Quando, quanto e cosa mangiare ce lo dice il cervello. Una nuova scienza, la neurogastronomia, fornisce rivoluzionarie conoscenze sui meccanismi encefalici che controllano l’alimentazione, mostrando come la quantità, e soprattutto la qualità, di ciò che mangiamo modifichi in modo specifico le strutture neuronali, fino a promuovere la neurogenesi.
Senza dimenticare che il cibo per il corpo, la cultura per la mente e la spiritualità per l’anima sono «nutrienti» indispensabili per alimentarsi bene e per produrre alimenti in una prospettiva di sostenibilità globale.



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Un crescente interesse nello studio dei rapporti tra comportamenti alimentari e meccanismi cerebrali ha permesso, in questi ultimi anni, di comprendere le motivazioni che sono alla base delle nostre scelte dietetiche. Perché preferiamo i cibi dolci a quelli amari?
Cosa ci spinge ad assumere più calorie di quelle necessarie al nostro fabbisogno giornaliero, facendoci così inevitabilmente aumentare di peso?
Per quale ragione talvolta sentiamo un compulsivo bisogno di mangiare oppure viceversa siamo indotti a rifiutare di alimentarci?



Il sapore dei cibi: gusto e olfatto

L’analisi delle dinamiche che nascono dall’interazione tra cibo e cervello spiega anche le preferenze gastronomiche individuali, le abitudini dietetiche particolari e le culture alimentari tipiche di ogni popolo.
Una nuova scienza, la neurogastronomia, apre oggi interessanti prospettive di ricerca in ambito nutrizionistico e medico. Olfatto, gusto e sapore, piacere, ricompensa e disgusto sono i termini entro i quali si stanno sviluppando queste conoscenze, destinate a cambiare radicalmente il nostro modo di intendere i meccanismi di scelta e di fruizione del cibo.
«Sono approdato a questo nuovo campo di ricerca – ha scritto in proposito Gordon M. Shepherd (1933-…) – cercando di capire come il cervello crei le immagini degli odori. I risultati che ho ottenuto, che si sommano a quelli di altri studi di laboratorio condotti in tutto il mondo, stanno modificando radicalmente l’idea che si ha dell’olfatto: se prima lo si considerava uno dei nostri sensi più deboli, oggi si pensa che nella nostra vita quotidiana sia uno dei più importanti proprio per il ruolo che riveste nel sapore» [1].
Nasce così l’idea di «un unico sistema cerebrale umano del sapore, forse il più ampio tra quelli comportamentali, capace di creare percezioni, emozioni, ricordi, coscienza, linguaggio e decisioni, tutti incentrati sul sapore» [2].
«Quando annusiamo – puntualizza André Holley – non sentiamo solo un odore, quando assaggiamo non sentiamo solo un gusto. Abbiamo ricordi. Soffriamo. Gioiamo. Speriamo. Odiamo. Dialoghiamo con il corpo nella sua totalità, pretendiamo, osserviamo […] ed è il cervello, non la nostra riflessione cosciente, a coordinare tutti questi processi» [3].
Il cervello percepisce gli odori attraverso due circuiti olfattivi che funzionano in parallelo: uno che arriva alla corteccia piriforme (olfattiva primaria) dove cognizione e affettività coincidono, l’altro che arriva alla corteccia orbitofrontale (olfattiva secondaria) pertinente al circuito cognitivo con una differenza di attivazione emisferica significativa in rapporto a determinati tipi di odori.
Allo stesso modo molte altre aree cerebrali prive di specificità sensoriale (come l’amigdala o l’ippocampo, strutture profonde dei lobi temporali), ma legate a funzioni più generali (mnemoniche, affettive, emotive) vengono spesso ugualmente sollecitate dagli odori.
Il cervello «che assaggia» percepisce i gusti attraverso l’attivazione della corteccia gustativa primaria situata attorno alla scissura di Silvio, tra il lobo frontale e quello temporale, attraverso connessioni provenienti dal talamo (un nucleo situato in profondità nell’encefalo): questo è il circuito gustativo cognitivo.
Ne esiste però un altro, sinergico al precedente, detto circuito gustativo edonico o affettivo, che partendo dal talamo raggiunge l’ipotalamo e l’amigdala. L’interazione tra olfatto e gusto porta a determinare quella che risulta la caratteristica fondamentale di un cibo: il sapore.



