Ana Millán Gasca, professore associato di Matematiche complementari presso l’Università degli Studi di Roma Tre, nei saggi Pensare in Matematica e Numeri e forme. Didattica della matematica con i bambini propone una visione della matematica come avventura del pensiero nell’intera esperienza umana.
In questa conversazione approfondisce tale aspetto, collocando il sapere matematico in una lunga tradizione storica, ricca del contributo di grandi pensatori: non solo strumento raffinato e potente per trattare il mondo fisico attraverso la tecnica e la tecnologia ma anche fattore consistente della cultura occidentale.
Una attenzione particolare è rivolta a come introdurre al pensiero matematico i bambini nella prima infanzia, ponendo al centro della riflessione la parola «esperienza».
In un contesto culturale in cui emerge un forte distacco, se non un vero e proprio rifiuto, rispetto alla matematica e la tendenza a giustificarne e quasi «sopportarne» l’invasiva presenza in forza della sua necessità nelle applicazioni, la visione della matematica come avventura del pensiero è ancora attuale e feconda?
Siamo oggi in una situazione paradossale: da una parte si ripete fino alla nausea che «la matematica è da per tutto», che «tutto è matematica», siamo quasi intossicati da questa affermazione tassativa.
Dall’altra si sente un distacco, un’insopportazione da parte dei non addetti ai lavori: la paura che fa la matematica – materia con cui ognuno ha avuto a che fare per lunghi anni a scuola – si aggrava proprio perché l’affermazione di cui sopra si scontra con l’esperienza vissuta, che ci dice che non tutto è matematica, anzi che quasi niente è matematica fra le cose che danno senso alla vita e persino nella Natura.
Per esempio, posso senz’altro ritrovare regolarità nelle forme naturali qua e là, la scienza ritrova leggi matematiche nel mondo inanimato, eppure ciò che mi meraviglia e incanta in una passeggiata all’aperto è altro da questo.
Per non dire che mille equazioni e teoremi dell’economia non sono riusciti a prevedere la crisi del 2008 e non riescono a orientare sul da farsi nel futuro, e questo ognuno lo sa perché vive le conseguenze.
Cosa ha portato a questa situazione che lei definisce paradossale?
Questa situazione è causata dalla deriva della divulgazione scientifica negli ultimi cinquant’anni, contrassegnata da un soffocante paternalismo nei confronti del pubblico cui si rivolge, che si cerca di indottrinare e portare alla ragione, per scongiurare il rischio di contagio irrazionalistico.
Nessuno si sognerebbe di trattare il pubblico di una mostra di pittura o i visitatori di uno scavo archeologico in questo modo. Si sono avute tante reazioni esasperate della gente, con vari movimenti di opinione che hanno affermato più e più volte in questi anni, a livello internazionale, la propria capacità di capire, di avere opinioni informate in temi che riguardano la chimica, la biologia e così via (si veda al riguardo il libro di Massimiano Bucchi Scegliere il mondo che vogliamo. Cittadini, politica, tecnoscienza); le arti, in particolare il cinema, hanno messo a nudo le debolezze degli algoritmi e dei calcoli e paventato i rischi di una scienza che non riflette su se stessa e propone in definitiva una tecnocrazia.
Di fronte a tutto questo, l’unica trovata è stata sostituire all’approccio del public understanding of science, in voga fino a poco tempo fa, quello odierno del public engagement with science: come a dire, abbiamo tentato di farvi intendere con un diluvio di mostre e libri, ma non ne volete sapere, e adesso vi mettiamo alle strette chiedendovi di impegnarvi.
La divulgazione scientifica ha lo stesso rischio dell’insegnamento delle scienze, descritto coraggiosamente da Thomas Kuhn già negli anni Sessanta del secolo scorso: la scienza, il sapere apparentemente più aperto a continua revisione (al punto di voler essere «senza storia», come ha scritto Jean Marc Lévy-Leblond), è il più dogmatico quando si rivolge ai giovani che forma.
A costoro è richiesto di piegarsi e di accettare, come si vede nei libri di testo delle materie scientifiche, quando invece i giovani studenti di materie letterarie, che sono così legate al proprio passato, sono invitati a sviluppare una coscienza critica, a confrontare le opinioni e a pensare in autonomia! Thomas Kuhn è stato criticato per questa sua visione in cui gli studenti universitari di materie scientifiche apparivano costretti a un rito di iniziazione come quello di una setta.
