L’autore prosegue la riflessione sul fenomeno attenzione, la cui perdita, ormai diffusa negli studenti adolescenti, sta diventando un fattore problematico anche nei primi livelli scolari.
Ne analizza le diverse forme, caratteristiche delle diverse età, facendo riferimento esplicito al pensiero di Dewey e individua come fattore decisivo per un recupero dell’attenzione nella sua valenza conoscitiva, «un incontro vivo con la realtà […] in tutta la sua ricchezza e il suo spessore».
Questo obiettivo può essere raggiunto in tutta la sua profondità di campo attraverso il coinvolgimento consapevole e appassionato degli insegnanti.
Una sfida all’individualismo sempre più diffuso nella scuola, iscritto in una visione nichilista della vita.
In questo contributo vorrei portare a termine – almeno fino a un certo punto, senza pretendere di esaurire l’argomento – la riflessione sul fenomeno dell’attenzione, suscitata in me dai testi di Paola Balzarotti e Philippe Meirieu pubblicati rispettivamente sui numeri 56 – Marzo 2015 e 57 – Giugno 2015 di questa rivista, e già avviata in un primo intervento.
I termini e l’orizzonte della questione
Se le loro diagnosi sono corrette, il problema più serio con cui ci troviamo oggi a fare i conti, in classe, è la fragilità di attenzione degli alunni, amplificata dalla dittatura della reazione immediata e dall’indebolimento di alcuni fattori o disposizioni importanti per l’apprendimento, come la proprietà di linguaggio e la capacità di concentrazione, di astrazione e di ragionamento.
Il risultato è un’attenzione debole e precaria: reale, sì, ma anche effimera, destinata a non sopravvivere allo stimolo che l’ha provocata e continuamente in balìa delle più varie, e talora opposte sollecitazioni che provengono dai tanti flussi d’informazione odierni.
Nel precedente intervento ho indicato una delle cause di questa debolezza nella «fine della scuola moderna»1.
[A sinistra: Robert Doisneau (1912 – 1994) – Une salle de classe – Parigi, 1957]
Con questa espressione intendevo porre in rilievo, da un lato, il fatto che il modello culturale e organizzativo che ha plasmato l’istituzione scolastica negli ultimi tre secoli è entrato nella fase terminale del suo ciclo storico, a seguito delle novità e delle sfide introdotte dal mondo globale e dall’innovazione tecnologica; dall’altro, che alla radice della fragilità di attenzione e di coinvolgimento degli alunni sta forse anche una specie di ritirato credito – di Rinuncianesimo2, come l’ha acutamente definito una studentessa – nei confronti della scuola e del rapporto con gli insegnanti, non più percepiti come ambiti significativi per la propria crescita e formazione.
Una seconda causa profonda è di carattere antropologico. Consiste in quella peculiare forma di «astenìa»3, che insorge dalla combinazione tra l’influsso dei vari poteri cui la nostra vita è esposta (e in ragione del quale non sembrano esservi altre evidenze se non quelle imposte dalla moda), la conseguente debolezza nella coscienza di sé e del reale e, infine, l’ipoteca di sostanziale insensatezza delle cose, al di là della sfera dell’opinione individuale o collettiva, inscritta dal nichilismo sul modo corrente di vivere e di pensare.
Su questo sfondo, la fragilità di attenzione di alunni e studenti fa pensare a un problema più generale, che riguarda anche gli adulti. In Evangelii Gaudium papa Francesco l’ha descritto come la chiusura dell’essere umano «nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti»4, immanenza oltre la quale non sembra possa esistere qualcosa che meriti altrettanta stima.
Con ciò la questione dell’attenzione acquista un rilievo ancora maggiore di quello che, già di per sé, le spetta sul piano dell’insegnamento e dell’apprendimento.
Che fare?
Si può pensare di affrontare la questione intensificando l’intonazione interattiva e costruttivistica della didattica, per cercare, con le strumentazioni più varie e raffinate, di stimolare metodicamente l’attenzione e renderla più continua.
Si può però considerare la sua fragilità non solo (e soltanto) come un problema da risolvere, ma anche come la spia di una situazione nuova, che va presa molto sul serio: come, seguendo il suggerimento della Arendt, la spia di una crisi che offre la possibilità di vivere «un’esperienza della realtà» e «un’occasione per riflettere», entrambe preziose per comprendere più a fondo la questione, al di là degli schemi abituali5.
