Lo sviluppo della crio-microscopia elettronica nasce dal tentativo di superare il limite connesso alla natura chimica dei campioni biologici, cioè al rischio di distruggere le biomolecole quando vengono sottoposte alla microscopia elettronica classica.
I tre pionieri di questa tecnica ricevono il Premio Nobel per la Chimica 2017.
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Il Premio Nobel per la Chimica 2017 è stato assegnato a tre scienziati per le applicazioni della crio-microscopia elettronica allo studio della struttura delle molecole biologiche: lo svizzero Jacques Dubochet (1942-…), dell’Università di Losanna, il tedesco Joachim Frank (1940-…), del Columbia University College di New York, e il britannico Richard Henderson (1945-…), del Medical Research Council di Cambridge.
Dal microscopio ottico a quello elettronico
Sappiamo che uno dei padri indiscussi della scienza moderna è Louis Pasteur e il suo ritratto mentre osserva al microscopio ci suggerisce come questo strumento sia utile per la conoscenza scientifica.
Il microscopio ottico permette di individuare le cellule e i loro organelli, ma per capirne il funzionamento dobbiamo andare fino alla loro struttura molecolare e atomica.
Molecole molto importanti per il funzionamento della cellula sono le proteine: solo a livello molecolare si può capire come le proteine interagiscono con le molecole che l’organismo vivente utilizza per produrre o immagazzinare energia, per costruire le sue strutture di sostegno o per far comunicare le cellule tra di loro, e si può capire come un «errore» nella struttura della proteine determini un funzionamento errato e quindi una patologia.
Il microscopio costruisce immagini attraverso la luce visibile, una radiazione elettromagnetica, ma se cerchiamo di guardare un oggetto più piccolo della lunghezza d’onda della luce (circa 0.5-1 µm), invece della sua immagine otteniamo una complessa figura di diffrazione difficilmente interpretabile.
Per studiare le molecole servono altre tecniche come la spettroscopia di Risonanza Magnetica Nucleare, che utilizza sempre una radiazione elettromagnetica, ma invece delle immagini ottiene dei segnali che gli specialisti hanno imparato ad assegnare alle strutture molecolari.
La spettroscopia NMR è utile per scoprire la struttura delle piccole molecole (qualche decina di atomi) e di molecole più complesse fino alle piccole proteine, inoltre può fornire informazioni preziose sull’interazione dinamica tra le proteine e le altre molecole e, utilizzando soluzioni acquose, mantiene il solvente in cui si trovano nell’organismo, importante per la loro forma e funzionalità.
Una tecnica molto importante per individuare la struttura molecolare è la cristallografia a raggi X: questa radiazione elettromagnetica ha lunghezze d’onda vicine alle dimensioni dei singoli atomi (un legame chimico ha una lunghezza di circa 1.5 Å), perciò attraversando un cristallo produce delle figure di diffrazione di per sé incomprensibili, ma la cui elaborazione matematica permette di determinare la struttura atomica della molecola a un livello di risoluzione tuttora irraggiungibile per altre vie.
Questa tecnica richiede però la preparazione di cristalli della sostanza da esaminare, e ciò non è sempre possibile, in particolare per le proteine; inoltre le proteine devono essere purificate e pertanto isolate dalla matrice biologica e la loro forma può essere diversa da quella che assumono in acqua: tutto questo può far perdere le informazioni relative al sistema biologico complessivo.
Le tecniche di cui abbiamo parlato sono nate per lo studio di piccole molecole e sono state via via applicate a molecole più complesse, fino ad arrivare alle proteine, ma contemporaneamente il progresso della microscopia, nata all’opposto per lo studio di strutture molto grandi rispetto alle dimensioni molecolari, ha permesso di spingere a livello molto più piccolo le dimensioni degli oggetti che si possono osservare; si chiama «risoluzione» la dimensione del livello di dettaglio più piccolo che si può osservare con una determinata tecnica.
L’avanzamento più significativo in tal senso è stata l’introduzione della microscopia elettronica da parte da parte di Ernst Ruska e Max Knoll negli anni Trenta del secolo scorso, che seguì di pochi anni la formulazione quantistica di De Broglie per cui ad ogni particella è associata un’onda. L’onda associata a elettroni sufficientemente accelerati ha una lunghezza d’onda più piccola dell’atomo, con il vantaggio che la carica del fascio di elettroni permette di focalizzarlo attraverso lenti elettrostatiche così come si fa per un fascio luminoso.
È così possibile visualizzare organelli e particelle biologiche come i virus che sfuggono al microscopio ottico: l’immagine si forma su di uno schermo fluorescente ed è un ingrandimento della particella osservata; come in ogni fotografia l’immagine è bidimensionale.
Il superamento dell’immagine bidimensionale
Il contributo della microscopia elettronica classica alla biologia è immenso, ma sino agli anni Settanta non sfruttava ancora appieno il potenziale della tecnica di cogliere dettagli a livello quasi atomico.
