Nel libro intitolato La demenza digitale – Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, pubblicato nel 2012, l’autore aveva già documentato il rischio a cui esponiamo noi stessi e i nostri figli con la sempre più invasiva presenza degli strumenti digitali: PC, tablet, smartphone.
In questo nuovo libro continua lo sforzo di renderci coscienti dei rischi a cui andiamo incontro.
A fronte dei messaggi generalizzati sulle straordinarie possibilità e potenzialità degli strumenti su citati non esita a definire tali messaggi come risultati delle più potenti lobby internazionali dei produttori di tali strumenti (hardware e software) e a paragonare tali messaggi a quelli delle lobby dei produttori di sigarette che periodicamente pubblicavano risultati di ricerche per cui il fumo non era poi così dannoso per la salute.
Manfred Spitzer è nato nel 1958, è laureato in Medicina e Psichiatria, è stato visiting professor a Harvard e attualmente dirige la Clinica psichiatrica e il Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm.
Egli riconosce che nella clinica dove lavora, la donna delle pulizie usa il computer per ordinare i detersivi, le infermiere per archiviare i documenti, i medici per qualunque cosa, e anche i dirigenti non possono permettersi il lusso di non lavorare con il computer. In breve: il computer è ormai necessario quasi in qualunque occupazione.
Sarebbe dunque auspicabile che già a scuola si imparasse l’uso dei media digitali e si potesse ottenere una specie di patentino ad hoc. Ma computer e internet non vengono visti solo come strumenti per compiere determinati lavori, bensì come strumenti di apprendimento grazie ai quali l’educazione dei bambini finalmente avverrebbe in maniera automatica dopo millenni di estenuanti predicozzi. Molti genitori insicuri comprano ai figli un computer solo per questo motivo. Vogliamo che i nostri figli abbiano più possibilità di noi. Per questo non vogliamo negare loro ciò che può farli andare avanti nella vita. Chi non sa usare un computer è escluso dalle innovazioni della società moderna (come chi è analfabeta).
In realtà, dice l’autore proprio all’apertura di questo libro: «Già alcuni anni fa, tra tv, computer, video e console di gioco, i giovani tedeschi trascorrevano sette ore al giorno davanti agli schermi. La vertiginosa diffusione degli smartphone negli ultimi cinque anni ha modificato questo dato soltanto riguardo a un aspetto: un ulteriore e massiccio incremento dell’utilizzo di tecnologie informatiche digitali. Del resto, lo smartphone è sempre con noi ed è sempre a portata di mano. Se abbiamo bisogno di un’indicazione, non ci rivolgiamo più a un passante, non chiediamo più aiuto a un conoscente per la risoluzione di un problema: come si usa questa lavatrice? per esempio. Poniamo la domanda allo smartphone e, nel giro di una frazione di secondo, riceviamo la risposta dalla «nuvola», per usare il termine con cui oggi amiamo chiamare le gigantesche banche dati collocate da qualche parte nei deserti del mondo. Le tracce che lasciamo nello spazio cibernetico vengono registrate, memorizzate e analizzate. Persino quando usiamo lo smartphone solo come torcia, esso raccoglie e invia dati su di noi, dati che vengono poi interpretati, venduti e usati indebitamente, come sappiamo dalle rivelazioni che il collaboratore della National Security Agency (NSA) Edward Snowden ha rilasciato nell’estate del 2013».
L’autore, attraverso il continuo riferimento a studi scientifici, ci guida a riconoscere gli effetti di ore di permanenza davanti ai televisori, ore di uso degli smartphone da lui rinominati i «coltellini svizzeri» dell’era dell’informazione, ore spese con i video giochi e con internet, in altre parole a riconoscere quella che lui chiama la «dipendenza senza sostanze».
Passa poi a farci conoscere l’utilizzo che viene fatto dell’analisi degli usi, sopra ricordati, da parte dei possessori di questi cosiddetti big data. Nel precedente libro aveva detto: «se non paghiamo niente per una certa prestazione, allora non siamo clienti, bensì la merce che viene venduta.» In sintesi big data, big brother e fine della privacy.
Si prendono quindi in esame i tipi di stress conseguenti agli usi sfrenati su citati e qui l’autore ci ricorda che lo stress è perdita di controllo. Con le tecnologie digitali abbiamo ottenuto il controllo di quasi tutti gli aspetti della nostra quotidianità in cambio della sensazione vaga e diffusa di non aver più in pugno la nostra vita, e in cambio di una vita prevalentemente isolata e solitaria.