Nell’intervento precedente osservavo che, per far questo, occorre attribuire all’ora di lezione, nel suo vivo accadere – sempre mai del tutto prevedibile – una maggiore rilevanza, sia conoscitiva che poetica. In questa prospettiva vorrei approfondire un paio di aspetti del problema.
L’accendersi dell’attenzione e la sua traiettoria di sviluppo
Il primo approfondimento risponde alla domanda: in che modo l’attenzione si accende e si sviluppa, fino alla sua forma più compiuta?
In un saggio che ha esercitato un influsso enorme sulla storia dell’educazione del Novecento, John Dewey (1859 – 1952) ha descritto il fenomeno dell’attenzione partendo dalla constatazione che, nei bimbi piccoli, osservazione e pensiero «sono rivolti in modo speciale verso le persone, le loro azioni, il loro comportamento, le loro occupazioni e il risultato di questo loro agire»6.
I bimbi appaiono mossi da un interesse «di natura personale più che obiettivo e intellettuale»: tale interesse va in cerca di qualcosa che tenga unite insieme, in modo vivo e concreto – in forma «storica» – «persone, cose ed accadimenti», per mezzo di «un’idea comune che mobilita il sentimento».
Per questo «i bambini non trovano soddisfazione nell’analisi di particolari isolati di forma e struttura, né ne sentono l’attrazione». In essi domina piuttosto un «atteggiamento diretto e spontaneo», che ha sete di «nuove esperienze» ed è mosso dal «desiderio di completare le […] esperienze parziali col costruire immagini e con l’esprimerle nel gioco».
Tale atteggiamento è la radice della prima forma di attenzione di cui l’essere umano è capace, «spontanea» o «non-volontaria». In essa, «il fanciullo è semplicemente assorbito in quel che fa; l’occupazione in cui è impegnato lo possiede completamente. Esso si abbandona senza riserva. Il fanciullo impiega perciò molta energia, ma non compie uno sforzo consapevole. Finché è intento fino a lasciarsi assorbire, la sua concentrazione non è consapevole»7.
[A destra: Foto di Robert Doisneau (1912 – 1994)]
Attorno ai sette anni comincia a insorgere una seconda forma di attenzione, stavolta indiretta o volontaria. Il fanciullo inizia a sganciarsi dal completo assorbimento nell’occupazione che lo impegna, per volgersi, con sforzo e concentrazione ora coscienti, a qualcosa che non è più immediato, ma appartiene alla sfera dei fini e degli obiettivi dell’occupazione stessa: «Avendo in mente un risultato, il fanciullo attende a ciò che gli sta davanti, o a ciò che fa immediatamente, in quanto lo aiuta a raggiungere quel risultato. Preso in sé quell’oggetto o quell’atto gli può essere indifferente o perfino ripugnante. Ma poiché lo sente come incluso in qualcosa che desidera o apprezza, trasferisce su di esso il potere di attrazione e d’interesse, che quest’ultimo ha per lui».
Questo passaggio è tuttavia solo il primo, e neanche il più importante, lungo la traiettoria di sviluppo dell’attenzione, che si compie solo quando si accende l’attenzione riflessiva propriamente detta – cioè, solamente «quando il ragazzo accoglie dei risultati come problemi o quesiti di cui deve cercare la soluzione per se stesso».
Nel periodo in cui entra ora – «dagli otto agli undici o dodici anni circa» – il ragazzo «indirizza la sua attività in vista di qualche fine che desidera raggiungere. Questo fine è qualcosa che deve essere fatto, o qualche tangibile risultato che deve essere conseguito. Il suo problema assume l’aspetto di una difficoltà pratica, non di una questione teorica. Ma via via che il suo potere aumenta, il ragazzo riesce a concepire il fine come qualcosa che va trovato e scoperto, e riesce a controllare i suoi atti e le sue immagini in modo da servirsene per l’indagine e la soluzione».
Dewey sottolinea che lo sviluppo di questa terza forma di attenzione è, sul piano fisiologico e psichico, «un processo naturale». Ma aggiunge subito che il suo adeguato «riconoscimento e impiego» rappresenta «forse il più serio problema dell’istruzione nel campo intellettuale». Infatti, «una persona che ha conseguito il potere dell’attenzione riflessiva, il potere di affrontare con la mente problemi e quesiti, è per ciò stesso educata, dal punto di vista dell’intelligenza. Possiede disciplina mentale, potere della mente e per la mente. Senza questo la mente resta alla mercé del costume e delle influenze esterne».
Quanto poco però tale consapevolezza sia diffusa tra gli insegnanti, lo dimostra l’errore «che si può dire domini l’istruzione corrente».
