Oggi è normale sentire parlare dei droni e delle loro crescenti applicazioni in molti campi.
È interessante ripercorrerne la storia, che inizia in ambito militare per rispondere alle esigenze di rendere automatico ed effettuabile a distanza il controllo di un oggetto volante.
Vengono descritte le tre fasi, durante le quali si passa dalle bombe volanti alle piattaforme remote di sensori per arrivare ai sistemi di pilotaggio remoto.
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Il termine «drone» è entrato ormai da qualche anno nel linguaggio comune a indicare un’ampia classe di oggetti volanti pilotati a distanza che vanno dalle sofisticate versioni militari, veri e propri aeroplani telecomandati, divenuti tristemente noti per le loro micidiali capacità di killer anonimi e silenziosi, fino alle «piattaforme» volanti per riprese aeree professionali e amatoriali (quest’ultime dotate in genere di struttura a «multicottero»), o addirittura a particolari tipi di aeromodelli.
Ovviamente i droni militari, più propriamente denominati UAV (Unmanned Aerial Vehicles) oppure RPS (Remote Piloted Systems) sono appannaggio dei «signori della guerra», ma le versioni acquistabili liberamente, specie quelle semi- professionali per riprese aeree, sono una delle «mode tecnologiche» del momento, costituendo uno degli oggetti più ambiti da coloro che non resistono alla tentazione di acquistare qualunque nuovo marchingegno elettronico compaia sul mercato.
Come è già successo per altri congegni intrinsecamente complessi (tablet, smartphone, telecamere digitali, navigatori satellitari, eccetera), il loro sviluppo ha portato, in un periodo di tempo di pochi anni, a incorporare in tali oggetti una quantità enorme di tecnologia, che peraltro, come in altri casi, sembra quasi «scomparire» al loro interno quando il mercato arriva a proporli al consumo di massa.
In ogni caso, il percorso per arrivare a questa apparente semplicità non è stato banale per i droni, così come non lo è stato per tante altre «meraviglie» tecnologiche, divenute gadget alla portata del cittadino medio. Essi costituiscono, in tal senso, un significativo esempio di come la tecnologia moderna evolve, si trasforma, si adatta con estrema flessibilità a situazioni ed esigenze diverse, sfruttando e coordinando i progressi di discipline diverse, quali l’aerodinamica, l’elettronica, la robotica, per produrre oggetti altamente sofisticati non solamente per le loro prestazioni, ma anche per i costi relativamente contenuti ai quali, almeno alcune varianti, divengono disponibili sul mercato.
Ripercorreremo a grandi linee questo complesso itinerario, dedicando questa prima parte alla storia dei droni militari, mentre la seconda parte, di prossima pubblicazione, sarà dedicata ai multicotteri e ai loro svariati utilizzi, con qualche accenno anche a progetti futuribili che promettono di trasformarli, in pochi anni, in mezzi di mobilità personale.
Dal «fare a meno di», ad aiutare i piloti
I due obbiettivi che stanno alla base dello sviluppo di tutti i droni sono quelli di rendere automatico, ed effettuabile a distanza, il controllo di un oggetto volante, eliminando la necessità di un pilota a bordo.
Si tratta, come è facile comprendere, di due esigenze in qualche modo complementari, in quanto senza rendere automatiche le reazioni di una qualsiasi macchina volante alle diverse fasi di volo (decollo, atterraggio, virate, eccetera) e alle diverse condizioni atmosferiche (venti, raffiche, variazioni di quota, eccetera), non è neppure possibile pensare di controllarne il volo a distanza. Su tali esigenze si iniziò a lavorare già nei primi decenni dello sviluppo degli aeroplani.
Durante la Prima Guerra Mondiale, per esempio, Archibald Low, un eclettico ingegnere inglese del Royal Flying Corps (precursore della famosa RAF) convinse i suoi superiori a finanziare lo sviluppo di un piccolo aeroplano senza pilota, comandato a distanza mediante impulsi radio1, che avrebbe dovuto essere indirizzato verso le linee nemiche trasportando un carico di esplosivo.
