La questione terremoti, nel nostro paese tuttora purtroppo di grande attualità, suscita tante domande e trova in risposta, soprattutto nei media a grande diffusione o sui social, informazioni anche interessanti che tuttavia, senza un quadro sintetico, restano, per chi le ascolta, frammentarie e incomprensibili. L’autore di questo contributo, ricercatore dell’INGV, ci aiuta a capire come e perché la scienza non riesce a prevedere tutto e, in particolare, quali passi si sono fatti e si stanno facendo per aumentare le nostre conoscenze sui terremoti, con attenzione anche alla modellizzazione di fenomeni così complessi, nella speranza che si abbiano ricadute anche nel campo della sicurezza. È importante cercare di evitare a priori i disastri anziché discutere a posteriori se si può prevedere quando viene il terremoto.
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Terremoto, una parola diventata decisamente più popolare negli ultimi anni. Dallo scorso Agosto si è fatto un gran parlare degli avvenimenti che hanno interessato l’Appennino, dei problemi legati alla gestione di un’emergenza sovrapposta all’emergenza e delle spiegazioni più o meno scientifiche sull’accaduto.
Tutte queste informazioni si sono mescolate in un cocktail che ha spesso confuso le idee invece di chiarirle. Si è dunque deciso di affrontare l’argomento dedicando spazio alla emergenza sismica spesso definita «di Amatrice» e, più in generale, al fenomeno terremoto.
Vi saranno dunque due contributi: il primo a carattere più ingegneristico. Il secondo, che verrà pubblicato sul prossimo numero della rivista, descriverà invece cosa accade nella sala sismica dopo un terremoto.
Più terremoti che nel passato?
Si diceva dunque un argomento popolare.
In effetti, a partire dal 1997 (terremoto in Umbria Marche) si sono susseguiti nella nostra penisola numerosi eventi di una certa rilevanza tanto da dare l’impressione che non ci siano stati, nel precedente passato, periodi così sismici.
E sicuramente la recente sequenza nell’Appennino Centrale, con le sue 50000 scosse in 6 mesi di cui ben 9 di magnitudo superiore a 5.0, ha ulteriormente contribuito a questa popolarità.
Ma si tratta di una percezione corretta o è solo un effetto dovuto, per esempio, alla massiccia presenza dei mezzi di informazione e al loro maggiore interesse verso le catastrofi naturali?
La risposta, in maniera salomonica, è sì e no. Mi spiego.
Prima del 1997, per essere precisi dal 1980, data del terremoto dell’Irpinia, e durante i seguenti 17 anni, la nostra penisola è stata colpita da un numero relativamente alto di terremoti forti.
Si contano in quel periodo 25 eventi sismici di magnitudo uguale o superiore a 5.0 (emidius.mi.ingv.it/CPTI15-DBMI15); tuttavia alcuni di questi sono avvenuti in mare aperto e spesso a grande profondità, con scarso o nullo danno in terra.
Altri sono stati causa di pochi danni, soprattutto al patrimonio monumentale. In pratica solo 5 eventi hanno generato vittime, sostanzialmente in tre episodi nel 1984, nel 1990 e nel 1996, in numero molto contenuto e in alcuni casi in maniera indiretta per infarti dovuti al panico.
Tra il 1997 e il Gennaio 2017 vi sono invece stati 39 eventi di magnitudo superiore a 5.0 spesso raggruppati in episodi come la crisi del 2009 e quella del 2016-1017 ed anche in questo caso talvolta senza conseguenze né risentimenti per le nostre città. Tuttavia è vero che le perdite umane sono state molto numerose: il triste bilancio assomma infatti a circa 700 vittime in totale.
Per rispondere dunque alla domanda se ci siano stati più terremoti nell’ultimo ventennio che negli anni precedenti è evidente che i due periodi siano abbastanza comparabili, in particolare se si considerano intervalli temporali di uguale durata.
