L’astrazione pone difficoltà nell’insegnamento della matematica, perché deve essere conquistata personalmente.
Nei bambini corpo e mente non sono separati, perciò essi non possono conquistare un pensiero astratto già predisposto dagli adulti: il pensiero astratto nasce da una riflessione sistematica sull’esperienza.
La capacità di astrazione diviene così un obiettivo dell’educazione. La via dall’esperienza al pensiero astratto è ostacolata dalla pretesa di comunicare la matematica nell’ultima sua forma storica. Quando il patrimonio matematico è rielaborato in modo astratto e formale, i giovani si allontanano, nasce il rifiuto.
La metafora concettuale costituisce una via interessante per la scuola perché, trasferendo su un dominio il ragionamento fatto su un altro, permette di comprendere i concetti astratti in termini di concetti concreti.
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Perché l’astrazione della matematica pone difficoltà nell’insegnamento/apprendimento? E queste difficoltà sono tali da dover rinunciare al pensiero astratto?
L’ottica in cui mi pongo è quella delle difficoltà nell’apprendimento della matematica, non solo per gli allievi con problemi specifici, ma per tutti gli allievi. Parecchie difficoltà, infatti, sono generate da scelte didattiche errate.
Il matematico Carlo Felice Manara (1916-2011) segnala che l’operazione di astrarre è all’origine della costruzione dei concetti aritmetici e geometrici. Questa operazione consiste nel guardare soltanto a una parte delle cose, considerarne solo alcuni aspetti e non tenere conto di altri, come nella frase: «gli italiani, facendo astrazione dal sesso e dall’età, sono 57 milioni».
L’astrazione è personale, ciascuno la conquista identificandosi con un punto di vista. Carlo Felice Manara presenta per la matematica due esempi elementari: in aritmetica, il numero 4 si ottiene per astrazione da vari insiemi (punti cardinali, semi delle carte da gioco, insieme degli Evangelisti, eccetera); in geometria, «quando si dice che un mattone ha la forma di un parallelepipedo rettangolo, si intende che il concetto di questo solido geometrico viene costruito prescindendo dalla costituzione chimica del mattone, dal suo peso, dalle proprietà fisiche e dalla sua posizione relativamente ad altri oggetti» [Manara, 1994].
L’astrazione ostacola l’apprendimento?
Tra le ragioni della difficoltà nell’apprendimento della matematica, primeggia fin dall’inizio la frequente costrizione ad apprendere senza mediazione concetti astratti attraverso un linguaggio astratto.
Occorre chiarificare un equivoco. La matematica in quanto scienza sussiste solo nel suo linguaggio specifico e nella sua forma astratta, caratteristiche che permettono di utilizzarla come linguaggio per la conoscenza scientifica. Chi impara la matematica dovrebbe quindi arrivare a saper dominare l’astrazione.
Ma matematica e didattica della matematica non sono la stessa cosa! I problemi nascono al momento dell’insegnamento, quando si conosce la meta ma non la strada, è una questione di «metodo», legata alla natura della matematica, di chi apprende e dei processi con cui si apprende.
I bambini desiderano conoscere, il mondo è per loro un campo di esperienze, di scoperte, di approfondimenti, che avvengono attraverso le loro azioni, senza possibilità di scindere corpo e mente: attualmente il linguista George Lakoff e lo psicologo Rafael E. Núñez parlano di embodied mind [Lakoff e Núñez, 2005].
Ciò che motiva e muove è la passione per la realtà. Il pensiero astratto nasce poi da una riflessione sistematica sull’esperienza.
Pensiero spontaneo
In un’attività non scolastica, il bambino sa utilizzare le proprie capacità intellettuali per riuscire a ottenere il prodotto finale. Se l’iniziativa è sua, ha un’idea di ciò che vuole ottenere, dispone di un punto di riferimento: il risultato atteso dell’azione.