Si pensa «spessissimo» che «si possa prestare direttamente attenzione a qualsiasi argomento, se solo si abbia la volontà o la disposizione appropriata, e si considera il non farlo come segno di riluttanza o indocilità. Si sottopongono al ragazzo lezioni di aritmetica, geografia, grammatica e così via e gli si dice di prestare attenzione per poterle imparare. Ma non si considera che l’attenzione riflessiva è impossibile salvo che vi siano dei problemi e dei dubbi presenti alla mente come base di questa attenzione. Se nell’argomento c’è un interesse intrinseco sufficiente, ci sarà attenzione diretta o spontanea, cosa eccellente finché dura, ma che di per sé non dà potere di pensiero o controllo mentale interno. Se non c’è nell’argomento un potere di attrazione inerente, l’insegnante (a seconda del suo temperamento e della sua educazione e dei precedenti e dei fini della scuola) o cercherà di circondare l’argomento di un’attrazione d’accatto, sforzandosi di catturare l’attenzione ‘rendendo la lezione interessante’, o ricorrerà a rivulsivi (come voti bassi, minacce di bocciare, trattenere dopo la scuola, e disapprovazione personale espressa in vari modi come il brontolare e il richiamare il ragazzo di continuo perché ‘presti attenzione’), o ricorrerà probabilmente a tutti e due i sistemi».
Questo errore così diffuso, poi, non di rado se ne tira dietro un secondo, altrettanto gravido di conseguenze: quello di concepire l’apprendimento come un mandare a memoria risposte bell’e fatte a possibili quesiti, posti tuttavia non dall’alunno, ma da qualcun altro.
L’importanza dal punto di vista educativo dell’attenzione riflessiva
Perché, dal punto di vista educativo, è dunque così importante l’attenzione riflessiva? Perché essa «implica sempre giudizio, ragionamento e deliberazione».
Il suo insorgere indica che, mentre prima era totalmente assorbito in ciò che faceva, ora «il ragazzo ha un problema suo ed è impegnato attivamente nella ricerca e nella scelta di materiale pertinente a rispondervi […]. Come è suo il problema, così è suo l’impulso e lo stimolo all’attenzione, e pure suo è l’addestramento che ne deriva e che si configura pertanto come disciplina o conquista di potere di controllo, cioè come abito di considerare i problemi».
[A sinistra: Foto di Robert Doisneau (1912 – 1994), 1956]
Il capitolo si chiude con un rilievo che merita ancora oggi una certa attenzione: «Non è affatto esagerato dire che nell’educazione tradizionale si è accentuata tanto la presentazione al ragazzo di materiale già pronto (libri, lezioni obiettive, discorsi del maestro, ecc.) e che gli è stato attribuito in modo così quasi esclusivo il solo compito di ripetere gli argomenti appresi, che l’occasione e il motivo per sviluppare l’attenzione riflessiva sono rimasti solo accidentali. Quasi nessuna considerazione è stata rivolta alla necessità fondamentale di portare il ragazzo a intendere il problema come proprio in modo che fosse indotto da sé a prestare attenzione per trovare la sua risposta».
Ricapitoliamo. Per Dewey le forme fondamentali di attenzione sono tre: spontanea o non-volontaria; indiretta e volontaria; riflessiva.
Esse si dispongono lungo una traiettoria che conduce il fanciullo dalla piena immedesimazione con l’azione o l’occupazione che sta compiendo alla posizione di problemi riconosciuti come significativi per sé, passando per un momento intermedio nel quale egli comincia a intuire la profondità di campo dell’azione o dell’occupazione e a sperimentarne, nel presente, l’attrattiva.
Il lettore si sarà accorto che, in parallelo, l’autore ha descritto anche una progressione nella disposizione di fondo del bambino o ragazzo nei confronti della realtà. All’inizio c’è un atteggiamento diretto e spontaneo, interessato a cose e persone, desideroso di nuove esperienze e capace di lasciarsi assorbire totalmente da una specifica attività.
Crescendo, a un certo punto il fanciullo comincia a intuire il fine (cioè il senso) di questa attività, sperimentando nel contempo un certo distacco dalla sua immediatezza. Infine il ragazzo arriva a percepire il risultato di quanto sta facendo come qualcosa che lo interpella in prima persona, come un problema propriamente suo, cui deve cercare, da sé, risposta.
Che cosa suggerisce la riflessione di Dewey sull’attenzione?