Per essere più precisi, infatti, si dovrebbe estendere l’analisi al periodo 1977-1997, nel quale si annoverano anche il catastrofico terremoto dell’Irpinia del Novembre 1980 e tutte le sue repliche, con il triste bilancio di 3000 morti che quel terremoto portò con sé.
Spingendosi più indietro nel tempo e per periodi di pari durata si può osservare che il ventennio 1957-1977 comprende i due maggiori eventi del Belice 1968 e del Friuli 1976, ambedue forieri di vittime, intervallati da ulteriori eventi mortali come quello del 1962 in Campania, sfatando dunque definitivamente il carattere di maggiore frequenza sismica del ventennio attuale. Ma non delle conseguenze del terremoto.
In effetti, in media ogni cinque-sei anni in Italia avviene un terremoto calamitoso, con eccezione del periodo 1981-1996 in cui, pur essendosi verificati molti eventi, non ve ne è stato nessuno particolarmente catastrofico, e questo ha contribuito, almeno in parte, alla percezione dell’attuale periodo come più sismico soprattutto se raffrontato con quello immediatamente precedente.
Tra l’altro, in una nazione come la nostra dove si agisce quasi esclusivamente nell’emergenza, quel periodo relativamente tranquillo ha rallentato molti dei progetti che i terremoti dell’Irpinia avevano stimolato.
Basta questo a giustificare la sensazione di più intensa sismicità? Indubbiamente la maggiore copertura dei media, la presenza massiccia dei social network, la presenza forte della televisione hanno contribuito a far vivere i terremoti degli ultimi anni come fatti di cronaca più che come accadimenti naturali, aumentandone la popolarità.
La percezione falsata dall’informazione
Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, l’informazione relativa al terremoto era confinata ai telegiornali, alle pagine dei quotidiani e a qualche inchiesta giornalistica dedicata, mentre ora la catastrofe diventa protagonista dell’info-intrattenimento e viene trattata anche in ambiti non convenzionali. Se ne trova traccia non solo sui quotidiani ma anche sulle riviste non specializzate, spesso con una spettacolarizzazione e un approfondimento che assomigliano sempre di più a quelli del web.
Così anche chi non è strettamente interessato al fenomeno è «costretto» dalla quantità di offerta mediatica a sentirne parlare suo malgrado, e si convince magari di vivere in un momento partico-larmente sfortunato. Inoltre, la quantità di danni causati dai più recenti terremoti, apparentemente non proporzionale alle magnitudo degli eventi, contribuisce alla sensazione di vivere un periodo di maggiore accanimento sismico.
La realtà è invece che viviamo sì in una nazione fragile, ma non certo e non solo per il numero e la forza dei terremoti che la colpiscono: va piuttosto considerato come principale responsabile il modo in cui abbiamo costruito le nostre abitazioni, in totale noncuranza dei messaggi che il territorio ci ha mandato.
Giovanni Agamennone già nel 1926 scriveva «Gli scienziati di ogni tempo, incaricati di studiare gli effetti di terremoti più o meno disastrosi, non hanno mai mancato di richiamare l’attenzione sulla necessità di costruire in modo speciale i fabbricati in regioni soggette a movimenti tellurici; ma disgraziatamente i loro moniti non sono mai stati presi in seria considerazione né dai Governi, né dai privati i quali, dopo che il suolo ha riacquistata l’ordinaria stabilità, finiscono per darsi pace e non pensare più alla eventualità di future catastrofi sismiche.».
La mancanza di scuotimenti importanti nel recente passato e un certo pressappochismo nell’informazioni hanno anche indotto alcuni a credere che zone che non erano originalmente si-smiche lo siano diventate con i terremoti dell’ultimo decennio. Basta consultare in maniera critica le carte di pericolosità sismica per capire che anche questo è in buona parte inesatto.