Spesso si argomenta che ciò succede perché nella scienza non vi sono opinioni, ma fatti e dimostrazioni, quelli che appunto si studiano per diventare poi ricercatori: è così?
Proprio la ricerca storica ha mostrato come la modernità culturale europea, dalla fine del Seicento, con la polemica antiumanista e la diatriba fra «antichi e moderni», ha visto una crescente pretesa della scienza di rappresentare «il» pensiero e «la» razionalità. Come mostrò lucidamente Giulio Preti nel suo Retorica e logica, è questo ciò che cova sotto la frase tanto ripetuta del «conflitto delle due culture»; lo ha ripreso di recente Elio Franzini. Tale pretesa si gioca molto sulla matematica.
La paideia greca vedeva le materie letterarie (la retorica) concorrere con la filosofia (la cui porta era la matematica) nella formazione dei giovani e nella cultura: tutte erano discipline umanistiche, rivali intellettuali ma rispettose una dell’altra; la prima centrata sulle parole, sull’espressione, sulla soggettività, la seconda sulle cose e la natura, sui problemi e sull’oggettività.
Poi la scienza è diventata prepotente, come ha ricordato Alain Finkelkraut nel suo saggio Noi, i moderni: Galileo, nello stesso passaggio e poco prima della celebre frase sul libro dell’Universo che è scritto con triangoli e cerchi e altre figure geometriche (nel Saggiatore), se la prende con l’Iliade e l’Orlando Furioso, «libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero».
La verità risiede allora soltanto nella matematica purissima. Oppure (nella tradizione anglosassone questo aspetto è predominante) anche nei dati di fatto raccolti sistematicamente e sotto veste numerica.
Su questa scia si è sviluppata quella fiducia ottocentesca e novecentesca riposta solo nei numeri, che è stata descritta in tanti esempi da Theodor Porter (nel saggio Trust in numbers). Ne siamo immersi fino al collo, ma ciò riguarda gli esperti, mentre le persone in generale non la accettano, anzi non di rado diffidano dei numeri e degli inganni che nascondono.
Una visione molto critica la sua…
Critica sì. Ma sia ben chiaro che non si tratta di attaccare Galileo! Nemmeno di considerare la matematica qualcosa di nefasto culturalmente, anzi. Vi è un problema di bilanciamento e di dinamismo antidogmatico nella cultura, per scongiurare la tentazione di tirannia della scienza e, oggi, della tecnoscienza (questo è il titolo di un saggio di Giorgio Israel).
Questa tirannia oltre tutto danneggia la scienza stessa, come mostrano i rischi attuali rappresentati dalla bibliometria (i criteri numerico-statistici per valutare la qualità delle pubblicazioni scientifiche).
Per ottenere questa restituzione equilibrata della matematica e della scienza alla cultura abbiamo a nostra portata, come ispirazione sempre valida, la paideia greca. Come ha scritto Lévy Leblond, fino ai primi del Novecento, gli scienziati erano così addentro a questo quadro che il bilanciamento di cui parlo si aveva in modo abbastanza naturale: ogni matematico, fisico, chimico, biologo o geologo conosceva il greco e il latino, aveva letto i classici, scriveva nella propria lingua o in altre con cura dello stile e dell’argomentazione.
A cavallo del 1900 abbiamo scritti e conferenze straordinarie di scienza, rivolte al pubblico lettore in generale, non per indottrinare ma per sottoporre al dibattito culturale corrente. Tra parentesi, quella che oggi si vanta come modernissima «terza missione» dell’università era allora vissuta giorno per giorno nel lavoro degli scienziati.
Sono andata molto oltre il mondo dei bambini: ma è che di questa mentalità paternalista, dogmatica, profondamente antiumanistica, ignorante della storia e dell’epistemologia della scienza, sono infarciti i sussidiari infantili nella parte di matematica e di scienze; e anche i vari test o indicazioni che si propongono agli insegnanti come orizzonte del proprio lavoro.
Di questa visione culturale, e si può dire umanistica, lei sviluppa molte e interessanti conseguenze rispetto alla pedagogia e all’insegnamento della matematica.
In particolare, rileva come essa, offerta in modo adeguato, è accettata gioiosamente dai bambini, perché intimamente confacente al loro pensiero. Ne trae molte proposte perché l’avventura nella matematica possa cominciare presto, dalla più tenera età, il che potrebbe anche migliorare e facilitare l’apprendimento negli anni successivi.