Il progetto di Low, denominato aerial target (bersaglio aereo) per nascondere allo spionaggio nemico il suo vero scopo offensivo, ebbe uno sviluppo travagliato e non riuscì ad arrivare a uno stadio operativo, ma in qualche modo dimostrò che l’idea del controllo a distanza era fattibile, e richiedeva solamente ulteriore lavoro per essere sviluppata.
Aerial target di A. Low (Inghilterra, circa 1917)
In America, il prolifico inventore Elmer Sperry lavorò con la Marina degli Stati Uniti, allo sviluppo di un aerosilurante radiocomandato, stabilizzato in volo da giroscopi di sua invenzione. Il progetto, nonostante alcuni parziali successi, non riuscì peraltro a produrre un velivolo operativo prima del termine del conflitto, e neppure negli anni immediatamente successivi, e fu quindi abbandonato.
Anche in Italia Alessandro Guidoni e Arturo Crocco lavorarono allo sviluppo di una bomba volante guidata da giroscopi, che avrebbe dovuto andare a segno dopo essere stata sganciata a grande distanza dall’obbiettivo.
Il grande sviluppo che l’aviazione, civile e militare, ebbe nel corso degli anni ’20 del secolo scorso, caratterizzato dalla ricerca di soluzioni per il volo notturno e in condizioni atmosferiche avverse, diede peraltro ai tecnologi lo stimolo per far tesoro di queste prime esperienze.
Più che di fare a meno dei piloti ci si preoccupò piuttosto di facilitare il loro compito nelle condizioni più difficili. Così i giroscopi di Sperry e di altri inventori divennero i congegni base per i primi efficaci strumenti di ausilio al «volo cieco», e nel giro di pochi anni anche per i primi, semplici autopiloti.
Dopo la prima dimostrazione della possibilità di effettuare un volo completo (dal decollo all’atterraggio) basandosi sui soli strumenti, effettuata nei pressi di New York, nel settembre del 1929, dal tenente James Doolittle, gli strumenti giroscopici (orizzonte artificiale, girobussola, coordinatore di virata) divennero nel giro di pochi anni la dotazione standard dei migliori aeroplani. E già dall’inizio degli anni ’30, tramite il collegamento di tali strumenti ai comandi di volo, mediante opportuni servomeccanismi, comparvero i primi, semplici autopiloti, congegni cioè in grado di mantenere un aeroplano in volo livellato per lunghi periodi, senza l’intervento umano.
Nel corso degli anni ’30 in tutti i paesi che avevano sviluppato un’industria aeronautica, si lavorò assiduamente al perfezionamento di questi dispositivi, e anche in Italia, a opera della Società Caproni e del pilota collaudatore e inventore Mario De Bernardi, si ottennero alcuni risultati interessanti.
Questo breve accenno agli autopiloti vuole semplicemente aiutare il lettore a percepire che fin dall’inizio le idee e i dispositivi che erano nati dall’esigenza di rendere possibile il controllo a distanza dei velivoli, tornarono utili anche per rendere più semplice e sicuro il loro normale pilotaggio.
Sarebbe interessante approfondire come le esigenze e le tecnologie si intrecciarono (così come ripercorrere lo sviluppo e i primi utilizzi dei giroscopi nella guida dei siluri e in altre applicazioni navali), ma ciò ci porterebbe lontano dal tema principale dell’articolo: ritorniamo dunque alle macchine volanti controllate a distanza, in particolare ai «bersagli volanti».
I bersagli volanti
I bersagli volanti furono sviluppati in risposta a una esigenza militare, di addestramento al tiro di artiglieri e mitraglieri, che si era già presentata durante la Prima Guerra Mondiale.
