All’interno di un nuovo corso di formazione promosso da Diesse Lombardia sulla contemporaneità, il tema del rapporto tra uomo e tecnologia ha trovato numerose e precise indicazioni per un’azione educativa fondata sulla centralità della persona.
Lo scorso anno ho scritto, in diverse occasioni, sulle pagine di questa rivista, a riguardo dell’importante e innovativo corso di formazione La contemporaneità: conoscerla per insegnarla, rivolto a insegnanti della scuola di primo e secondo grado, promosso da Diesse Lombardia.
Il lavoro di approfondimento è proseguito e quest’anno è stato realizzato un nuovo percorso dal titolo La contemporaneità. Le nostre radici e la comprensione del presente per raccontarle alle nuove generazioni.
Si è voluto in questo modo addentrarsi all’interno delle tematiche già individuate e trattate nella precedente edizione, sempre con lo scopo di aiutare insegnanti e studenti a riflettere sul tema della contemporaneità per cercare di comprenderne la complessità.
Gli stessi nodi culturali, ritenuti decisivi per un’adeguata coscienza critica del nostro tempo, sono stati ripresi e rimessi in discussione grazie agli interventi di importanti relatori: scienziati, filosofi, giuristi, letterati, giornalisti.
Sono stati sei gli incontri ed è sufficiente una rapida scorsa al titolo di ciascuno di essi per meglio comprendere il carattere epocale dei temi affrontati:
Oltre la specie. Abitare la tecnologia;
L’intelligenza artificiale;
Fare le leggi e applicare le norme: diritto e politica;
Globalizzazione e processi transnazionali;
I linguaggi della contemporaneità in arte e in letteratura;
Mondo classico: presenza o estraneità? Dialogo tra cultura umanistica e scientifica.
Non intendo fornire una sintesi delle molteplici riflessioni offerte e discusse all’interno del corso, non solo perché con ogni probabilità verranno pubblicati gli atti, come accaduto lo scorso anno, ma anche perché non sarebbe possibile, in questa sede, andare oltre un breve sommario degli argomenti.
Preferisco, invece, a partire dai temi affrontati nei primi incontri, recuperare alcuni spunti a riguardo del rapporto tra l’uomo e la tecnologia. Essa rappresenta indubbiamente una delle principali sfide della nostra epoca e favorirne una consapevolezza critica è senza ombra di dubbio un compito imprescindibile della scuola.
Occorre, infatti, riuscire a comprenderne le principali problematiche, se non si vuole semplicemente inseguire mode e stili cognitivi che il nuovo contesto tecnologico impone. Può risultare certamente utile che il mondo della scuola si apra alle nuove tecnologie, che vi ricorra per pensare e realizzare una didattica innovativa, ma tutto ciò può avvenire senza mettere adeguatamente a tema le gravi implicazioni, soprattutto di natura antropologica, presenti?
Inoltre, l’insegnamento della filosofia, come quello delle scienze, e indirettamente anche quello letterario, richiedono una seria e approfondita riflessione sul modo con cui la tecnologia introduce una nuova concezione dell’uomo e della società, se si vuole procedere a un vero aggiornamento dei saperi.
Astenersi dall’affrontare tali problematiche significa perdere un’occasione fondamentale per fare emergere il valore della tradizione attraverso il confronto con uno degli aspetti più imponenti della contemporaneità.
Le lezioni di Francesco Botturi e Carlo Soave, gli interventi di Samir Suweis e di Mario Gargantini hanno contribuito a fare chiarezza su queste tematiche aprendo interrogativi decisivi per sviluppare un’adeguata coscienza critica.
Un primo e importante suggerimento fornito in tal senso è stato quello di superare l’equivalenza tra tecnica e tecnologia. Noi usiamo spesso questi termini come sinonimi, tuttavia esistono differenze fondamentali. Se ci sforziamo di andare oltre il luogo comune che intende la tecnologia come semplice sviluppo della tecnica, è possibile cogliere due prospettive molto diverse all’origine di tali processi.
Se nel precedente corso Carmine Di Martino ha chiarito come l’uomo sia un essere tecnico, come la tecnica sia da considerarsi parte costitutiva dell’umano (anche se non esclusiva dal momento che l’uomo è anche un essere definito dalla sua creatività artistica, dalla coscienza morale, dal senso religioso), Botturi ha ulteriormente approfondito la questione, mostrando come la tecnologia presupponga un rapporto tutt’altro che strumentale con la realtà, differentemente dalla tecnica. Infatti, attraverso la tecnica, l’uomo è in grado di trasformare la natura facendola diventare parte del mondo umano.