È invece frequente incontrare resistenza a questa possibilità, come se fosse un campo di interesse troppo forzato e quasi «ingabbiante» rispetto alle necessità e alla sensibilità dei bambini.
Possiamo dire che nel suo trionfo la matematica porta la sua penitenza; nel mostrarsi l’arma principale nella lotta contro la «pericolosa» soggettività, nell’affermare che la dimostrazione matematica è l’unica che garantisce la certezza, essa genera continua ribellione.
Vi posso citare canzoni uscite di recente in Spagna, di successo, dove torna il fatto che non sempre uno più uno fa due o due più due fa quattro… e cose del genere. Quindi la matematica è considerata impregnata da un freddo glaciale capace di annullare il calore umano, quello che si manifesta così vitale nello sguardo, nei movimenti e nelle parole dei bambini.
Ci dicono che essa è alla base del nostro cellulare-computer e degli algoritmi delle reti sociali e che quindi non possiamo non dirci grati a essa (tranne poi incappare in qualche algoritmo che mi blocca in un aeroporto o mi porta un’ingiunzione al pagamento frutto di un errore oppure non mi riconosce il diritto ottenuto con vari punteggi a una certa sede come insegnante).
In definitiva, la matematica non è più riconosciuta come parte degli studia humanitatis, una di quelle discipline che fanno emergere l’umanità che è nei giovani allievi, attraverso il pensiero, il dialogo con l’altro da me.
Quindi, si pensa, meglio preservare una fase della vita dei bambini da questa matematica così necessaria ma così sciagurata. Alcuni oppongono la matematica al contatto con la natura. Nelle scuole steineriane addirittura si aspetta ai sette anni e oltre per iniziare a fare matematica. Altre volte si oppone la matematica al gioco, che è l’attività per eccellenza della scuola dell’infanzia. Che paradosso!
Infatti, se oggi il gioco si è affermato come cardine dell’educazione infantile, è soprattutto per l’influsso del pedagogista tedesco Friedrich Fröbel, che lo pose come pilastro della sua idea di «giardino d’infanzia».
Eppure i giochi di Fröbel erano essenzialmente giochi geometrici: confronti, scomposizione e costruzione, e indagine sui rapporti fra figure solide come il cubo (antesignano, insieme ai mattoncini di Séguin, dei blocchi con cui giocano oggi i nostri bambini), insieme ai confronti e ai rapporti fra lunghezze di asticelle di legno, conteggi, eccetera.
Inoltre, l’ostilità nascosta contro la matematica che porta a non volerla proporre ai bambini conduce molti genitori, ma forse più gli insegnanti, a non riuscire a vedere che, in effetti, la matematica è congeniale ai bambini fin dalla più tenera età.
Ecco, non tutto è matematica nella maturazione e crescita dei bambini, ma vi è molta matematica nella loro conquista del movimento, nell’emergere della coscienza di sé e del mondo e della parola, nello svilupparsi della vista, del tatto e dell’udito.
Se l’adulto e i compagni offrono spunti matematici (giochi come contare i passi o formare una torre alta alta con i mattoncini), parole come i vocaboli numerali, azioni fisiche e mentali (come il confrontare una arancia con la sua metà), trovano ottima accoglienza, come a dire: «sì, dammelo, raccontami ancora altro, mi serve e mi piace!»
Tutto questo è stato osservato, scritto e difeso da molti autori: da Platone, innanzitutto; ma poi dagli umanisti come Vittorino da Feltre e Juan Luis Vives, da Comenio, da Johan H. Pestalozzi, Friedrich Fröbel, Mary Boole, Charles-Ange Laisant, Rodolfo Bettazzi, eccetera.
E gli studi più recenti cosa ci dicono?
Oggi, le ricerche di Michael Tomasello e altri sull’acquisizione del linguaggio nei bambini che si basano sull’uso (usage based language acquisition, una linea di studi alternativa a quella di Noam Chomsky, che egli stesso ha abbandonato), ci offrono molti elementi interessanti per capire quel gran mistero dello sviluppo del bambino che viene al mondo: i primi mesi, i primi passi, i primi sguardi e suoni ed espressioni linguistiche, il rapportarsi con altri e con il proprio corpo, eccetera.