Il neuroscienziato Shephered con i suoi studi è giunto a conclusioni illuminanti.
«Quando sentiamo il sapore del cibo in bocca – afferma -, questo avviene non perché lo annusiamo, cosa che normalmente associamo all’inspirare per esempio un aroma, bensì perché espiriamo, emettendo piccoli sbuffi di odore dal cibo e dalle bevande dal retrobocca e all’indietro attraverso i passaggi nasali mentre mastichiamo e deglutiamo. Questo approccio “dalla porta sul retro” viene detto olfatto retronasale (retro vuol dire “indietro”), ma possiamo chiamarlo anche olfatto orale. Questo differisce dall’olfatto ortonasale (orto vuol dire “avanti”), ovvero da quello che comunemente chiamiamo senso dell’olfatto. In quanto portato dal percorso retro nasale, l’odore domina il sapore. Sovente descriviamo il cibo in base al suo “gusto”, ma il senso del gusto propriamente detto nella sola sensibilità è dolce, salato, aspro, amaro e umami. Al di là di queste sensazioni semplici, ciò che chiamiamo gusto del cibo dovrebbe essere definito come sapore ed è in gran parte dovuto all’olfatto retronasale» [4].

Il cervello goloso: piaceri e disordini alimentari

Il nostro cervello è programmato per mantenere un peso corporeo equilibrato: ci dice quando mangiare e ci avverte quando dobbiamo smettere. Ma il nostro è un «cervello goloso». I cibi dolci e grassi inducono alcuni di noi a mangiare in eccesso. Più ne abbiamo e più ne vogliamo: una sensazione di tipo compulsivo, simile a quella che si verifica nella dipendenza da droghe, da alcool, da fumo [5].
La preferenza che abbiamo nei confronti di alimenti dolci e grassi (quelli in assoluto più energetici) è il risultato del nostro passato evolutivo. Per migliaia e migliaia di anni l’uomo si è preoccupato non tanto di sopprimere l’appetito, quanto di procurarsi cibo per i tempi di magra.
Alimenti dolci e grassi sono in grado di fornire grande energia per l’organismo e quindi il loro consumo è stato privilegiato nel corso della nostra storia evolutiva. I circuiti neuronali dell’alimentazione sono diventati in tal modo più efficaci a indurre l’assunzione di cibo quando siamo affamati piuttosto che a sopprimerne l’uso quando siamo sazi.
Anche il rifiuto dei cibi amari, presente soprattutto nei primi anni di vita, è il risultato di questo processo. È un meccanismo di autodifesa dell’organismo verso alimenti potenzialmente pericolosi (perché avariati) o addirittura letali (perché velenosi).

Le zone cerebrali coinvolte nell’assunzione del cibo e nei processi che lo modulano, promuovendolo attraverso meccanismi di gratificazione o sopprimendolo provocando disgusto, sono fondamentalmente tre: l’ipotalamo, una struttura che è centro regolatore di molti processi metabolici, controllando l’introito del cibo e il consumo energetico; la corteccia prefrontale mediana, un’area che si trova nella parte anteriore del cervello, responsabile dell’elaborazione cognitiva dei processi affettivi ed emotivi legati al mangiare; il sistema limbico, un insieme di connessioni profonde, comprendenti l’ippocampo e l’amigdala, deputate al controllo neurovegetativo e istintivo del comportamento alimentare.
A livello neuronale la regolazione dei comportamenti alimentari è demandata a due tipi di cellule dell’ipotalamo, la regione cerebrale coinvolta nella regolazione di molti processi metabolici, compreso il controllo dell’introito di cibo e del consumo energetico: i neuroni che producono un peptide correlato alla proteina Agouti (AgRP) e i neuroni che producono pro-opiomelanocortina (POMC).
I primi promuovono l’assunzione di cibo (e l’incremento di peso) i secondi la soppressione dell’appetito (e la perdita di peso).
Si è scoperto che il digiuno crea un aumento delle spine dendritiche (i ricevitori dei segnali) dei neuroni AgRP inducendo dunque all’assunzione di cibo.
Se la dieta è molto ipercalorica (ricca di grassi e di dolci) nascono addirittura dentro l’ipotalamo nuovi neuroni, creando così un circolo vizioso: più si mangia e più sentiamo di avere fame. È la base neurobiologica dell’obesità.
Se viceversa l’organismo assume pochi alimenti, i neuroni ipotalamici innescano un processo di autofagia compensatoria. Quando non mangiamo, la fame induce alcuni neuroni del cervello a divorare pezzi di se stessi.