Le mappe di pericolosità sismica
Le mappe di pericolosità sono strumenti preparati dalla comunità scientifica per indicare ad amministratori e tecnici qual è la potenzialità di una data area di essere colpita da un terremoto.
[A sinistra: Mappa di pericolosità per il territorio italiano elaborata nell’aprile 2004]
Attraverso una intuitiva scala di colori, dietro alla quale stanno invece meno intuitivi studi basati su dati provenienti da molte fonti, è possibile individuare la tendenza di un certo settore a essere colpito da un terremoto con energia rappresentata da tinte che vanno dal grigio (bassa o nulla pericolosità) al viola (elevata).
L’individuazione di queste aree è stata relativamente incompleta fino al 1980, ma, in seguito a una accurata ricostruzione, tramite appositi studi, dei terremoti che negli ultimi due millenni hanno colpito l’Italia, alla mappatura geologica del nostro territorio e all’evoluzione della strumentazione sismica, la comunità scientifica aveva prodotto già alla fine degli anni Novanta una carta aggiornata.
Tuttavia ci volle il terribile terremoto di San Giuliano di Puglia, in cui il crollo di una scuola mieté 30 vittime tra scolari e maestre, per costringere il legislatore ad adottarla. E questo avvenne con un provvedimento d’urgenza nel 2003; una classificazione poi evolutasi in quella definitivamente adottata come riferimento ufficiale per la pericolosità sismica nel 2006.
A partire da quel momento, stante la possibilità per le singole Regioni e Province autonome di ag-giornare le zone sismiche in base a criteri definiti a scala comunque nazionale, su quella carta sono indicate con i colori più impegnativi tutte le aree di cui abbiamo recentemente sentito parlare alla televisione: l’Abruzzo, l’Emilia, le Marche, il Lazio, l’Umbria.
E altre che sono altrettanto citate nelle cronache storiche, come la Sicilia, la Calabria, la Campania, il Friuli, parte della Toscana, la Liguria Occidentale.
Sono queste le zone dove si deve e si sarebbe dovuto costruire secondo regole adeguate alle sollecitazioni attese, ma nella maggior parte dei casi ciò non è avvenuto. O meglio è stato fatto di volta in volta secondo le norme vigenti e le conoscenze dei vari periodi in cui le nostre città sono cresciute e si sono allargate, con l’aggravante tutta italiana secondo cui un condono sana in qualche maniera errori progettuali e inosservanze anche importanti.
Le norme tecniche si sono evolute procedendo sostanzialmente per terremoti, con aggiustamenti alle regole precedenti in base agli studi sul più recente evento sismico.
Le normative sulle costruzioni
In questo tragitto un po’ accidentato si incontrano pietre miliari come le leggi del 1962 e quella del 1974, pubblicate quando però molte città erano già abbondantemente edificate. Secondo il rapporto Ance-Cresme il 60% del patrimonio edilizio è stato costruito prima della normativa del 1974 e quindi secondo norme tecniche parzialmente inadeguate rispetto alle attuali conoscenze.
Dal 2009 in Italia vige una normativa agganciata agli Eurocodici, ovvero alle leggi europee per la progettazione strutturale.
Questa normativa prevede che tutti gli edifici di nuova costruzione debbano rispettare stringenti norme tecniche che prevedono la combinata valutazione della pericolosità sismica dell’area, calcolata su un reticolo di nodi con spaziatura di 10 km; del tipo di terreno su cui poggiano le fondazioni; della condizione topografica del sito dove verrà costruito l’edificio (pendii o rilievi, con diverse inclinazioni); degli effetti di amplificazione del moto sismico in funzione dello spessore della coltre sedimentaria, ovvero di quanto cambia l’accelerazione del suolo a causa della presenza di materiale incoerente. Inoltre, per ogni edificio occorre quantificare la vita nominale, cioè il periodo di tempo in anni nel quale la struttura, soggetta alla manutenzione ordinaria, deve potere essere usata per lo scopo al quale è destinata, e la classe d’uso, tesa a distinguere gli edifici di interesse strategico, cioè quelli che hanno un particolare significato in caso di emergenze (ospedali, per esempio) o sono particolarmente pericolose per l’ambiente (fabbriche con lavorazioni chimiche, centrali elettriche).