Elementi molto più promettenti di quegli studi sulla rappresentazione di quantità e il riconoscimento visivo in bambini di meno di un anno (Jean-Luc Dahaene) che ci propongono invece un approccio di «zoologizzazione» dell’uomo: in tali studi si parla di rappresentazione «analogica» invece che di geometria, a differenza di quanto lucidamente ha fatto Karen Fuson nel suo esame di come i bambini in età prescolare confrontano file di oggetti allineati. Lascio la parola a lei per giudicare questo tipo di studio:
«Research area A1 [mathematical thinking without language (to about age one)] with human infants has explored issues of what biological precursors for mathematical knowledge are wired into human infants, primates, birds, and other species capable of participating in research tasks without verbal knowledge. These studies largely center around differentiating very small numbers (1, 2, and 3) and estimates or comparisons of magnitudes larger than these (adult primates seem to have more capacity here than human infants). Methodological difficulties plague the design and interpretation of these studies (e.g., are infants processing number or area or what?). Models of numerical processing are an important focus of this research, but these often seem mere restatements in information-processing or other language of steps that might account for the behavior. And the claims that these early competencies form the bases of later mathematical performance seem under-supported, even analytically».
Quindi si può proporre la matematica anche ai più piccoli?
Sì. Nonostante le resistenze culturali forti, i molti studi e riflessioni che confermano la precocità dell’intelligenza matematica hanno lasciato la loro impronta, e in molti posti del mondo oggi si insegna matematica ai bambini fin da molto piccoli, si «iniziano» alla matematica (per usare il verbo preferito e proposto da uno studioso da rileggere oggi, Charles Laisant). In Italia, per esempio, nelle scuole dell’infanzia ispirate a Maria Montessori.
Magari con un po’ di paura e prudenza, ma si fa. E si insegna matematica genuina, cioè si parla di numeri e di forme e si propongono problemi o esercizi matematici: contare, confrontare (uguale, di più), discernere rapporti (il doppio, il triplo, la metà, un quarto), misurare. Intendo dire che si è messa da parte quella idea rivelatasi inefficace e controproducente di partire dagli insiemi (insiemi in senso del tutto intuitivo) per poi arrivare ai numeri.
E si è accantonata, anche se non del tutto abbandonata, quella idea secondo cui i bambini sono illogici, e quindi dovremmo insegnare loro la logica prima di parlare di qualsiasi oggetto o relazione matematica. Invece, è proprio nella concretezza dello sguardo matematico sulle cose che si può allenare quella forma di logica necessaria del ragionamento matematico.
Che poi, ce lo ricorda il celebre studioso dell’argomentazione Chaim Perelman, il ragionamento matematico e scientifico non è l’unica forma di pensiero sistematico che porta alla verità (o che si ispira alla ricerca di autenticità, per usare un concetto sottolineato da Alessandro Ferrara).
Infatti, nella paideia la logica era quasi a cavallo fra retorica e filosofia, ma poi essa si è sbilanciata verso la fine dell’Ottocento verso la matematica. Carlo Cellucci ha mostrato con quali deludenti risultati. Un po’ di tutto questo conviene che lo sappia chi insegna nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria.
Ormai gli psicologi hanno mostrato la logica stringente dei bambini, che spiega anche molti loro apparenti errori: penso a Margaret Donaldson, a Karen Fuson, a Emilia Ferreiro, che sono andati oltre una visione pessimista ispirata a Jean Piaget che ancora resiste.
Ecco, per esempio, il movimento della philosophy for children di Matthew Lipman ripropone ancora una volta l’allenamento logico puro per i bambini, condotto su situazioni di vita quotidiana. Ci siamo: si riduce la filosofia a logica, è mai possibile?
In Italia Giuseppe Ferraro e Nicola Zippel propongono un approccio veramente filosofico rivolto ai bambini. Se un tale approccio impregnasse le ore dedicate alla matematica e alle scienze naturali e all’informatica, sarebbe in grado di avvicinare i bambini al pensiero scientifico, creando un’area affascinante per gli insegnati quanto quella letteraria-linguistica-espressiva.
Forse finalmente in tanti vorrebbero occuparsene! (mentre sappiamo che oggi la maggioranza degli insegnanti tentano di non occuparsi di matematica o lo fanno a malincuore).
Purtroppo si deve constatare che, nel proseguimento del percorso scolastico, per la maggioranza degli studenti (italiani) l’avventura della matematica diventa sempre meno affascinante e sempre più irta di difficoltà.