Questo meccanismo costituisce un potente segnale di fame che spinge a mangiare e rappresenta un sistema utile per fornire energia nei momenti di carenza alimentare. Se tale processo però dura a lungo può indurre alterazioni permanenti delle reti neuronali e l’alimentazione non torna più nella norma. Così un soggetto può diventare anoressico.
L’assunzione di cibo influenza anche la neuroplasticità, rimodellando le reti cerebrali, e questi cambiamenti, se diventano stabili, incidono profondamente sulle nostre abitudini alimentari. Accanto a questi fini meccanismi, un ruolo non meno importante sul cervello è svolto da messaggeri chimici come ormoni e neuromediatori.
Nell’ambito di un’alimentazione normale alcuni ormoni segnalano l’inizio e la fine del pasto. Gli ormoni della fame originanti dall’intestino allertano i circuiti dell’alimentazione nell’ipotalamo e stimolano i centri della ricompensa, quali l’area segmentale ventrale e lo striato, che aumentano il piacere associato al mangiare.
Con il riempirsi dello stomaco e dell’intestino e la crescita del livello di nutrienti nel sangue, nell’ipotalamo e nei centri della ricompensa vengono liberati altri ormoni che sopprimono l’appetito e inibiscono il piacere rendendo il cibo meno desiderabile.
Nell’iperalimentazione è la rete della ricompensa a prendere il comando. I cibi grassi e zuccherini inducono lo striato a produrre endorfine, le sostanze cerebrali del benessere, e a rilasciare due specifici neurotrasmettitori, serotonina e dopamina, verso la corteccia prefrontale, l’area responsabile delle decisioni. In alcune persone queste azioni nella rete cerebrale della ricompensa causano obesità, prevalendo sui segnali ormonali che interrompono l’assunzione di cibo quando si è sazi.
Ciò crea una forte motivazione per continuare a mangiare cibi con molte calorie nonostante vi sia la consapevolezza delle gravi conseguenze che ciò determina sulla salute [6].
Anche se si dimostrerà vero che l’obesità è una «dipendenza dal cibo» che si sviluppa con meccanismi simili a quelli delle altre dipendenze e vi saranno farmaci in grado di curarla, gli obesi dovranno sempre lottare contro situazioni ambientali causa di possibile ricaduta (essere circondati da familiari e amici che perseverano nell’iperalimentazione).
La nostra società, satura di cibi dolci e grassi e di tentazioni, renderà dura la vita alle persone obese intenzionate a smettere di mangiare troppo.

 

Alimentazione e plasticità neuronale: cibo per il corpo, per la mente e per l’anima

I risultati più clamorosi della ricerca neurogastronomica riguardano la capacità del cibo di influenzare la plasticità neuronale. Non solo la quantità, ma anche la qualità del cibo sembra influenzare la struttura del nostro cervello [7].
È acquisizione recente ma certa che, contrariamente a quanto si pensava sino a pochi decenni fa, in alcune aree del cervello (la zona sub ventricolare collegata al bulbo olfattivo e il territorio del giro dentato dell’ippocampo), anche nell’adulto, la rigenerazione di neuroni è continua ed è soprattutto la memoria a beneficiarne.
Sembra ormai assodato che un’alimentazione corretta stimola positivamente questo processo. La genesi di nuove cellule nervose è soggetta a complessi meccanismi regolatori, legati a diverse sostanze – neurotrasmettitori e ormoni – che ne veicolano la crescita.
Tra i diversi fattori che possono favorire o contrastare questo processo di neurogenesi, accanto a quelli ambientali e genetici, l’alimentazione, inclusa la frequenza dei pasti, sembra svolgere un ruolo fondamentale.
In molte specie animali la riduzione dell’apporto calorico non solo allunga la vita, ma favorisce la genesi di nuove cellule nervose. Anche nell’uomo è stato dimostrato che un regime alimentare ristretto agisce positivamente sulle capacità cognitive: non erano necessarie troppe restrizioni, era sufficiente mantenere l’apporto calorico poco al di sotto della soglia abituale per ottenere risultati positivi [8].
Non è però solo un problema di quantità, ma anche di qualità dei cibi. La neurogenesi si può incentivare anche attraverso la scelta di determinati alimenti. Particolarmente utili a questo scopo sembrano essere i cibi, come il pesce, ricchi di omega-3, in grado di stimolare la crescita di cellule nervose nell’ippocampo con ricadute positive, in termini clinici, anche su alcune condizioni patologiche, quali la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, la schizofrenia, l’Alzheimer e la depressione.
Altre sostanze che favoriscono – almeno negli studi effettuati in laboratorio – la nascita di nuovi neuroni sono quelle contenenti polifenoli: curcumina, mirtilli, cacao sono alcuni dei cibi che potrebbero avere un effetto benefico sulla salute in generale e sul cervello in particolare [9].
Una recente ricerca ha dimostrato anche come soggetti vegetariani e vegani, mentre osservano uomini o scimmie che mangiano carne animale (bovina, suina, ovina), hanno una maggiore attivazione delle aree fronto-parietali e temporali, quelle dove maggiore è la presenza dei cosiddetti «neuroni specchio», elementi correlati all’interazione sociale, rispetto a soggetti onnivori [10].
Queste persone sviluppano cioè un maggior coinvolgimento emotivo quando gli alimenti sono di provenienza animale rispetto a chi è abituato a mangiare di tutto. Come se «soffrissero» nel vedere specie con le quali vi è una discreta vicinanza filogenetica utilizzate come cibo.
È il loro tipo di alimentazione che induce una maggiore «sensibilità» nei confronti degli animali, oppure è viceversa il fatto che il loro cervello sia strutturato in un certo modo che li ha indotti a fare una scelta (consapevole?) vegetariana o vegana?
Non lo sappiamo ancora con certezza, ma queste differenze empatiche legate al modo di alimentarsi sembrano aprire la porta al fatto che la scienza possa spiegare perché non solo il cibo, ma anche la cultura e la spiritualità sono nutrienti indispensabili per l’uomo.
«L’uomo è ciò che mangia», affermava a metà Ottocento il filosofo Ludwig Feuerbach, nel senso cioè che l’uomo diventa ciò di cui si nutre.
Ma «l’interrogativo cosa nutre la vita? – ha scritto recentemente l’Arcivescovo di Milano Angelo Scola riflettendo sul tema di Expo 2015 – porta a considerare questioni ecologiche globali […], a una rinnovata concezione dell’essere uomini […], a proporre adeguati stili di vita» [11].
In altre parole a un cambiamento culturale e a una ritrovata spiritualità in grado di diventare, essi stessi, cibo indispensabile per l’uomo, così che si possa riplasmare la nostra esistenza per «nutrire il pianeta» in modo condiviso e sostenibile.
Il cibo come nutrimento del corpo, la cultura come nutrimento della mente e la spiritualità come nutrimento dell’anima sono i cardini di una dinamica dimensione interattiva in grado di realizzare, se ben indirizzata, strategie dietetiche consapevoli e consolidate, capaci di coniugare armonicamente gusto e piacere con benessere, salute e sostenibilità in una prospettiva globale.