Le prime soluzioni che erano state utilizzate, cioè quelle di far trainare da un velivolo pilotato dei pannelli di legno o degli striscioni di stoffa, si erano dimostrate pericolose e fonti di innumerevoli incidenti.
Il nome «drone» Secondo alcuni autori, la scelta degli inglesi di designare col nome di un insetto ronzante il loro velivolo radiocomandato per il traino bersagli, indusse, per emulazione, l’ufficiale americano Delmar Fahrney, che nel 1936 stava lavorando a un progetto di velivolo simile, al primo utilizzo del termine drone (che in lingua inglese propriamente denota il «fuco», cioè l’ape maschio). |
Nel corso degli anni ’30, gli inglesi della RAF svilupparono pertanto un aeroplano radiocomandato, basato su loro diffuso biplano da addestramento Tiger Moth, in grado di svolgere in sicurezza il compito di traino bersagli.
Ridenominato Queen Bee (ape regina) questo velivolo fu prodotto in numerosi esemplari e rappresentò una tappa fondamentale per lo sviluppo di apparati di radiocomando affidabili, e di dimensioni e pesi contenuti.
Queen Bee, biplano per traino bersagli radiocomandato (Inghilterra, circa 1935)
Sebbene qualche anno più tardi, cioè alla vigilia dello scoppio delle Seconda Guerra Mondiale, anche negli Stati Uniti si accese l’interesse per i bersagli volanti, in questo caso da intendersi come piccoli velivoli telecomandati, di costo contenuto, che potevano essere distrutti durante le esercitazioni.
I militari statunitensi che fino allora non avevano mostrato grande interesse per questi dispositivi, poterono sfruttare il lavoro pionieristico che da diversi anni era stato portato avanti da Reginald Denny, un ex-militare inglese emigrato in California.
Costui si era inizialmente appassionato ai primi rudimentali aeromodelli radiocomandati comparsi sul mercato, per poi aprire un negozio per la loro vendita e in seguito, nel 1935, una piccola società per la loro produzione.
Tale società sopravvisse abbastanza stentatamente per alcuni anni, riuscendo in ogni caso a sviluppare gradualmente la tecnologia del radiocomando. Denny riuscì inoltre a entrare in contatto con l’ambiente militare e a ottenere qualche primo modesto contratto.
Attraverso lo sviluppo e il perfezionamento di modelli successivi, Danny e alcuni suoi soci, che avevano nel frattempo fondato la Radioplane Company, giunsero a fornire all’Esercito, i primi lotti di bersagli volanti, veramente funzionali, verso la metà del 1941.
Prototipo di aerobersaglio radiocomandato di R. Danny ( Usa, circa 1935)
Ulteriori perfezionamenti portarono al graduale miglioramento delle prestazioni di questi piccoli velivoli, che mantenevano in ogni caso una struttura da grossi aeromodelli, ed erano potenziati da motori a scoppio di potenze inferiori ai 10 Hp, in grado peraltro di farli volare a velocità attorno ai 180 km/h.
L’entrata in guerra degli Stati Uniti fece lievitare enormemente la loro richiesta, sia da parte dell’Esercito che della Marina. Successivi modelli, via via sempre migliorati, furono costruiti nella fabbrica della Radioplane, vicino a Los Angeles, nel corso di tutta la guerra, per una produzione totale che alla fine del conflitto raggiunse le 15.000 unità.
Una vicenda curiosa avvenne nello stabilimento della Radioplane nel 1945; vi lavorava, come operaia alla linea di montaggio, Norma Jeane Dougherty, una delle tante giovani donne che nel periodo bellico sostituivano in fabbrica gli uomini mandati a combattere. |
La Radioplane continuò la sua attività anche nel dopoguerra, sviluppando, grazie soprattutto ai rapidi sviluppi dell’elettronica, modelli sempre più complessi e veloci, che si prestavano a simulare il comportamento anche dei moderni aeroplani a reazione che stavano entrando in servizio.