Essa svolge un’importante mediazione strumentale tra l’uomo e la natura e, in quanto tale, essa è controllata dall’uomo. Invece, con la tecnologia assistiamo a un processo in cui l’uomo e il suo mondo vengono inglobati nel mondo tecnologico.
Perché la tecnologia ha un potere talmente pervasivo da fare sì che l’uomo non abbia più davanti a sé la natura, ma diventi parte integrante dell’ambiente costruito dalla tecnologia. Tale potere della tecnologia si fonda su conoscenze scientifiche sofisticate, che permettono di controllarla perfettamente, di verificarla all’interno di un mondo che si autocostruisce.
La tecnologia costituisce il proprio ambiente con inedita invasività producendo una nuova oggettivazione del soggettivo. Differentemente la tecnica, se ne assumiamo il significato tradizionale, come attività produttiva regolata da ragione, per dirla con Aristotele, «imitazione della natura», o anche con le parole di Bacone, «potenziamento dell’umano», fa riferimento all’esperienza comune di ogni uomo, implica il costante paragone tra l’uomo e la natura.
Se si tiene presente questo si capisce come la tecnologia non sia da intendere come estensione della tecnica ma sia diversamente costituita, proprio perché rappresenta una nuova forma di ragion pratica dotata di una nuova potenza, che si autocostruisce, autopoietica e autoreferenziale.
Per sua natura la tecnologia comporta una concentrazione straordinaria di risorse materiali, umane, finanziarie che realizzano una gestione tecnocratica del mondo, non più politica, non più morale. Non a caso assistiamo alla cosiddetta crisi delle ideologie perché esse, superate da questa visione tecnocratica, non servono più per governare la società.
È sufficiente guardare a quanto accade nel mondo oggi per capire come le élite e i potentati intendano sfruttare la tecnologia per realizzare una società nella quale non ci sia più spazio per religioni, ideologie, culture. È il grande problema della tecnocrazia, per cui possiamo dire che l’uomo è sempre più in balia di chi dispone dei mezzi tecnologici.
Anche Soave, attraverso un excursus storico molto interessante, ha mostrato come tecnica e tecnologia abbiano modificato radicalmente la natura, tanto che difficilmente oggi possiamo distinguere tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale, perché l’uomo, fin dall’inizio, con capacità tecniche sempre maggiori, è stato in grado di trasformare l’ambiente naturale in un ambiente umano.
Tuttavia, oggi è l’uomo stesso a diventare oggetto manipolabile, secondo modalità sempre più totali. Tra i tanti esempi portati, il recente Human Genome Project-write, ovvero il progetto con cui si vuole arrivare a sintetizzare in laboratorio un intero genoma umano, progetto che prevede un investimento di 100 milioni di dollari e un tempo di 10 anni per completarlo, è il più esplicito e inquietante in tal senso.
Nonostante i proponenti dichiarino che intendono procedere per capire meglio il funzionamento dell’organismo umano, è chiaro che il vero scopo sia quello di costruire il superuomo, l’uomo esente da imperfezioni, esente dai mali della vecchiaia e, se non proprio immortale, quasi immortale.
Del resto già nel 1958, Hannah Arendt, nella sua opera Vita activa, aveva chiaramente indicato questo tentativo dell’uomo di volere andare oltre se stesso: «Quest’uomo del futuro […] sembra posseduto da una sorta di ribellione contro l’esistenza umana come gli è stata data […], che desidera scambiare, se possibile, con qualcosa che lui stesso abbia fatto».
In termini ugualmente invasivi e preoccupanti il campo dell’intelligenza artificiale, di cui hanno trattato Suweis e Gargantini, sembra mettere in discussione proprio l’originalità, la specificità dell’uomo come essere pensante che agisce intelligentemente.
L’uomo appare sempre di più come sostituibile in tutto e per tutto dal computer, dal momento che imponenti sistemi informatici oggi permettono non solo di simulare l’intelligenza dell’uomo, ma anche di superarla e integrarla, in modo impensabile solo qualche decina di anni fa.
Anche in questo caso l’uomo sembrerebbe destinato a soccombere di fronte al potere tecnologico in grado di procedere senza l’uomo e meglio dell’uomo.