 

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Vittorio A, Sironi
(Neurochirurgo e Storico della Medicina e della Sanità. Direttore del Centro studi sulla storia del pensiero biomedico, Università degli studi di Milano Bicocca – vittorio.sironi@unimib.it)

 

Note Bibliografiche

  1. Shepherd G. M., Neurogastronomy. How the Brain Creates Flavor and Why It Matters, Columbia University Press, New York 2012 (trad. it., All’origine del gusto, La nuova scienza della neurogastronomia, Codice, Torino 2014), p. IX.

  2. Ivi, pp. IX-X.

  3. Holley A., Le cerveau gourmand, Odile Jacob, Paris 2006 (traduzione italiana, Il cervello goloso, Bollati Boringhieri, Torino 2009), p. 129.

  4. Shepherd G. M., cit., p. 6.

  5. Ziauddeen H., Farooqi I. S., Fletcher P. C., Obesity and the brain: how convincing is the addiction model?, Nature Reviews Neuroscience, 13: 279-286, 2012.

  6. Johnson P. M., Kerry P. J., Dopamine D2 receptors in addiction-like reward dysfunction and compulsive eating in obese rats, Nature Neuroscience, 13: 635-641, 2010.

  7. Sironi V.A., Neurogastronomia. Il cervello alimentare in Le declinazioni del cibo. Nutrizione, salute, cultura (a cura di V. A. Sironi e G. Morini), Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 139-146.

  8. Murphy T., Dias G. P., Thuret S., Effect of diet on brain plasticity in animal and human studies: mind the gap, Neural Plasticity, 05/2014; 2014(2):563160. Doi: 10.1155/2014/563160

  9. Dias G. P. et al., The role of dietary polyphenols on adult hippocampal neurogenesis. Molecular mechanisms and behavioural effect on depression and anxiety, Oxidative Medicine and Cellular Longevity, 541971, 2012.

  10. Filippi M., Riccitelli G., Meani A., Falini A., Comi G., Rocca M.A., The “vegetarian brain”: chatting with monkeys and pigs?, Brain Struct Funct. 2013 Sep;218(5):1211-27. doi: 10.1007/s00429-012-0455-9. Epub 2012 Sep 29.

  11. Scola A., Cosa nutre la vita? Expo 2015, Centro Ambrosiano, 2013, pp. 25, 53, 69.

 

 

 

© Pubblicato sul n° 65 di Emmeciquadro

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