Non parla specificamente della scienza il giovane filosofo Bellamy, ma quello che dice interessa molto alla scienza e al suo insegnamento. Perché tocca questioni essenziali, alla radice dello stesso esistere della scuola come funzione e come istituzione, e indagarle può aiutare a comprendere l’evidente crisi dell’istruzione e della formazione, che in Italia ha caratteristiche in parte diverse da quelle della scuola francese, ma pone domande molto simili a chi ne è coinvolto.
L’autore parte dal constatare che «abbiamo smarrito il senso della cultura. Essa è diventata per noi, nel migliore dei casi, un lusso inutile; nel peggiore, un bagaglio ingombrante». Egli considera tale situazione il risultato di una scelta, deliberatamente fatta e imposta, da parte di «una generazione che ha rifiutato di trasmettere a quella successiva ciò che aveva da offrirle, l’insieme dei saperi, dei riferimenti, dell’esperienza umana immemorabile che costituiva la sua eredità.»
Ciò ha cominciato a essere evidente da quando nella scuola per i docenti è entrato l’imperativo: non avete nulla da trasmettere, manifestazione esplicita di una concezione che vede ogni trasmissione come alienazione, imposizione, limitazione, se non addirittura violenza.
Bellamy dedica la prima parte del testo a una interessante disamina del pensiero di tre personaggi che hanno avuto, a suo parere, un’influenza determinante nella cultura francese -e più in generale in quella occidentale-, a cui si possono ricondurre i germi della posizione attuale: Cartesio (1596-1650), Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), Pierre Bourdieu (1930-2002).
Sintetizzando rapidamente i tre capitoli, egli individua in Cartesio la collocazione nell’individuo singolo della fonte del sapere e della certezza conoscitiva: per Cartesio, «l’uomo moderno si deve liberare dalla cultura e deve tornare al lume naturale della ragione» per diventare lucido e saldo nel giudizio, e artefice di se stesso.
Per il secondo, Rousseau, la cultura ha l’effetto deleterio di costringere l’uomo a crescere, separandosi dalla sua condizione originaria di felicità e di armonica immedesimazione nella natura: l’ignoranza è innocente, la cultura pericolosa, non bisogna insegnare un sapere di cui l’allievo non è né autore né maestro.
Più radicale ancora la visione critica del sociologo marxista Bourdieu, che negli anni Sessanta del secolo scorso identifica la cultura come fattore decisivo di selezione sociale e conservazione del potere delle classi dominanti. Afferma che l’istruzione generalizzata e pubblica nella scuola per tutti, lungi dall’essere costruzione di mentalità e cultura condivise, fattrice di unità, dispensatrice di opportunità in modo egualitario per ogni individuo, è il più importante generatore di disuguaglianza e di determinismo sociale, attraverso una falsa ideologia pedagogica e culturale.
La situazione attuale vede così una condanna della scuola al fallimento pedagogico e all’inutilità culturale, e la sua riduzione, per mantenersi, alla formazione di competenze dirette esclusivamente alla preparazione al lavoro, unica attività reale a cui il giovane è destinato.
Dopo questa argomentata pars destruens, lucida nell’analisi e inquietante nella lettura delle conseguenze, Bellamy propone una diversa visione della cultura, tale da permettere di rifondare la trasmissione del sapere, perché «la cultura ha come caratteristica propria l’essere comunicata.»
Per Bellamy, «la cultura è un bisogno fondamentale di ogni essere umano. Non è un capitale di cui usufruire al bisogno. Acquista tutto il suo valore quando viene trasmessa, nutrendo così chi la riceve.»
A partire da ciò, l’autore ridà valore alla tradizione e alla sua trasmissione, e di conseguenza anche alla scuola e all’opera degli insegnanti, sviluppando molte lucide riflessioni sull’istruzione e sull’ignoranza, sull’apprendimento e sulla memoria, sostenendo coerentemente che «l’opposizione tra cultura e libertà è priva di senso», che «è letteralmente assurdo opporre la cultura alla nostra libertà». Sostiene con forza che «per alienare un popolo, occorre far sì che guardi alla cultura come fonte di degenerazione.»
Nell’ultimo capitolo, Rifiutare l’indifferenza, sviluppa l’idea della cultura come generatrice di libertà, in quanto valorizzazione dell’identità della persona e della sua crescita, con tutte le sue singolarità e caratteristiche. Dice anche che la cultura è fatta dallo sviluppo delle diverse discipline, a ciascuna delle quali restituisce valore in quanto «il termine stesso di disciplina esprime bene il carattere regolato e insieme regolante dei saperi, dai quali sono strutturate e chiarite le nostre percezioni e le nostre intuizioni», perché «la libertà non nasce dal disordine».
Mi sembra che questa posizione riguardi in modo rilevante le discipline scientifiche, e valorizzi il grande sforzo che gli insegnanti stanno dedicando a comunicarle e trasmetterle nel percorso scolastico in modo adeguato, trovandosi a contrastare una dilagante mentalità che ne rifiuta l’importanza, insieme al fatto che richiedono fatica, impegno, creatività.
Non possiamo che condividere l’idea che la cultura «non costituisce un capitale ma un’eredità, un patrimonio comune che, come il nostro patrimonio genetico, fa di noi quello che siamo – degli uomini che siano davvero umani. Ed è l’unica eredità che cresce man mano che viene trasmessa, che si accresce appunto per essere stata offerta».
François-Xavier Bellamy
I diseredati. Ovvero l’urgenza di trasmettere
Itaca – Castel Bolognese 2016
Pagine 195 – Euro 16,00
Recensione di Raffaella Manara
(Membro della Redazione di Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 64 di Emmeciquadro