Paradossalmente l’uomo è affascinato da tale straordinario sviluppo di potere e, al tempo stesso, minacciato da questa sempre maggiore subordinazione di sé alla tecnocrazia. Del resto, come ha evidenziato Botturi, tutta la tecnicità moderna, lungo il Novecento, è stata, da un lato, oggetto di gravi critiche, indicata come forma di aggressività e violenza, come espressione compiuta del nichilismo occidentale, dall’altro, è stata concepita, dalla cultura dominante in occidente, come la forma più efficace di un’irrinunciabile razionalizzazione del mondo.
Come riuscire a superare questa ambivalenza presente nella concezione e nello sviluppo del pensiero tecnologico? Come riuscire a resistere al potere disumanizzante della tecnocrazia?
A detta di Botturi è necessario mettere in discussione la sostanza antropologica della tecnologia, dal momento che, come diceva anche Heidegger, «la natura della tecnica non è nulla di tecnico». Occorre cioè capire come all’origine della tecnicità umana vi sia un’essenziale inquietudine. Infatti, il movente del bisogno, a cui si cerca di rispondere con determinate scoperte o innovazioni tecnologiche, non ne esaurisce la spiegazione.
«La logica tecnica – ha precisato Botturi – è piuttosto quella della possibilità: il bisogno cerca una soddisfazione che esaurisca l’attesa, anche attraverso un dispositivo tecnico; ma la tecnica va sempre alla ricerca di ulteriori possibilità, anche a prezzo di rompere l’equilibrio e di creare ulteriori bisogni». Diversamente dall’animale il bisogno umano è investito e sopravanzato dal senso della possibilità.
All’interno del potente condizionamento dell’ambiente tecnologico, che plasma il mondo e il pensiero, inevitabile necessità storica, ciò che muove la tecnologia, dal punto di vista antropologico, è il desiderio umano, comune a tutti gli uomini.
Diventa allora fondamentale riscoprire tale desiderio e interrogarsi sulla sua dimensione ontologica, costitutiva e fondante l’azione dell’uomo. Secondo Botturi, il pensiero tecnologico non diventa «pensiero unico», solo se l’orientamento prioritario del desiderio viene rivolto al «mondo della vita», solo se l’uomo si riappropria consapevolmente del dinamismo profondo e strutturale del desiderio umano.
Anche se si guarda in profondità il tema dell’intelligenza artificiale, dove, almeno secondo alcuni, sembra essere destinata a scomparire la differenza tra uomo e computer, emerge come il miracolo della coscienza non sia in alcun modo riproducibile.
La consapevolezza di cui è capace l’uomo, la soggettività dell’esperienza giudicante la realtà rimangono dimensioni assolutamente inimitabili dalle macchine. Le parole, riportate da Suweis, del fisico e inventore Federico Faggin, lo esprimono in modo essenziale: «La consapevolezza è un canale conoscitivo straordinario che le macchine non hanno; una differenza che è fondamentale e monumentale; la differenza tra vita e morte; un miracolo che avviene ogni secondo della nostra vita, che però non riconosciamo come tale poiché è sempre stato parte di noi. Che senso avrebbe la vita se non sentissimo niente? Se non sentissimo affetto, gioia, entusiasmo, il senso della bellezza e perché no, anche il dolore? La consapevolezza è un miracolo che oggi dobbiamo riconoscere in pieno se vogliamo fare un vero passo avanti nella nostra evoluzione; è la differenza sostanziale e irriducibile tra un computer e un uomo […] Questo è il momento storico di prendere coscienza del miracolo della coscienza».
Sebbene, come dichiarato, non sia stato possibile in questa sede ripercorrere in modo puntuale le lezioni del corso, ritengo che gli spunti qui offerti possano fare intuire quanto sia decisiva, per coloro che insegnano, la riflessione suggerita.
Conoscere e insegnare in un tale contesto chiede più che mai di mettere al centro dell’azione educativa la propria capacità di giudizio. Del resto tanto più gli strumenti sono «potenti», tanto più occorre che un soggetto sia aiutato a sviluppare una capacità critica.
Per questo si può dire che è fondamentale che l’insegnante riscopra il proprio compito educativo, cercando di fare esperienza e di far fare esperienza dell’unità e dell’integralità dell’atto del conoscere, rimettendo a tema la centralità della persona.
Giulio Luporini
(Docente di Storia e Filosofia nella Scuole secondaria di secondo grado, è membro del direttivo di Diesse Lombardia – Didattica e innovazione scolastica, Centro per la formazione e l’aggiornamento)
© Pubblicato sul n° 64 di Emmeciquadro