Nel 1952 fu acquistata dalla Northrop Corporation, una delle maggiori industrie aeronautiche statunitensi, fu riorganizzata e continuò l’attività come una delle divisioni di questa società.
La produzione di bersagli volanti non fu comunque esclusivo appannaggio di inglesi e americani (negli Usa anche altre società aeronautiche, quali la Ryan, si dedicarono alla loro produzione). Bersaglio volante METEOR P.X 72Hp (Italia, inizio anni ’60) |
Bombe volanti e missili
Durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, una delle tappe importanti per lo sviluppo dei droni fu anche la realizzazione di armi teleguidate (riprendendo idee ed esigenze, che come abbiamo accennato, erano nate già durante la Grande Guerra).
In Germania furono per esempio realizzate le «bombe volanti» Ruhrstal 1400X (più conosciuta come Fritz X), in pratica una grossa bomba convenzionale dotata di superfici aerodinamiche, e la Henschel 293/294, munita anche di un razzo ausiliario che forniva una spinta iniziale per aumentarne il raggio di azione; venivano guidate via radio da un apparato posto a bordo dell’aereo che le sganciava, il quale poteva restarsene a distanza dal bersaglio da colpire, fuori dal raggio d’azione delle armi nemiche.
In qualche modo si possono considerare antenati dei droni anche le famigerate V1, che i tedeschi lanciarono in gran numero contro l’Inghilterra. Nonostante vengano usualmente ricordate come missili2, esse avevano la struttura di un piccolo aeroplano, e non seguivano una traiettoria balistica, come i missili, ma «volavano», azionate da un motore a pulsogetto verso il loro obbiettivo.
Peraltro il loro sistema di guida, basato su giroscopi e altri apparati elettronici, era più che altro un sistema di stabilizzazione, che permetteva di impostarne la rotta iniziale, che poi veniva seguita in modo automatico, senza ulteriori interventi da parte degli operatori.
Anche gli americani realizzarono, verso la fine del conflitto, una bomba volante, denominata Sword Mk 9 Bat; dotata di superfici aerodinamiche simili a quelle di un piccolo aliante, era in grado, dopo lo sgancio, di planare a lungo verso il bersaglio, venendo guidata, nella prima parte del suo percorso, da un operatore a bordo dello «aereo madre», per poi acquisire e dirigersi automaticamente verso il bersaglio tramite un piccolo apparato radar che portava nel muso.
In sostanza, con i rapidi flash dei due precedenti paragrafi, abbiamo cercato di mostrare che la produzione di bersagli e bombe volanti costituì come una «prima fase» delle attività che hanno posto le basi tecnologiche per lo sviluppo dei sofisticati UAV e RPV che sono successivamente comparsi sullo scenario militare.
Bomba volante telecontrollata Sword Mk 9 Bat ( Usa, 1945)
Dagli aerobersagli ai primi UAV
Gli anni della Guerra Fredda, e della Guerra del Vietnam, rappresentarono, soprattutto per gli Stati Uniti, con le loro esigenze di ricognizione e spionaggio, un forte stimolo a proseguire lo sviluppo dei velivoli teleguidati, per i quali divenne più appropriata la definizione di UAV (Unmanned Aerial Vehicles) In quegli anni, che possiamo definire come la «seconda fase» di sviluppo dei droni, questi dispositivi si trasformarono infatti da «bersagli o bombe volanti» in «piattaforme remote di sensori», cioè essenzialmente in apparati automatici da ricognizione, sfuggevoli e difficili da intercettare, in grado di raccogliere informazioni sul territorio nemico, senza mettere a rischio la vita dei piloti3.
I velivoli che meglio rappresentano il livello di sviluppo raggiunto in questa fase, furono il Ryan Model 147A Fire Fly e il Ryan Model 147B Lighting Bug, entrambi derivati, nella prima metà degli anni ’60, dall’aerobersaglio Ryan AQM 34 Firebee, prodotto in migliaia di esemplari, e in numerose versioni, a partire dal 1960, dalla società californiana Teledyne Ryan (in seguito confluita nella Northrop-Grumman).