La combinazione di queste due variabili concorre alla determinazione del periodo di riferimento rispetto al quale deve essere valutata la pericolosità. Due edifici vicini, ma con finalità diverse, saranno costruiti utilizzando parametri ad hoc per ognuno di loro.
In pratica è dunque necessario calcolare valori specifici delle grandezze citate per ogni sito dove verrà posizionata una nuova costruzione, che dovrebbe quindi, così progettata, essere in grado di resistere alle più forti sollecitazioni sismiche ipotizzate per quell’area.
E gli edifici già esistenti? I numerosi monumenti che adornano le nostre città, e che magari risalgono a centinaia di anni fa? Anche su questi è possibile intervenire, anzi è obbligatorio quando, a seguito di una valutazione della sicurezza dell’edificio, si riscontri che l’uso dell’edificio non possa continuare senza opportuni interventi migliorativi, per esempio a seguito di un evento sismico.
A seconda della gravità della situazione, si possono effettuare:
- Interventi di adeguamento sismico, atti a conseguire i livelli di sicurezza previsti dalle stesse norme tecniche. Si tratta, spesso, di interventi molto onerosi sia dal punto di vista tecnico che economico
- Interventi di miglioramento sismico, atti ad aumentare la sicurezza strutturale esistente, pur senza necessariamente raggiungere i livelli richiesti dalle norme. Sono realizzabili in maniera più semplice rispetto a quelli di adeguamento
- Riparazioni o interventi locali che interessino elementi isolati e che comunque comportino un miglioramento delle condizioni di sicurezza preesistenti.
Ovviamente ogni azione di intervento dipende dal singolo caso, dal tipo di edificio, dai materiali utilizzati, dal periodo di costruzione e così via.
Può valere la pena ricordare che, contrariamente a quanto si crede, per gli edifici a carattere storico, e in generale per le opere in muratura in pietra e mattoni, il rinforzo è relativamente semplice e consiste nell’utilizzo di chiavi, catene, cerchiature, cuciture metalliche. In pratica si interviene per migliorare la corretta congiunzione tra pareti, i solai ed eventuali volte o archi.
Tuttavia è anche necessario osservare che, a causa del valore artistico, nessuna parte dell’edificio può essere eliminata e ricostruita e che alcuni interventi non sono compatibili con le pressanti esi-genze della conservazione dell’aspetto esteriore della costruzione. Non è insomma pensabile di inserire chiavi o tiranti in edifici storici di pregio e valore culturale.
Infine si può anche cambiare il punto di vista e rendere il sisma meno dannoso anziché l’edificio più resistente utilizzando particolari tecnologie antisismiche. Esse prevedono l’isolamento della base dell’edificio attraverso particolari connessioni capaci di svincolare il movimento del terreno rispetto a quello della costruzione.
Queste tecniche sono adatte alla costruzione di nuovi edifici, ma, in certe condizioni, si possono anche applicare all’esistente.
Ma l’ingegneria antisismica basta a mitigare il rischio?
Il soggetto principale della salvaguardia da un terremoto è la persona e non l’edificio in cui vive o lavora. Ogni azione è dunque tesa ad assicurare che, a prescindere dalle conseguenze che il costruito subirà in termini di agibilità, gli occupanti soffrano il minor numero possibile di danni fisici.
È in questa ottica che viene diminuita la predisposizione di un edificio a subire danni, cioè la sua vulnerabilità.