Molte cose. Mi spiace, in questa sede, non poterle sviluppare tutte. Mi limito a evidenziare quelle che ritengo più importanti per la nostra questione.
Anzitutto, essa invita chi insegna a guardarsi dall’errore di ridurre la considerazione dell’attenzione a una sola delle sue forme (di solito alla prima). Sono tutte e tre importanti, sia in se stesse che – ancora di più – nella loro progressione.
Questa progressione offre a chi insegna un criterio-guida decisivo per la propria azione. Essa invita a concepire l’insegnamento e il lavoro in aula non solo come esposizione di contenuti o realizzazione di attività che possano incontrare interesse e corrispondenza immediati, ma anche – e più in profondità – come cura per lo sviluppo della razionalità in alcune delle sue flessioni più peculiari: il presentimento del fine, il senso del problema, il procedimento argomentativo, l’abito riflessivo.
Un secondo suggerimento viene dal paragone fra il contesto storico e culturale in cui Dewey ha elaborato la sua teoria pedagogica e il nostro8.
Oggi, nel nostro Paese, l’autorevolezza del docente, la coscienza del valore dell’educazione come motore della democrazia, la stima della scuola come insostituibile ambito formativo non possono più essere considerati come elementi di senso comune, condivisi fra le generazioni9. Oltre che in numerosi altri campi, le differenze generazionali pesano attualmente molto più che in passato anche sul modo d’intendere la scuola, lo stare in classe, lo studio e il rapporto fra insegnanti, alunni e genitori.
[A destra: Robert Doisneau – L’information scolaire – Parigi 1956]
Che cosa comporta, per l’attenzione, il venir meno di tali evidenze? Ad esempio, che essa non può più essere richiesta come qualcosa di «dovuto» a priori, come cifra riassuntiva dell’atteggiamento di base che gli alunni dovrebbero nutrire nei confronti della scuola e, più in là, della tradizione. La disaffezione degli studenti per la scuola è fra i dati più spesso rilevati dalle indagini statistiche.
L’attenzione a ciò che il docente dice e propone in classe non è, oggi, di solito, frequente. È diventata qualcosa di contingente, che può accendersi, ma non è detto che lo faccia: qualcosa che va sempre riconquistato ex novo. Bisogna avere la lealtà di riconoscerlo, e di trarne tutte le conseguenze didattiche e pedagogiche.
Per questo, invece di lamentarsi perché gli alunni «non stanno attenti», converrebbe forse focalizzare lo sguardo sul fatto che, nonostante la moltiplicazione esponenziale delle possibilità di distrazione, la loro attenzione spontanea non smette comunque di accendersi anche oggi. E partire di lì, per valorizzare le movenze conoscitive che affiorano in essa: che cosa, di quanto sto dicendo loro in classe (o è accaduto fuori), li prende e li coinvolge, suscitando stupore, curiosità, domanda?
Sono sicuro che l’argomento che sto svolgendo possiede «un potere di attrazione inerente»? Sto facendo sì che i miei studenti abbiano almeno un presentimento del senso dell’attività che stiamo compiendo, tale da suscitare in loro l’attenzione volontaria?
Ho cura – anziché passare velocemente oltre – di tornare su quei punti o su quei passaggi che, mi sono accorto, stavano per innescare l’insorgere dell’attenzione riflessiva?10
Il terzo suggerimento viene dalla correlazione esistente fra il dinamismo di sviluppo dell’attenzione, descritto da Dewey, e le disposizioni che l’accompagnano: l’immedesimazione con le cose, il coinvolgimento nell’azione, il presentimento del fine, la capacità di distacco, la riflessività.
Queste disposizioni costituiscono l’humus vitale dell’attenzione, e prefigurano l’orizzonte e il punto d’arrivo della sua traiettoria evolutiva. Se non sono anch’esse educate e coltivate contestualmente, dentro e fuori la scuola, viene a mancare molta della linfa che può farla sprigionare e fiorire.
Il fattore decisivo e i suoi principali antagonisti
Non tutta, però. E per fortuna. Come anche Dewey notava, nel suo momento sorgivo l’accendersi dell’attenzione dipende sempre dall’imbattersi in qualcosa di reale e di obiettivo, che tocca e attrae totalmente a sé il fanciullo. È questo «imporsi» vivo della realtà il fattore decisivo11.
Qui sta il secondo aspetto che vorrei brevemente approfondire. Perché, tante volte, in classe, nonostante le migliori intenzioni e la più meticolosa preparazione delle lezioni, sembra che questo imbattersi nel reale non accada – o, forse meglio, che non riesca, pur accadendo, a destare e a muovere l’attenzione?