Si trattava di veri e propri aeroplani, dotati di ali a freccia di circa 4 metri di apertura e di un motore a reazione, con un peso complessivo ampiamente superiore ai 1.000 kg, ed una velocità massima di circa 1.100 km/h.
Ricognitore telecontrollato Ryan Model 147A Fire Fly ( Usa, circa metà anni ’60)
Questi droni potevano essere lanciati da terra, con l’ausilio di un razzo ausiliario, ma più comunemente venivano trasportati sotto le ali di un grosso velivolo da trasporto militare fino ai margini della zona di operazione, per poi essere sganciati in aria.
Il loro sistema di guida era ancora relativamente semplice e la loro rotta, programmata prima del lancio e seguita quindi automaticamente, era essenzialmente un percorso in linea retta al termine del quale il drone eseguiva una virata di 180° e ritornava verso la zona di lancio.
Il loro volo si poteva svolgere, a seconda delle esigenze, sia a bassa che ad alta quota (18-19.000 metri), per una durata di 1-2 ore con un raggio d’azione dell’ordine dei 1.000 km. Al termine della missione questi droni scendevano verso terra o verso il mare (potevano galleggiare a lungo), appesi ad un paracadute; fu anche sviluppato un sistema di recupero «al volo», mediante appositi elicotteri che agganciavano il paracadute, in modo da minimizzare i danni all’atterraggio.
Non erano armati, ma dotati di un complesso di sensori (macchine fotografiche, apparati di registrazione e analisi dei segnali, eccetera) in grado di spiare il territorio e le apparecchiature elettroniche del nemico (stazioni radio e di navigazione, radar, eccetera), e anche di svolgere azioni di disturbo delle stesse.
La guerra del Vietnam non fu comunque il solo conflitto a incubare lo sviluppo e l’evoluzione dei droni.
Per esempio durante la Guerra del Yom Kippur (1973) gli israeliani ebbero modo di utilizzare con successo dei droni ricognitori della Ryan, ottenuti dagli americani, usati anche come «velivoli civetta» e come disturbatori delle comunicazioni radio.
Subito dopo iniziarono a sviluppare autonomamente piccoli droni a breve raggio per la sorveglianza del campo di battaglia. Inoltre, secondo alcune fonti, una versione armata dei ricognitori della Ryan, denominata BGM-34A, in grado lanciare un missile aria superficie, fu da loro usata durante il conflitto fra Siria e Israele del 1982.
Queste prime esperienze furono la base sulla quale l’industria bellica israeliana costruì il suo successivo sviluppo, che ne fa oggi uno dei più importanti produttori di droni militari.
Dagli UAV agli RPS
Il fugace accenno al ruolo di Israele nella storia dei droni, ci torna utile a introdurre le vicende che portarono alla realizzazione dei primi RPS (Remote Piloted Systems), capostipiti della «terza fase» di sviluppo dei droni militari: dalle idee e dalle iniziative dell’ingegnere israeliano Abraham Karem, ebbero infatti origine questi rivoluzionari velivoli che aprirono la strada al definito ingresso da protagonisti dei droni nei più recenti scenari militari.
Karem, nato in Iraq nel 1937 da famiglia ebrea, si era laureato ad Haifa in ingegneria aeronautica. Dopo aver partecipato in Israele allo sviluppo dei primi droni, nel 1980 si trasferì in California, dove cercò di far tesoro delle sue esperienze precedenti iniziando una modesta attività di costruzione di velivoli, fondando una piccola società, la Leading Systems Incorporeted (LSI).
Il suo primo vero successo fu un piccolo velivolo teleguidato, denominato Albatross, che pur avendo una modesta velocità, dimostrò di avere un’autonomia enormemente superiore ai velivoli senza pilota allora disponibili, potendo restare autonomamente in volo per decine di ore.