Nei primi tentativi di superare questa barriera comparve una seria difficoltà legata alla natura chimica dei campioni biologici: quando si cerca di sottoporre alla microscopia elettronica classica una biomolecola il fascio di elettroni rompe i legami chimici e distrugge in definitiva la molecola stessa.
Lo sviluppo della crio-microscopia elettronica nasce dal tentativo di superare questo limite e il prefisso «crio» indica la soluzione che consiste nell’uso di liquidi criogenici per raffreddare i campioni.
La prima idea è stata di raffreddare soluzioni acquose delle proteine o di particelle subcellulari alla temperatura dell’azoto liquido (-196 °C) in modo da ridurre il danno alle strutture chimiche; la tecnica ha richiesto più di cinque anni per essere perfezionata, perché il raffreddamento diretto in azoto liquido crea cristalli di ghiaccio e ciò distrugge le biomolecole, mentre la tecnica perfezionata alla base della crio-EM permette di ottenere lamine di ghiaccio amorfo (“vetroso”) dove l’acqua mantiene anche se solidificata la struttura poco ordinata del liquido: questo preserva una struttura tridimensionale simile a quella delle soluzioni acquose.
Queste tecniche sono state sviluppate soprattutto da Dubochet, che nel 1984 presentò la struttura tridimensionale dell’adenovirus incluso in ghiaccio vetrificato.
Struttura 3D del virus Zika osservata col cryo-EM (Credit: Johan Jarnestad/The Royal Swedish Academy of Sciences)
Un punto di svolta importante è stato il superamento dell’immagine bidimensionale della microscopia classica. La lamina di ghiaccio cattura molecole in tutte le possibili orientazioni dello spazio, che danno ognuna una sua immagine; ogni orientazione è comunque rappresentata da moltissime molecole.
L’immagine non è più un semplice ingrandimento: uno schermo sensibilissimo raccoglie la scansione di tutte le immagini provenienti dalla lamina da diversi angoli di orientazione e un programma media le immagini da orientazioni simili rafforzandone l’intensità e dalle immagini delle molecole o particelle orientate nelle diverse posizioni raccoglie un’immagine tridimensionale.
È come se osservassimo una persona attraverso fotografie (bidimensionali) prese da un gran numero di orientazioni, ricostruendo poi la sua immagine tridimensionale con un opportuno software. Queste operazioni sono ovviamente svolte automaticamente da un computer per mezzo di programmi sviluppati soprattutto da Frank a partire dagli anni Settanta.
Tutti questi avanzamenti permisero a Henderson nel 1990 di ottenere la prima immagine tridimensionale a risoluzione atomica della batteriorodopsina, una proteina batterica di membrana di cui anni prima aveva presentato la struttura bidimensionale.
Lo sviluppo vertiginoso della cryo-EM negli ultimissimi anni è legato alla messa a punto di detector sensibilissimi che permettono di ridurre l’intensità del fascio di elettroni e quindi il danno alle fragili strutture delle biomolecole: il maggiore numero di immagini che si possono così raccogliere ha permesso di sfondare il livello di risoluzione quasi atomico di 3 Å.
Dobbiamo notare che la risoluzione di cui abbiamo bisogno per rappresentare una proteina non è proprio quella atomica, ma quella che ci permette di identificare e localizzare i diversi amminoacidi.
Quale tecnica per studiare le strutture biologiche?
Ma qual è allora la tecnica più potente per la biologia strutturale? In realtà servono i contributi di tutte le tecniche di cui abbiamo parlato.
La crio-microscopia elettronica ha il vantaggio di osservare non solo molecole, ma anche organelli, virus, cellule intere, di non richiedere la cristallizzazione delle proteine e di fornire immagini anche delle proteine di membrana, è insomma particolarmente adatto alla “biologia dei sistemi”.
Le proteine di membrana hanno un ruolo come enzimi, come recettori e come trasportatori e per comprenderne il funzionamento è molto importante poterle osservare nel loro sistema integro.
La cristallografia a raggi X è tuttora inarrivabile per il livello di risoluzione e la spettroscopia NMR permette di avere un’immagine dinamica delle biomolecole e dell’associazione tra molecole, senza parlare di altre tecniche spettroscopiche e della spettrometria di massa di cui per brevità abbiamo taciuto.
A parere di chi scrive il premio Nobel condiviso da tre scienziati, fatto comune ad altre edizioni e ad altri premi, ci dice che il progresso scientifico è oggi sempre il frutto della collaborazione di diversi gruppi di ricerca e della collaborazione di esperti di diverse discipline: è impensabile oggi un progresso delle scienze mediche non supportato da fisici, chimici, matematici e ingegneri.
Possiamo anche ricordare che il primo cryo-EM in funzione in Italia è operativo dalla metà del 2017 presso il Laboratorio di Crio-Microscopia elettronica (Cryo EM Lab) del Centro di Ricerca Pediatrica “Romeo ed Enrica Invernizzi” dell’Università degli Studi di Milano diretto dal professor Martino Bolognesi.
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Giovanni Boccardi
(Chimico, già ricercatore presso un grande gruppo farmaceutico)
© Pubblicato sul n° 67 di Emmeciquadro