Di questi tempi, la risposta della scuola sembra quella di accentuare i legami tra la matematica e i contesti concreti, sostanzialmente facendo leva sul fatto che la matematica serve in molte circostanze della vita di tutti i giorni.
Non appare però che insistere su questa motivazione migliori i risultati! Cosa ne pensa?
In effetti si cerca di accumulare esempi su esempi del fatto che la matematica serve… per rispondere alla domanda che torna ripetutamente: perché devo studiare questo? a che serve?
Ma quando la matematica è insegnata da questo punto di vista umanistico che propongo in Numeri e forme. Didattica della matematica con i bambini e che proponiamo, con Giorgio Israel, in Pensare in matematica, allora la domanda non si pone neanche!
Ciò che si vuole chiedere quando si pone quella domanda è in realtà: a cosa mi serve?, a me, alla mia vita, al mio essere nel mondo, a capire il senso di tutto ciò. Questo chiedono i ragazzi: si pensi alle grandi questioni che sono al centro della vita in quella fase, ossia cercare l’autonomia, la tensione fra dipendenza, affetto e distacco dai genitori, i rapporti con i pari (facilitati ma complicati con le tecnologie di comunicazione); i bambini poi hanno un naturale atteggiamento «filosofico».
Intendiamoci, se non potessero andare a scuola, se dovessero cercare di sopravvivere, questa domanda passerebbe in secondo piano. Ma la nostra civiltà liberal-democratica prevede per i ragazzi questo momento di scuola, di «ozio» (l’origine della parola «scuola»), inteso nel senso di non dover affaccendarsi con il lavoro e cercare l’occorrente per poter mangiare o dormire sotto un tetto.
L’attività per eccellenza dall’umanesimo in poi, in questo ozio, è stata lo studio dei classici greci e latini, la loro poesia, le loro orazioni civili, il loro teatro. Accanto a essi vi è la matematica, e ovviamente anche le scienze.
Ora, se proponiamo agli alunni «tecnoscienza», grafici e calcoli di vita quotidiana o di economia o amministrazione o ingegneria, seppur semplificati, a loro non interessano, almeno alla maggior parte di loro.
Quando lei propone di insegnare e apprendere la matematica attraverso l’esperienza, che valore dà alla parola esperienza, per non ridurla nel senso sopra descritto?
Esperienza quindi vuol dire ancorare la matematica, e la scienza, al vissuto.
Nei bambini questo ancoramento segue molte vie: vedere e toccare da sé, come nelle attività da laboratorio di chimica, oppure nelle attività che si chiamano hands-on, in cui si usa la carta, gli oggetti scomponibili, le cannucce e cordicelle; o anche le attività in movimento, come quelle ritmiche.
Inoltre, le attività che sollecitano la capacità di mimesis, perché essa fa sospendere i ragazzi in un mondo a cavallo tra la realtà e l’immaginazione, un po’ come quando si sta in una sala cinematografica o a teatro: può essere un problema discusso in gruppi, oppure un gioco del supermercato.
Anche le attività in cui si vede la matematica nell’arte, nella letteratura, nelle canzoni: come gli artisti ammirano la matematica senza piegarsi completamente a essa, perché l’autenticità è nella matematica ma anche altrove.
Faccio ora un esempio che riguarda la scienza alle scuole superiori, anche perché se parliamo dell’iniziazione matematica dei bambini dobbiamo pensare comunque a un cammino che porta oltre, almeno fino alla fine della scolarizzazione obbligatoria.
Di recente una collega mi ha raccontato di una lezione di chimica al primo anno delle superiori, tutti maschi in un istituto tecnico. Si doveva parlare dell’atomo, e il libro di testo era sì colorato e pieno di buone intenzioni, ma con quel tono un po’ saccentone calando dall’alto una questione che, in fin dei conti, è frutto di secoli di evoluzione e inoltre estremamente astratta e dove non ci sostiene l’intuizione. Gli alunni si distraevano, non capivano.
Allora lei è partita dai presocratici, ha parlato del mistero della materia che in tanti hanno cercato di carpire, e come esso resiste ancora nonostante lo straordinario sviluppo della chimica contemporanea.
Ha ottenuto una concentrazione totale, le mani si alzavano con continue domande … certo tutto ciò non aveva alcuna utilità – ovviamente la padronanza dei materiali serve e come, ma era sullo sfondo lontanissimo – eppure si avvertiva l’urgenza di pensare a tutto questo. Ecco questa è una lezione «filosofica» di chimica.