Vorrei provare a rispondere, formulando un’ipotesi che andrebbe ulteriormente verificata. A mio giudizio, ciò dipende da un insieme di fattori che, in linea di fatto e di principio, ostacolano un pieno incontro con la realtà, dentro e fuori le aule.
Una prima costellazione di fattori mi sembra caratterizzi, attualmente, più gli alunni e gli studenti che i docenti. Sinteticamente la definirei come un cambiamento di assetto nella disposizione di fondo verso il reale, che avviene man mano che il bambino di oggi diventa fanciullo e poi ragazzo.
Nell’infanzia, tale disposizione è di default una recettività colma d’interesse per le cose e assetata di significato, come osservava Dewey.
Oggi, però, mi sembra che l’esposizione sempre maggiore, man mano che il bambino cresce, a un mondo prevalentemente tecnico e artificiale e al format che questo mondo imprime sul modo abituale di esistere venga a sovrapporre a questa recettività originaria (gradualmente e quasi impercettibilmente, almeno fino a una certa soglia) una diversa postura generale, caratterizzata da una sempre maggiore interattività.
[A sinistra: Foto di Robert Doisneau (1912 – 1994)]
Ora, la mia ipotesi è che tale crescita del momento interattivo costituisca – se non viene educata, conferendole forma e misura, e se in parallelo la recettività iniziale non viene egualmente salvaguardata e sviluppata – un ostacolo molto grande al pieno esercizio della attenzione: non solo perché il momento interattivo tende ad attrarre su di sé molta, se non tutta l’energia psichica, ma anche perché la mentalità che l’accompagna e lo legittima induce a considerare esaurito nell’interazione puntuale con il dato (un fatto, una nozione, un processo) l’intero fenomeno conoscitivo, che in realtà possiede ben altro spessore12.
La consapevolezza di tale spessore mi sembra debba costituire, se non il più importante, comunque uno dei più importanti tratti distintivi della competenza professionale propria dell’insegnante.
Se penso al lavoro di formazione che ho svolto in questi ultimi anni nei PAS e nel TFA, e a quanto ho percepito indirettamente dei loro colleghi attraverso il dialogo con loro, devo purtroppo ammettere che, in molti casi, tale consapevolezza e competenza non c’è; oppure che, quando c’è, è perlopiù ridotta e semplificata (di solito alla padronanza di una qualche metodologia, particolare e settoriale). Non è tale da cogliere, da farsi carico e da mobilitare, in ciascuno dei suoi fattori e processi, tutto il dinamismo conoscitivo che l’imbattersi vivo nelle cose, negli avvenimenti e nelle persone suscita in noi.
È in questo deficit di consapevolezza e di competenza che trova il proprio terreno di coltura la seconda costellazione di fattori che ostacolano – questa volta, sul versante degli insegnanti – l’accadere di un incontro pieno con la realtà, e di conseguenza l’accendersi e lo sviluppo dell’attenzione.
In sintesi
Come abbiamo visto ripercorrendo l’esposizione di Dewey, l’attenzione, in tutte le sue forme, può veramente accendersi e attuarsi in maniera compiuta, dentro e fuori la scuola, solo in virtù di un incontro vivo con la realtà: più precisamente, solo in virtù dell’imporsi della realtà stessa, che desta e mette in movimento il processo conoscitivo nelle sue distinte movenze, ognuna strettamente correlata alle altre.
Che ciò possa accadere anche nelle aule, durante le ore di lezione, e diventare così il motore della conoscenza, dell’insegnamento e dell’apprendimento, è anzitutto compito e responsabilità specifica di chi insegna. Si tratta di un compito e di una responsabilità oggi particolarmente gravi e urgenti.
In un’epoca e in un’atmosfera di vita e di pensiero caratterizzate, su vasta scala, da quella chiusura dell’uomo nell’immanenza del proprio sé, segnalata da papa Francesco, gran parte delle residue possibilità che l’io di un bambino, di un ragazzo e di un giovane venga provocato a uscire dall’incantesimo della propria soggettività, per conoscersi veramente e per inoltrarsi nella vastità del mondo, resta affidata al fatto che la realtà possa, in tutta la sua ricchezza e il suo spessore, farglisi «presente attraverso gli adulti, gli insegnanti»13 – tornando così, attraverso l’incontro con loro, a ridestare e a suscitare la sua attenzione.