Abraham Karem con il prototipo dell’Albatross (Usa, 1982)
L’Albatross attirò l’attenzione della DARPA una importante agenzia di ricerca governativa americana che ne intuì le potenzialità di sviluppo e finanziò due successivi prototipi, lo Amber, che volò nel 1988 e lo Gnat-750 (moscerino), che fu pronto l’anno successivo4.
Lo Gnat-750 era equipaggiato con un motore a scoppio da 80 Hp, della stesso tipo (Rotax) che in quegli anni si era affermato per l’uso sui velivoli «ultraleggeri»; il motore era sistemato in coda e azionava un’elica spingente.
Aveva un’apertura alare di quasi 11 metri, un peso a pieno carico di circa 500 kg e una velocità massima dell’ordine dei 200 Km/h; poteva restare in volo fino a 48h, raggiungendo quote attorno ai 7.000 metri.
In una torretta anteriore, orientabile e stabilizzata, lo Gnat-750 alloggiava i potenti sensori che gli consentivano di svolgere i suoi compiti di ricognizione diurna e notturna, in particolare telecamere ad alta risoluzione nel visibile e nell’infrarosso. Nel suo apparato automatico di guida era inoltre possibile integrare il collegamento al sistema di navigazione satellitare GPS5 che introduceva un sostanziale progresso rispetto a quanto fino allora era stato disponibile, consentendo una facilità di navigazione e di individuazione/raggiungimento degli obbiettivi prima impensabile.
Nel 1993 i primi esemplari di produzione dello Gnat furono venduti alle forze armate della Turchia, mentre negli Usa il drone fu utilizzato essenzialmente dalla CIA, per azioni di ricognizione ed intelligence nello scenario balcanico, sconvolto dalle guerre e guerriglie che fecero seguito alla caduta della ex-Jugoslavia.
In queste prime esperienze operative vennero in luce alcuni importanti limiti del velivolo (per esempio la mancanza di un sistema antighiaccio sulle ali ne ostacolava fortemente l’uso in inverno) e del suo sistema di trasmissione dati, che aveva una portata nettamente inferiore al suo potenziale raggio d’azione.
Ulteriori versioni migliorate dello Gnat furono quindi realizzate negli anni successivi, ma le interessanti potenzialità di questo tipo di drone che erano state intuite dall’ambiente dei militari e della intelligence con l’utilizzo degli Gnat, trovarono piena realizzazione solamente con lo sviluppo del suo successore, il General Atomics Predator (predatore).
Il drone armato General Atomics MQ-1 Predator (USA, 2002-2003)
I droni militare delle ultime generazioni
L’architettura generale e la configurazione aerodinamica del Predator non sono molto diverse da quelle dello Gnat, anche se dimensioni e pesi sono superiori. Esteriormente la differenza più evidente è costituita da una carenatura tondeggiante anteriore, che copre e protegge una grossa antenna a disco per le comunicazioni satellitari.
In effetti le novità più importanti di questo drone, rispetto ai suoi diretti predecessori, consistono soprattutto nelle dotazioni strumentali e nei sistemi di comunicazione, e non solamente in quelli installati a bordo del velivolo, ma anche in quelli che fanno parte dei box di controllo di terra (GCS, ground control station), nei quali sono alloggiati gli operatori dai quali questi droni vengono manovrati.
Schema del sistema di comunicazione e controllo (GCS) dei droni Predator e Reaper
Come evidenziato nello schema riportato nell’immagine precedente il sistema di comunicazione è duplice, consistendo sia in un data-link diretto che opera nella banda di frequenza C (4-8 GHz), sia in un data-link satellitare che opera nella banda di frequenza Ku (12-18 GHz); entrambi sono in grado di gestire tutto il traffico di segnali fra il drone e la GCS, consentendone un completo controllo a distanza, ben oltre l’orizzonte visivo, che era il limite dei suoi predecessori.