Si parla di cyberstress da smatphone e da facebook e cybermobbing e cyberstalking. A fronte di ansie e fobie generate dagli usi smodati delle tecnologie digitali vi sono anche evidenze di usi umanitari di tecnologie come facebook, per esempio dopo il terremoto di Haity e il terremoto dell’Aquila in cui molte persone si servirono dei social network per mantenere saldi quei rapporti sociali che prima si sviluppavano nell’immediata prossimità, oppure per crearne di nuovi.
Un altro rischio documentato dell’uso improprio della disponibilità di informazioni attraverso i media digitali viene qui definito «cybercondria» cioè la paura di soffrire di una malattia grave che insorge nei pazienti quando usano i motori di ricerca.
Speciale attenzione deve essere dedicata ai bambini, perché il loro sviluppo è tanto più possibile quanti più sono gli stimoli sensoriali offerti. La scienza ha dimostrato che lo sviluppo linguistico avviene maggiormente nell’udire e vedere i genitori parlare. In altre parole una storia letta è molto più efficace che una storia vista da un DVD o letta da un e-book magari attraverso funzioni speciali tipo read me.
Un ulteriore approfondimento è dedicato al percorso dal comprendere al pensare. L’autore ci ricorda che se si chiede a un bambino di quattro anni di tenere in mano uno spillo, una penna, una chiave, un uovo o un secchio, oppure di aggrapparsi a una sbarra, automaticamente e con incredibile sicurezza egli eseguirà sei tipi differenti di presa, che in medicina hanno nomi precisi perché coinvolgono muscoli, tendini e nervi differenti. Diversamente, passare una mano su una superficie piatta e dunque senza alcuna caratteristica particolare è la cosa più semplice che un bambino possa fare.
Quale utile generalizzazione dovrebbe imparare il nostro cervello da tutte queste esperienze di swipe? Che tutti gli oggetti del mondo sono uguali al tatto e che, qualunque sia il loro aspetto, si maneggiano allo stesso modo? Ma qualcuno invece sostiene che: «senza bisogno di tastiere e solo per mezzo del touch-screen, abbiamo subito a disposizione, con un solo click, tutte le opzioni di internet e le app. Non è più indispensabile possedere competenze di lettura e scrittura per fruire dei contenuti, il menù spesso configurato con simboli visivi ne consente potenzialmente l’uso anche ai bambini in età prescolare».
L’ossessionante introduzione di mezzi digitali nelle scuole che risultati sta portando?
Gli studi sull’introduzione dei computer a lezione sono deludenti o addirittura imbarazzanti e non giustificano in alcun modo gli investimenti sulle tecnologie informatiche digitali. Anche le ulteriori argomentazioni a sostegno di tali investimenti – trasmissione di competenze mediatiche e garanzia di pari opportunità per i bambini delle classi sociali svantaggiate – non trovano alcun fondamento empirico nei dati raccolti. Senza esagerare si documenta una gioventù distratta, ignorante e sedentaria.
Prima di arrivare alle conclusioni l’autore ci illustra ancora tre effetti concreti dell’uso dei mezzi digitali sulla nostra vita.
L’insonnia digitale causata da impedimento e interruzione del sonno, disturbi nell’addormentamento per via di eccitazione e contatti sociali, influsso negativo della luce blu.
Il cosiddetto cybersex ovvero sexting cioè scambio via internet di testi e immagini a sfondo sessuale, pornografia digitale e sex on demand, forma del tutto nuova di contatti sessuali.
La solitudine digitale conseguenza dei contatti umani mantenuti attraverso altoparlanti e schermi – che si tratti di e-mail o skype, di facebook o di chatroom, di smartphone o di PC – e che non possono sostituire il contatto reale con le persone, perché vi rimangono escluse tutte le esperienze sensoriali dirette.
Il libro è un ottimo strumento per riconoscere usi deviati e devianti degli strumenti digitali e se non è in grado di vietare il peggio è sicuramente utile per informarci correttamente dato che ogni affermazione è supportata da studi ed esperimenti scientifici con risultati documentati.
Potrebbe inoltre aiutarci ad assumere, per noi e per i nostri figli, un comportamento ragionevole mostrando che è possibile una realtà in cui non siamo reperibili 24 ore su 24, non abbiamo migliaia di amici che non conosciamo e i cui messaggi ci arrivano solo se c’è un computer che lo desidera; non siamo sotto il controllo di un dispositivo che ci dà molte possibilità ma, allo stesso tempo, ci dice giorno e notte cosa dobbiamo fare e in più ci spia meglio di quanto possano fare i servizi segreti di tutto il mondo.
Manfred Spitzer
Solitudine digitale
Disadattati, isolati, capaci solo di una vita virtuale?
Corbaccio – Milano 2016
Pagine 432 – Euro 19,99
Recensione di Renzo Gorla
(Redazione Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 63 di Emmeciquadro