Condivide la considerazione che i bambini e i giovani hanno bisogno di poter «muovere il pensiero» anche distaccandosi dal loro quotidiano – che può anche essere doloroso o insopportabile – verso orizzonti più ampi?
Sul fatto che questo «aprire gli orizzonti» – non solo in matematica e scienze ma in generale come compito alto e genuino della scuola – può essere un distacco verso un quotidiano alle volte doloroso, persino insopportabile, sono d’accordo.
Aggiungo inoltre che il porre problemi, tipico della scienza, può essere anch’esso fonte di paura, può sembrare insostenibile, dai primi piccoli problemi aritmetici che proponiamo ai bambini fino ai problemi scientifici delle superiori: non vi è dubbio che mettono veramente a dura prova, ma è una prova che tempra i giovani, e per questo l’insegnante è insostituibile, perché egli sta lì per proporre e mantenere la tensione senza che essa sia né troppo poca – allora subentra la noia – né troppa – perché allora ci si potrebbe sentire frustrati e abbandonati a se stessi. Gli insegnanti sanno bene di cosa parlo.
Sembra che sia innovativo e coinvolgente piuttosto parlare di pensiero computazionale, espressione che, a ben vedere, assomiglia a un ossimoro.
Se si intende per pensiero computazionale «analizzare i problemi per capirne la complessità prima di iniziare a risolverli, scomporli in sotto-problemi, pensare ricorsivamente, identificare modalità di recupero in caso di fallimento, usare euristiche per identificare soluzioni», riesce difficile immaginare che cosa di diverso abbia sempre ricercato l’insegnamento della matematica!
Si può ritenere che la matematica comprenda in sé il pensiero computazionale come «sottoinsieme» per quanto riguarda gli aspetti algoritmici, ma offra d’altra parte un orizzonte più ricco e ampio di pensiero, non algoritmizzabile (si può dire così)?
Sarebbe bello aumentare nella cultura che ci circonda la consapevolezza che la matematica non è fatta solo di procedure traducibili in algoritmi, ma le è indispensabile, per esempio, la funzione conoscitiva ed euristica dell’analogia.
Non pensa che ciò potrebbe offrire ragioni per ricominciare a fare della bella geometria, cominciando con i bambini piccoli?
Non è forse più adeguato al pensiero dei bambini sviluppare prima il pensiero matematico in tutti i suoi aspetti e solo quando questo sia ben impiantato dare spazio adeguato agli aspetti computazionali (coding)?
Sono d’accordo con quanto suggerisce. Quella definizione di pensiero computazionale è veramente sciocca. «Capirne la complessità»: che parola abusata e detta così non significa niente!
Certamente, la scomposizione in sottoproblemi e poi in passi singoli elementari è come dire calcolo, che è poi la parola che indicava nei primi corsi alla facoltà di matematica negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso che insegnavano come implementare le procedure dell’analisi numerica con il calcolatore; in spagnolo si chiamavano appunto computación.
Quando gli ingegneri hanno costruito i primi calcolatori elettronici programmabili negli anni Quaranta, i matematici avevano alle spalle una lunga storia di tecniche del calcolo scritto di operazioni, e soprattutto tutte le tecniche di calcolo delle tavole numeriche sviluppate nel corso dell’Ottocento: pensi che l’ingegnere francese Gaspard de Prony realizzò una struttura ispirata alla fabbricazione degli spilli per elaborare le nuove tavole basate sul sistema metrico decimale; poi Jon von Neumann e i suoi collaboratori conoscevano i diagrammi che usavano gli ingegneri per rappresentare le reti.
Ma il calcolo non è sinonimo di matematica: se uno non ha equazioni differenziali, per esempio, cosa calcola? Il calcolo e gli algoritmi, anche in questo senso moderno, sono cose senz’altro interessanti – e che si possono raccontare ai ragazzi – ma non racchiudono tutta la matematica, figuriamoci se esse sono una forma di pensiero in senso largo.
Piuttosto il pensiero umano si piega a inventare procedure decomposte e ricorsive per venire incontro a ciò che le macchine riescono a eseguire: dietro a una bella schermata di un sito con una grafica efficace e che ci avvolge ci sono righe e righe di programma, magari anche nascoste da pacchetti di software.
