Un recente articolo su Nature valuta l’ipotesi che i neanderthaliani fossero in grado di utilizzare le proprietà chimiche della materia.
Analisi con tecniche di diffrazione dei raggi X e altri test su materiali ritrovati presso insediamenti preistorici suggeriscono un utilizzo mirato e non occasionale di biossido di manganese come facilitante dell’accensione del fuoco.
E non mancano testimonianze di capacità analoghe nell’
Homo Sapiens



L’uomo di Neanderthal è una specie umana che si è sviluppata tra 300.000 e100.000 anni fa, parallelamente al homo sapiens, che abitava l’Eurasia dall’Atlantico all’Asia centrale. È scomparso abbastanza rapidamente con l’arrivo dall’Africa del homo sapiens tra i 35.000 e i 24.000 anni fa.
Sue ossa furono trovate, per la prima volta, nel 1856 nella valle Neander in Germania e nel 1886 fu identificato come specie umana estinta separata dall’uomo moderno. Mentre inizialmente veniva considerato come molto primitivo, col proseguire degli studi e dei ritrovamenti, soprattutto in anni recenti, si è visto che negli anni in cui è vissuto, contemporaneamente al homo sapiens, era culturalmente paragonabile a quest’ultimo.
I Neanderthal seppellivano i loro morti e fabbricavano, almeno occasionalmente, oggetti decorativi: sono state trovate conchiglie forate per farne collane e materiali coloranti. Inoltre, in una caverna sono state trovate disposizioni circolari di stalagmiti insieme a tracce di focolari e di coloranti rossi e neri. Tutto questo è indice di una qualche forma di pensiero simbolico.
Un articolo su Nature on line (Scientific Reports 6, Article number: 22159 (2016)) suggerisce la possibilità che, almeno in alcuni casi, gli uomini di Neanderthal utilizzassero le proprietà chimiche del biossido di manganese per facilitare l’accensione del fuoco. In vari insediamenti neanderthaliani sono stati trovati blocchetti di minerale nero che nell’interpretazione comune vengono visti come destinati all’uso come colorante del corpo al pari dell’ocra rossa. Nell’articolo ci si propone di dimostrare la plausibilità dell’ipotesi che essi servissero, invece, per abbassare la temperatura di combustione del legno.
Gli autori dell’articolo in questione sono raggruppabili in due gruppi: paleontologi e chimico-fisici. Gli studi chimico fisici, particolarmente accurati e raffinati, hanno permesso di dare una solida base alle ipotesi paleontologiche sull’uso dei minerali trovati.
I blocchetti, studiati con la diffrazione dei raggi X, sono risultati essere essenzialmente biossido di manganese (MnO2) e in particolare pirolusite per quel che riguarda la struttura cristallina. Non lontano dal sito degli scavi (il sito di Pech-de-l’Azé I in Francia) si trova un giacimento di minerali di manganese formato sia da pirolusite sia da romanèchite ((Ba,H2O)2(Mn+4,Mn+3)5O10) e altri minerali, la pirolusite dei blocchetti è fortemente simile a quella trovata nel giacimento.
È stata fatta una serie di prove di combustione controllata di trucioli di legno con polvere di MnO2 puro, con polvere tratta dai blocchetti trovati e con polvere di romanèchite. Si è visto che sia il biossido di manganese puro che la polvere dei blocchetti permetteva l’accensione a partire dai 250 °C mentre anche a 350 °C il legno da solo non riusciva a prendere fuoco; la romanèchite, invece, non aveva alcun effetto.
I risultati delle prove pratiche sono confermati dall’analisi termogravimetrica che dimostra come il biossido di manganese riduce la temperatura di combustione e ne aumenta di sette volte la velocità. L’analisi mediante diffrazione di raggi X dei prodotti di combustione permette di rilevare la trasformazione da MnO2 a Mn3O4.
Il meccanismo è quindi la decomposizione del biossido di manganese con conseguente rilascio di ossigeno che abbassa la temperatura di accensione e favorisce la combustione. La romanèchite ha invece una temperatura di decomposizione più alta e per di più rilascia meno ossigeno per il suo minore contenuto di Mn+4.



Il test di combustione con frammenti di legno e biossido di manganese

Il quadro, che viene così suggerito, è quello di neanderthaliani che in un luogo piuttosto distante dal loro insediamento raccoglievano il minerale, selezionando i frammenti neri di biossido di manganese da quelli altrettanto neri di romanèchite e di altra composizione, lo trasportavano , lo polverizzavano e lo mescolavano con frammenti di legno per accendere il fuoco.
Questa è ovviamente solo un’ipotesi, anche se ben fondata, e tale è destinata a rimanere, come è logico nella paleontologia umana, ma è affascinante vedere come agli albori dell’umanità ci sia già questa capacità di utilizzare le proprietà chimiche della materia.
E tale capacità non era limitata ai neanderthaliani: in contemporanea, l’homo sapiens, 100.000 anni fa, stanziato ancora solo in Africa, dimostrava capacità analoghe. In una grotta vicina a Città del Capo sono stati trovati i resti di quello che viene descritto come un laboratorio per la produzione di una vera vernice.
Oltre a strumenti litici per polverizzare il minerale, c’erano conchiglie piene di una miscela che all’analisi è risultata formata da ocra rossa e gialla, carbone e frammenti di ossa spugnose, ricche di grasso e midollo, che riportano segni di riscaldamento: come avviene ancora adesso, nelle vernici si aveva un pigmento, l’ocra, e un legante, il grasso fuoriuscito dalle ossa. Anche in questo caso l’ocra proveniva da un località relativamente distante.
In entrambi i casi si ha la documentazione di una attività complessa e programmata in cui si sfruttano proprietà non immediatamente evidenti della materia: è ciò che oggi chiamiamo «chimica».



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Emanuele Ortoleva
(già Professore Associato di Chimica Fisica presso l’Università degli Studi di Milano)

© Pubblicato sul n° 65 di Emmeciquadro