezzare il vantaggio derivante dall’impiego di strumenti e sistemi tecnologici efficaci e il desiderio di aderirvi si esprimerà in richiesta di coinvolgimento, partecipazione attiva, esperienza personale.
Tutto ciò si applica pienamente alle discipline scientifiche, dove una autentica conoscenza ha come continuo riferimento la realtà: non soltanto all’inizio, nell’impatto con i fenomeni, con la loro specificità, con la loro sorprendente regolarità e le loro inaspettate stranezze; sempre, lungo il percorso di crescita della conoscenza (sia collettiva sia individuale), vale quanto osservava il professor Carlo Felice Manara nel convegno Parlare di scienza o fare scienza? (1995) che sta alle origini dell’avventura di Emmeciquadro: «la costruzione scientifica, pur essendo spesso altrettanto esaltante della costruzione poetica e artistica in generale, è anche altrettanto e forse ancora più difficile; infatti lo scienziato non può vagare senza limiti nel mondo della fantasia, perché, nella sua opera creativa, deve sempre tener conto della realtà esistente, che costituisce il tribunale di estrema istanza al quale egli deve presentare la sua opera».
È l’approccio spesso documentato in queste pagine ed esemplificato nel corso del Simposio Formazione ed evoluzione dell’ambiente: misure e modelli, rivolto a docenti di scuola secondaria per un aggiornamento a carattere interdisciplinare, promosso dall’INFN e svoltosi nell’ottobre scorso presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, del quale pubblichiamo gli Atti in questo numero.
Mario Gargantini
(Direttore della rivista Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 63 di Emmeciquadro