«Il suo pensiero è spontaneo, legato all’azione e all’obiettivo. Il suo scopo gli è chiaro e in generale accessibile. Altrimenti non ne avrebbe nemmeno concepito l’idea […]. Perché l’alunno incontra tante difficoltà a imparare a scuola? Una delle differenze essenziali è che, in un’iniziativa di sua scelta, è un vantaggio per il bambino partire dalla propria esperienza personale. Questa esperienza lo aiuta a dare un senso alle informazioni nuove, a costruire un legame con ciò che già conosce. Paradossalmente a scuola la situazione è spesso invertita. Invece di costituire un vantaggio, la sua soggettività può farlo smarrire e diventare un ostacolo» [B.M. Barth, 1990].
Un ostacolo epistemologico
Per Rosetta Zan la matematica per sua natura è astratta, prescinde dai contesti, che sono invece cruciali nell’esperienza di ognuno di noi. Questo aspetto della matematica, come pure il linguaggio che usa e l’esigenza di rigore che la caratterizza, è indubbiamente un nodo -qualcuno parla di «ostacolo epistemologico»- da tenere presente quando si insegna. La Zan non considera la capacità di astrazione condizione necessaria per l’apprendimento della matematica, ma piuttosto uno degli obiettivi dell’educazione matematica.
È una conquista a posteriori, non un prerequisito [Zan, 2006]. C’è quindi un’inversione dei tempi, se si pone all’inizio quello che dovrebbe essere un traguardo finale.
Cosa sono gli ostacoli epistemologici in matematica?
Alcuni errori in matematica non dipendono da mancanza di buona volontà o impegno da parte dello studente, ma sono reali «ostacoli» da superare.
Dopo la correzione, si ripresentano e possono riemergere anche dopo molto tempo. Secondo Bruno D’Amore: «ostacolo è un’idea che, al momento della formazione di un concetto, pur essendo stata efficace per affrontare alcuni problemi precedenti, si rivela fallimentare se applicata a un problema nuovo». Ancora: «talvolta si tende a conservare un’idea già acquisita e comprovata e, nonostante il fallimento, si cerca di salvarla; questo fatto finisce con l’essere una barriera verso successivi apprendimenti. Un’altra causa di ostacoli: talvolta il contratto didattico spinge a comportamenti errati» [D’Amore, 2003].
Per «contratto didattico» possiamo intendere l’insieme di tutto ciò che regola il comportamento degli allievi, ma anche dell’insegnante, in base alle attese che ciascuno di essi ha nei confronti dell’altro e della matematica. Per esempio, un allievo dice quello che pensa che l’insegnante si aspetti da lui in quel momento senza riflettere personalmente.
Gli ostacoli sono di vari tipi, la ricerca distingue: gli «ostacoli ontogenetici» sono legati all’allievo, in particolare allo sviluppo neuro-fisiologico; gli «ostacoli didattici» sono dovuti alle decisioni che prende l’insegnante o il sistema scolastico; gli «ostacoli epistemologici» sono i più interessanti, perché legati alla natura stessa della matematica.
Secondo alcuni ricercatori, certe difficoltà della disciplina si possono riferire alla presenza di ostacoli epistemologici, i quali, prima ancora che nel singolo individuo che apprende, hanno un riscontro nella storia del pensiero matematico.
Possibilità di educare all’astrazione
La questione risale a un giudizio errato. Jean Sauvy, nella conferenza del Convegno internazionale Omaggio a Emma e Lina (Roma 1976, Accademia dei Lincei, dedicato a Emma Castelnuovo e Lina Mancini Proia nel loro ultimo anno di insegnamento nella scuola secondaria), evidenzia un processo storico. Sottolinea la volontà, dopo il Rinascimento italiano, di migliorare le tecniche legate alle condizioni di vita.
Per molto tempo, le conoscenze pratiche, derivate dalle esperienze empiriche, erano restate appannaggio delle corporazioni che le utilizzavano: «Ma ecco venire uomini che, al di là di queste specializzazioni cercano legami teorici capaci di unificare queste conoscenze disperse» [Sauvy 2016].