A terra operano un pilota, che gestisce navigazione e manovre, e un addetto a sensori/sistemi/armamenti, che acquisisce e valuta i dati prodotti dalle telecamere, dal radar e dagli altri sensori di bordo, con i quali si ha la visione del terreno sia di giorno che di notte, e anche in presenza di copertura nuvolosa, foschia e polvere.
Il pilotaggio può essere sia automatizzato che completamente manuale e, grazie al link satellitare, gli operatori del drone possono teoricamente trovarsi anche dall’altra parte del mondo, rispetto al teatro di operazioni6 (dato che questo drone può stazionare per circa 20 ore a una distanza fino a 900 km dalla base di partenza, ovviamente essi lavorano a turni).
Nella versione armata il Predator è dotato anche di un «designatore laser» che serve alla guida dei missili AGM-114 Hellfire che vengono portati sotto le ali (si tratta di missili nati per l’utilizzo sugli elicotteri anticarro).
È questo armamento che ha trasformato il Predator nel micidiale killer che ha tanto impressionato l’opinione pubblica per le azioni, soprattutto di antiterrorismo, che ha compiuto.
Per finire accenniamo al fatto che il drone è completamente smontabile in sei componenti principali, che vengono alloggiati in appositi container trasportabili per via aerea: esso può quindi essere rapidamente ricollocato in differenti scenari operativi. Il costo di un sistema completo Predator (drone più GCS) è dell’ordine dei 4-5 milioni di dollari.
Per quanto riguarda il Reaper, (mietitore) la somiglianza della sua struttura generale con quella del Predator, rende immediatamente evidente che si tratta di una diretta evoluzione del suo predecessore. Le dimensioni, i pesi, le prestazioni, e anche i costi, di questo drone sono però nettamente superiori.
La velocità massima è infatti dell’ordine di 480 km/h, il peso massimo è circa quadruplo e anche l’armamento è molto superiore (fino a 12 missili Hellfire e anche bombe a guida laser). Di conseguenza il motore installato, che non è più a scoppio, ma a turboelica, ha una potenza assai più elevata (circa 950 Hp, contro i 100-110 del Predator).
La dotazione di sensori e il sistema di guida sono invece analoghi a quelli del suo predecessore. Con tali caratteristiche e prestazioni questo drone viene considerato dalle Forze Aeree Americane (USAF), non più un semplice sistema per la ricognizione e l’intelligence, ma un vero e proprio aereo d’attacco a pilotaggio remoto.
Il drone General Atomics AQ-9 Reaper, armato di missili e bombe guidate (Usa, 2007)
Infine ricordiamo che Predator, nella versione non armata RQ-1, entrò in servizio nell’aeronautica statunitense nel 1995; la versione armata con due missili, denominata MQ-1 fu usata a partire dal 2002-2003, mentre la versione potenziata MQ-9 Reaper è comparsa nel 2007; sia il Predator che il Reaper sono tuttora in produzione, e in servizio non solo con l’USAF, ma anche con le aviazioni militari di diversi paesi, compresa l’Aeronautica Militare Italiana.
Sistemazione interna di parte della strumentazione nel prototipo del Reaper (Usa, 2004)
Negli ultimi 10-15 anni, l’interesse dei militari per gli UAV e gli RPS è enormemente cresciuto in tutto il mondo.
Le industrie aeronautiche di molti paesi (compresi quelli emergenti) hanno iniziato a lavorare alacremente allo sviluppo di svariati modelli di velivoli a controllo remoto, dalle dimensioni e prestazioni molto differenti: si va dai piccoli ricognitori per la sorveglianza del campo di battaglia, dalla struttura che ricorda i primi «aeromodelli/bersaglio» della Radioplane, ai grandi ricognitori d’alta quota, quali il Nortrop-Grumman (ex Ryan) Global Hawk.