Il centro di Amatrice, visto dall’alto, dopo la scossa di terremoto del 24 agosto 2016
Talvolta nel passato le operazioni di ristrutturazione sono state condotte a scapito dell’incolumità degli abitanti. Così, in molti edifici in Abruzzo, ma anche in molte altre regioni italiane, sono stati sostituiti i tetti originali con cordoli e solai in cemento armato, a questo punto sorretti da muri non dimensionati per resistere al nuovo peso, non adeguatamente ancorati alle vecchie strutture portanti e soprattutto estremamente rigidi durante la caduta: delle vere e proprie ghigliottine per chi viveva in quelle case.
Tutto naturalmente fatto in buona fede e addirittura in piena osservanza dalle norme vigenti in quel momento. E nell’ottica di azzerare la vulnerabilità. Pura utopia, come dimostrano i più recenti studi e tutto sommato anche le catastrofi in Giappone, dove le case non crollano ma spesso necessitano comunque di interventi post-terremoto.
La vulnerabilità dei nostri edificati non potrà infatti mai essere zero per almeno tre motivi.
Il primo è che i costi per la costruzione o la ristrutturazione sarebbero insostenibili: crescono infatti in maniera esponenziale a partire da un certo grado di sicurezza a fronte di un miglioramento esiguo della vulnerabilità.
Il secondo è che le case vengono «vissute» da cittadini spesso ignari del fatto che si possono verificare danni «non strutturali». Infatti, a meno che l’edificio non appoggi su isolatori, la vibrazione a cui è soggetto si trasferisce all’interno dove, per esempio, oggetti mal o affatto ancorati, una errata distribuzione dei pesi sulle mensole, il posizionamento di un letto vicino a oggetti che possono cadere sono fonte di danni e ferite anche nel caso in cui non vi siano conseguenze importanti sull’edificio.
Infine, l’adeguamento di un edificio in un’area dove nessun altro costruito è rinforzato viene vanificato dalle eventuali interazioni con edifici più vulnerabili.
Tuttavia è certo che se rinforzassimo le nostre città diminuiremmo il rischio, che è il prodotto di tre fattori: la pericolosità, che è propria del luogo in cui viviamo e non si può mitigare. Non possiamo infatti impedire che un terremoto avvenga.
La vulnerabilità, di cui abbiamo già detto, sulla quale possiamo invece agire costruendo o ristrutturando in maniera opportuna. L’esposto vulnerabile, che sostanzialmente fotografa le caratteristiche demografiche: quante persone vivono in una certa area, se vivono in grandi città o piccoli borghi, se le case che abitano sono condomini, case isolate, grandi agglomerati. Per questa terza voce lo spazio di manovra è evidentemente molto contenuto, ma una riorganizzazione urbanistica è talvolta praticabile.
Essendo il rischio il prodotto di questi tre fattori, a parità di pericolosità subiranno meno danni quelle città in cui sia la vulnerabilità che l’esposto sono contenuti. Viceversa, in zone a pericolosità bassa, ma ad altissime vulnerabilità ed esposizione, le conseguenze di un terremoto anche piccolo potrebbero essere importanti.
Il recente sisma in Appennino ricade in maniera ibrida in questo secondo scenario: il terremoto non era certo fortissimo, se comparato alla sismicità mondiale.
La pericolosità, i modelli tettonici e la caratterizzazione delle faglie
La conoscenza della sola pericolosità non è sufficiente a caratterizzare il comportamento di un’area ed è quindi utile aggiungere informazioni di tipo tettonico. Infatti è noto che il motore generale del nostro pianeta è la tettonica delle zolle, ma il modo in cui gli sforzi generati dai movimenti relativi tra le placche si trasmettono localmente alle varie porzioni di roccia dipende da molti fattori.
Secondo la teoria della tettonica delle zolle la Terra è suddivisa in blocchi di dimensioni variabili e spessore esteso fino alla litosfera (circa 80 km di profondità) che si allontano, si avvicinano o scorrono generando i terremoti e le eruzioni vulcaniche.