Sauvy cita Girard Desargues (1591-1661), il quale ipotizza una radice comune per molte tecniche del suo tempo. Cercando questa radice, crea la geometria proiettiva. La geometria si presenta allora come uno strumento universale che può mettersi al servizio di molte tecniche: tanto da permettere a Sauvy di osservare che «la geometria è figlia della tecnica».
Da questo momento, fino alla metà del XIX secolo, gli sviluppi della matematica rispondono alle sollecitazioni di vari bisogni tecnici: per conservare il sapere e per trasmetterlo, ci si può basare su una teoria matematica esplicativa. Fioriscono in Europa scuole in cui moltissimi giovani ricevono una formazione geometrica e matematica. Nasce il mestiere di professore di matematica.
Sempre secondo Sauvy, questa situazione provoca l’apparire di «geometri poeti» che vedono le «strutture profonde» da sempre nascoste ai nostri sensi, cercano la bellezza formale delle costruzioni teoriche, esplorano al di là del visibile (Bernhard Riemann, Felix Klein, Sophus Lie, eccetera).
Il salto successivo avviene negli anni trenta, dopo la «grande guerra» del 1914-18. A Parigi alcuni matematici, detti bourbakisti, decidono di mettere ordine nel tesoro matematico costruito in precedenza, che appare loro eterogeneo, diverso, mal collegato. Rompono il legame con la realtà e l’esperienza, escludono ogni riferimento ai significati, traspongono il contenuto in rigide strutture assiomatiche, privilegiano il metodo assiomatico/deduttivo. Edificano in questo modo il corpus della matematica come un giardino, che per essere conservato esige matematici altamente qualificati, strettamente specialisti.
Il bourbakismo invade in breve tempo il campo della matematica. Sauvy nota però che questa situazione allontana dalla matematica molti giovani ben dotati. Gli insegnanti non hanno mai preso contatto con la storia dei creatori e ritengono essi stessi la matematica un sapere estraneo alla cultura scientifica, artistica, estetica. Sauvy auspica un ritorno alle fonti tecniche della matematica per correggere gli errori dell’insegnamento attuale.
Ecco di nuovo la necessità di distinguere la scienza della matematica dalla scienza della sua didattica. Con questo scopo, Sauvy si avvicina a Emma Castelnuovo e a Lina Mancini Proia, oltre a cercare strade personali.
E la realtà?
Recentemente, si intuisce nella scuola e nella ricerca didattica la necessità di collegare nell’insegnamento la matematica con la realtà. Rosetta Zan osserva che non basta usare questo riferimento per sottolinearne l’utilità e prevenire il rifiuto verso la matematica, perché vanno distinte l’utilità della matematica e quella del suo insegnamento, dato che è a questa ultima che molti studenti non credono. Indica però un modo irrinunciabile di collegare l’insegnamento della matematica con la realtà: il collegamento con «la realtà degli studenti».
«Con il loro linguaggio, con le forme di razionalità che funzionano benissimo per affrontare i problemi del loro mondo (e anche del nostro!), con le loro convinzioni, con la visione della disciplina e più in generale dell’apprendimento che hanno costruito, con le emozioni che associano a tali convinzioni, con i loro scopi, con il loro vissuto» [Zan, 2006].
Errore: risorsa da gestire
Rosetta Zan segnala il lavoro sull’errore come punto cruciale riguardo alle difficoltà. Di solito per correggere, l’insegnante si affanna a rispiegare più volte, ma questo comportamento non è fondato su un’analisi attenta delle difficoltà, come si vede bene mediante la metafora della medicina:
«Immaginiamo un medico che di fronte a un disagio del paziente continua a dare la stessa cura, pur se la cura si è dimostrata inefficace (e non solo con quel particolare paziente, ma con molti di quelli che manifestano lo stesso disagio). Immaginiamo addirittura che il medico si lamenti del paziente, perché non ha risposto positivamente alla cura! Tutto questo ci appare paradossale. A quel medico verrebbe spontaneo dire: ma è sicuro che quella cura vada bene per la malattia del suo paziente? È sicuro che la sua diagnosi sia corretta? Non sarà il caso di fare altri accertamenti?» [Zan, 2006].