Conclusione
Una panoramica, seppur sommaria. su quanto offre oggi il mercato dei droni militari richiederebbe uno spazio che non abbiamo qui a disposizione.
Ci fermiamo quindi a questo punto, sperando in ogni caso che i brevi accenni fatti alle origini storiche e agli sviluppi recenti, siano stati utili al lettore almeno per iniziare a orientarsi in questo affascinante e conturbante ramo della tecnologia.
Come accennato all’inizio, nella seconda parte dell’articolo rivolgeremo la nostra attenzione ad altri tipi di droni, sviluppati soprattutto a partire dall’inizio del terzo millennio, che hanno trovato applicazioni prevalenti in campo civile.
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Gianluca Lapini
(Ingegnere, già ricercatore presso CISE e CESI SpA)
Note
Una delle prime, se non la prima, dimostrazione della possibilità di controllare a distanza un oggetto in movimento tramite impulsi radio, fu data nel 1898 dal noto inventore americano (di origini balcaniche) Nikola Tesla, che in un’apposita vasca costruita al Madison Square Garden di New York, di fronte a un numeroso pubblico, comandò le evoluzioni di un modello motorizzato di nave.
I missili, oltre a essere propulsi, nella maggior parte dei casi, da un motore a razzo, invece che da un motore a reazione, che usa come comburente l’aria atmosferica, seguono in genere delle traiettorie balistiche, simili cioè a quelle dei proiettili di artiglieria.
Ci sono per altro ampie varianti a questa definizione; per esempio i missili cruise hanno motori a reazione e seguono traiettorie guidate, aderenti al terreno e ai suoi rilievi.La grave crisi internazionale che fece seguito all’abbattimento da parte dell’Unione Sovietica di un velivolo spia americano Lockeed U-2, e alla cattura del suo pilota Gary Powers, avvenuta il 1 maggio del 1960, fu uno degli stimoli allo sviluppo dei droni da ricognizione, ma non tolse affatto dalla scena i velivoli pilotati, tanto che gli americani svilupparono anche il sofisticatissimo ricognitore trisonico SR-71.
Per motivi qui troppo lunghi da spiegare, la DARPA uscì presto di scena e lo sviluppo dello Gnat fu proseguito sotto l’egida di altri organismi militari. Anche la società LSI, troppo piccola per sostenere il peso e la complessità tecnico/gestionale del progetto, scomparve presto, venendo assorbita, con tutto lo staff tecnico di Karem, dalla General Atomics, un gruppo industriale dalle spalle molto più robuste e dalla notevole esperienza nel campo delle commesse militari.
Il sistema satellitare di posizionamento globale GPS ebbe una lunga fase di sviluppo e messa a punto per tutti gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, sotto l’egida di tutte le forze armate statunitensi.
Nel 1989 iniziarono i lanci in orbita dei satelliti che rappresentavano la fase definitiva e operativa del suo sviluppo e contemporaneamente comparvero sul mercato i primi ricevitori veramente portatili, quali il Magellan NAV1000, che aveva le dimensioni di una radio portatile e pesava solamente 850 grammi.
Il sistema GPS dimostrò per la prima volta la sua enorme utilità per le operazioni militari, durante la Prima Guerra del Golfo, nel 1991.Per meglio comprendere come funziona questa possibilità, bisogna precisare che viene utilizzata una modalità operativa denominata remote split operation, nella quale il data link satellitare viene collocato in una località differente e viene collegato alla GCS tramite una rete di cavi ottici.
Il drone viene così gestito localmente tramite un più piccolo e semplice «modulo di lancio e recupero», dopo di che il suo controllo viene passato a un «sistema di controllo missione», che può trovarsi anche a grande distanza.
In questo modo si limita il personale specialistico da dislocare in vicinanza dei fronti operativi e si concentra il controllo di più droni e di differenti voli in uno stesso luogo.
© Pubblicato sul n° 64 di Emmeciquadro