Nel caso dell’Appennino, lungo la catena si scontrano la microplacca Adriatica, una propaggine della più estesa placca Africana, e la placca Europea; le faglie più o meno ampie che attraversano la catena sono i luoghi dove il movimento globale viene temporaneamente interrotto. Sulla superficie della faglia si accumula l’energia che non può trasmettersi sotto forma di movimento al blocco adiacente; lo spostamento, anziché essere continuo come in altri settori, avviene in modo repentino e cumulativo, con la generazione di un terremoto, quando viene vinta la frizione che si esercita tra i due blocchi della faglia. Si può avere un solo evento principale o più terremoti se la faglia è divisa in più settori o vi sono rami ad essa collegati.
Riuscire a caratterizzare il comportamento di ogni area (quante faglie esistono, quanto sono grandi, quanto si estendono in profondità, per quanto tempo «si caricano») potrebbe avere conseguenze importanti nel futuro. E siccome si tratta, in molti casi, di faglie sepolte a parecchi chilometri di profondità e quindi non direttamente osservabili, occorre ipotizzare la loro estensione, la loro complessità e il meccanismo di rilascio dell’energia sulla base di osservazioni indirette.
Tra le principali limitazioni degli studi tettonici vi è l’evidente paradosso che individuare una faglia significa indicare dove avverrà il terremoto, ma contemporaneamente il verificarsi di un terremoto indica che lì vi è una faglia, altrimenti non cartografabile. Come si usa talvolta dire, è un gatto che si morde la coda.
[A sinistra: Schema della tecnica utilizzata dal progetto di ricerca San Andreas Fault Observatory at Depth (SAFOD) che, sfruttando un profondo pozzo di perforazione, raccoglie dati geochimici e meccanici in corrispondenza della faglia sismogenetica di San Andreas (California) (earthquake.usgs.gov/earthquakes/)]
Come sempre accade nel mondo scientifico, a seconda della quantità e della qualità dei dati di cui ogni gruppo di ricerca dispone e del tipo di approccio seguito, il modello interpretativo potrebbe essere diverso per le varie scuole di pensiero.
Nonostante siano molteplici le informazioni che si possono estrarre da ogni evento sismico, sono sempre relative a come è avvenuto il movimento e non a quale sequenza di fenomeni ha portato a rompere l’equilibrio.
Così da più parti si caldeggia l’idea di istituire un laboratorio di controllo dell’attività delle faglie prima che queste si muovano. Con la recente disponibilità di nuove tecni-che, sarebbe possibile osservare direttamente le faglie sismogenetiche (si chiamano così quelle capaci di generare terremoti) sfruttando perforazioni che raggiungano la struttura e ne indaghino le caratteristiche.
Tuttavia la comunità scientifica è divisa sull’argomento. Infatti, un tale tipo di studio, estremamente oneroso, necessita di tempi molto lunghi ed è limitato dal carattere «puntuale» dell’indagine, che rivela le caratteristiche della faglia principalmente nel pozzo perforato.
La possibilità di applicazione alla catena appenninica incontra l’opposizione di chi osserva che con la cifra necessaria a condurre la perforazione si potrebbero ristrutturare molti edifici. E siccome prepararsi adeguatamente al terremoto paga in termini di sicurezza a prescindere dai risultati di qualunque progetto scientifico, bisognerebbe dare priorità alla prevenzione, cominciando magari da una più costante educazione al rischio.
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Stefano Solarino (Sismologo, Primo Ricercatore del Centro Nazionale Terremoti dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia)Indicazioni bibliografiche
- G. Agamennone, La problematica previsione dei terremoti. Estratto dalla rivista “Terra Sabina”, Industria Tipografica Romana, Via Germanico 46. 1926.
- Ance-Cresme, Lo stato del territorio italiano. 2012 Il rischio sismico e idrogeologico.
© Pubblicato sul
n° 64 di Emmeciquadro