Carlo M. Fedeli
(Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino)
Note
C. Fedeli, L’accorgersi delle cose. Qualche osservazione e qualche domanda sul fenomeno della «attenzione», in Emmeciquadro, n° 57 – luglio 2015
A. Bajani, La scuola non serve a niente, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 15. 3
J. Carrón, La bellezza disarmata, Rizzoli, Milano 2015, p. 222.
Francesco, Evangelii Gaudium, n° 94.
H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, p. 229.
È degno di nota il fatto che questa osservazione sulla portata conoscitiva del fenomeno della crisi sia stata formulata dalla Arendt in apertura del saggio dedicato appunto alla «crisi dell’istruzione», in cui il sistema scolastico e la cultura americana si erano venuti a trovare alla fine degli anni Cinquanta.J. Dewey, Scuola e società, a cura di E. Codignola, La Nuova Italia, Firenze 1949.
Non sapendo che cosa i docenti di oggi conoscano della pedagogia di Dewey, cito ampiamente il testo – al capitolo settimo. Per non appesantire la lettura non indico ogni volta la pagina: il lettore interessato potrà facilmente ritrovarla.Quando parla di «azione» o di «occupazione», Dewey intende le modalità fondamentali di relazione fra il fanciullo e ciò che lo circonda: una relazione attiva e intensa, in continuo divenire, che sollecita tutte le sue attitudini e capacità e produce un significativo cambiamento in lui e nell’ambiente che lo circonda. Chi varcava la porta della scuola sperimentale annessa all’Università e trovava al posto delle aule tradizionali il laboratorio di falegnameria o di tessitura e cucito e di cucina, oppure le stanze dove l’ambiente naturale o cittadino veniva ricostruito attraverso plastici in scala, percepiva immediatamente che il fulcro del lavoro formativo in atto era l’esperienza e non la teoria.
Per un approfondimento si veda, in Scuola e società, il capitolo La psicologia delle occupazioni.Al tempo di Dewey l’esigenza più avvertita, in quel momento particolare della storia degli Stati Uniti, era quella di ideare un sistema scolastico e a una teoria dell’educazione che fossero insieme inclusivi e progressisti, sulla base dei valori fondanti della giovane democrazia americana.
Mi riferisco qui più direttamente alle generazioni autoctone, cioè a noi italiani. Il discorso dovrebbe essere maggiormente differenziato e articolato, nel caso delle generazioni di migranti che provengono da altre nazioni e culture.
Come si vede, sono domande alle quali non si può rispondere a priori, ma sempre e solo a partire da quel che accade in aula. Anche in questo consiste la valenza poetica dell’ora di lezione.
Per Dewey, nei primi anni del bambino l’imporsi vivo della realtà assume il volto di tutto ciò che costituisce la vita in famiglia, nelle sue diverse articolazioni. Con l’ingresso nella scuola la famiglia lascia il posto alla società, e più precisamente alle sue attività tipiche, opportunamente semplificate e adattate (sono le «occupazioni» cui ho fatto cenno). Il loro valore educativo sta nello stimolare il bambino a compiere il passo che lo conduce oltre il suo interesse egoistico ed egocentrico, pur conservando sempre un riferimento a qualcosa di personale che lo tocca. Questo passo troverà poi compimento nella dimensione sociale, che per il filosofo e pedagogista americano è l’orizzonte ultimo dell’educazione.
Si può senz’altro discutere questa concezione, eminentemente politica, dell’educazione. Oggi, anzi, è più che mai opportuno, poiché le modalità in cui il potere esercita il suo influsso sul corpo sociale e sulla scuola sono molto meno appariscenti, ma non meno pervasive che in passato. Resta comunque il fatto, giustamente sottolineato da Dewey, che la vita familiare prima, la vita scolastica poi dovevano essere concepite e vissute come vere e proprie palestre nelle quali imparare sistematicamente a uscire dal «cerchio magico» della propria soggettività. Verrebbe da domandarsi, en passant, se possiamo affermare lo stesso anche della famiglia e della scuola di oggi.In un passaggio molto bello della Caritas in Veritate, Benedetto XVI descrive magistralmente uno dei fattori più originali e costitutivi di tale spessore, discutendo la pretesa della tecnica di ridurre il conoscere ai soli fattori materiali e misurabili: si veda Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n° 77.
Cfr. Insegnare oggi. Nuovi contesti e nuove sfide. Dialogo con J. Carrón, Università di Bologna, Aula Magna Santa Lucia, 11 ottobre 2015. La citazione è a p. 7.
© Pubblicato sul n° 63 di Emmeciquadro