I diagrammi di flusso dell’informatica sono l’ennesima conferma – se servisse ancora – dell’esigenza e della capacità umana di rappresentare o vedere geometricamente. Ovviamente sotto questa mitologia del pensiero computazionale cova l’idea che quando si usano strumenti informatici si pensa in modo diverso… questa idea dei «nativi digitali».
Questo va oltre la matematica. Per quanto la riguarda, non sono gli strumenti informatici che fanno imparare la matematica, ma è imparare la matematica che prepara a padroneggiare, sfruttare e far avanzare il mondo digitale.
Se la matematica non è un insieme di informazioni, formule, procedure, bensì una rete concettuale, come viene modificato il suo apprendimento dalla presenza nella scuola (e nelle case) degli strumenti tecnologici?
Come accennavo, la questione dell’uso pervasivo degli strumenti informatici della comunicazione va molto oltre la questione della matematica e del suo apprendimento.
Vivere in un mondo sempre più lontano dalla natura (luce, forme, odori, calore, sensazioni) ci allontana da noi stessi, spezzando la nostra straordinaria esperienza mentale e corporea. Come ha detto Hans-Georg Gadamer, dalla contemplazione del fuoco sono sorte probabilmente le prime domande dell’essere umano. Lo stesso Gadamer afferma che la scrittura è la svolta nel pensiero umano, molto di più dell’avvento del computer.
Ritorno sul fatto che il computer, come indica il suo nome, calcola, nel senso di eseguire a velocità impressionante procedure elementari nelle quali l’essere umano riesce a tradurre le sue idee, la sua intenzionalità, il suo senso estetico, e così via, piegando queste capacità alle misere condizioni delle macchine.
I nostri figli raggiungeranno sempre nuovi traguardi nello sfruttamento delle macchine, e ciò soprattutto se continuiamo a coltivare in loro le idee, l’intenzionalità, la parola, il senso estetico, il ragionamento matematico e così via.
Se il nostro essere nel mondo avviene quasi interamente attraverso strumenti digitali, della nostra esperienza corporea rimane soltanto la visione e l’ascolto, e queste due facoltà rivolte solo a immagini e suoni digitalizzati, ossia già elaborate: è la distanza che separa essere nel mondo rispetto a essere nella sala cinematografica vedendo un film in 3D, oppure ascoltare la musica con gli auricolari rispetto ad ascoltare la voce, uno strumento, un’orchestra.
Mi chiedo quindi, pensando ai bambini, vogliamo davvero ridurre in questo modo drastico l’esperienza infantile di scoperta del me e del non me? (uso le parole del grande studioso Édouard Séguin, che ha scoperto l’umanità anche di chi un tempo ci appariva quasi come sprovvisto di ciò che rende umani).
Aggiungo che quella presunta capacità di usare i nuovi strumenti è solo apparenza: il neonato si entusiasma se un oggetto reagisce a qualsiasi suo toccare o sfiorare (come si entusiasma con il gattino in casa); il bambino o ragazzo impara velocemente regole meccaniche di uso, ma, appena il computer non risponde, non riesce a immaginare strategie per risolvere perché non ne conosce la logica interna: la può imparare, appunto questo sarebbe iniziare seriamente all’informatica a scuola, senza pretese di un «pensiero computazionale» che sarebbe una nuova frontiera del pensiero umano.
Il ragazzo o giovane si immerge nella rete, manifestando la capacità dell’essere umano di «rendersi uguale», di «immedesimarsi», senza discernimento: ma se non so cosa è un libro e cosa è un giornale, cosa porta in sé un dipinto o un edificio, allora le parole accumulate in miliardi di pagine web e le immagini di cose, persone e luoghi che scorrono nello schermo si presentano a me come una massa informe in cui non ho punti di riferimento, una navigazione in mare aperto senza neanche le stelle per orientarsi.
La questione delle tecnologie informatiche, per essere considerata seriamente, richiede di dilatare lo sguardo molto oltre queste poche considerazioni. Accostarsi al dialogo su questi temi fra Paul Ricoeur e Jean-Pierre Changeux (La natura e la regola. Alle radici del pensiero) ci da un’idea del modo povero e raffazzonato con cui lo si tratta spesso, e ci indica invece come riflettere su di esso in modo serio.
Non è un compito facile ma ne vale la pena.
a cura di Raffaella Manara
(Membro della redazione di Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 64 di Emmeciquadro