Torniamo quindi a valorizzare i contesti, dove è evidente il senso. Utilizziamo situazioni e problemi, contestualizziamo la conoscenza da apprendere, pronti a decontestualizzarla quando le strutture saranno familiari.
Prevenire le difficoltà
Sempre secondo Rosetta Zan, per prevenire le difficoltà occorre fin dalla scuola primaria un’educazione matematica attraverso «attività significative» quali la produzione di congetture in risposta a un problema, l’argomentazione per sostenere tali congetture e in generale le proprie posizioni, la comunicazione fra pari.
Queste attività, in cui «l’adeguatezza del linguaggio» non è fissata a priori, ma è vista in relazione agli scopi che uno si pone, col passare del tempo evolveranno in attività più complesse quali appunto risolvere problemi, dimostrare teoremi.
«Quello che invece in genere caratterizza la pratica didattica è ben altro: l’insegnante spiega un frammento di teoria, illustra come applicare tale frammento a esercizi addomesticati, e quindi propone agli allievi numerosi esercizi dello stesso tipo. Una volta imparata questa routine, gli aspetti teorici spariscono nell’ombra, come le istruzioni di un elettrodomestico dopo che abbiamo imparato a utilizzarlo. Il linguaggio matematico è percepito come imposto artificiosamente, non collegato a scopi condivisi dagli studenti. In definitiva si introducono strumenti che vengono percepiti utili solo per fare cose percepite come inutili» [Zan, 2006].
Conclusione
Quando un bambino nasce, non sa parlare, ma osserva, comunica esprimendosi a modo suo, entra in relazione con le persone e con l’ambiente. Dopo un lungo apprendistato, impara a parlare. Analogamente, in ogni campo del sapere, il linguaggio segue l’esperienza, non può precederla.
Anche in matematica, prima del linguaggio devono esistere nella mente di chi impara gli oggetti e le strutture della matematica, che non sono oggetti del mondo fisico, ma vivono e sono reali nella mente. Come vengono generati?
La questione centrale dell’inizio è porre l’attenzione sulle azioni che sono al fondo dell’aritmetica e della geometria, utilizzando tutti gli strumenti possibili per riconoscere «l’identità delle strutture», imparare a usare il disegno per rappresentarle, e come ultimo passo tradurle nel linguaggio della matematica.
I giochi, i problemi, i disegni sono metafore attraverso cui ci si procura di incontrare alcune strutture (per esempio aggiungere, dividere in parti, uguali o diverse). Il lavoro, necessariamente lungo e complesso, tende a frammentarsi in particolari scollegati, «raccontarlo» permette di diventare consapevoli dei passi fatti e quindi di imparare, passando da una conoscenza intuitiva a una conoscenza consapevole. Successivamente il processo costruttivo si ripete, ma il passaggio sarà da un livello di astrazione a uno più alto, sarà la stratificazione di metafore una sull’altra [Lakoff e Nùñez, 2005].
Mentre il rimando al concreto è spesso concepito come spazio per la manipolazione, l’ottica delle strutture in matematica sottolinea la necessità di utilizzare opportune metafore, che siano «approccio globale a una struttura». Per prenderne consapevolezza diventa importante la «narrazione».
Riprenderò questa dinamica in un articolo successivo presentando esempi di attività svolte a scuola.
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Anna Paola Longo
(Associazione Ma.P.Es. – Matematica Pensiero Esperienza – Milano)
Indicazioni bibliografiche e sitografiche
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Barth B.M., 1990, L’apprendimento dell’astrazione, La Scuola, Brescia
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D’Amore B., 2003, Le basi filosofiche, pedagogiche, epistemologiche e concettuali della didattica della matematica, Bologna, Pitagora.
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Lakoff G. e Núñez R., 2005, Da dove viene la matematica, Bollati Boringhieri, Torino.
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Manara C.F., 1994, Il concetto di astrazione in matematica, Scuola italiana moderna, 13.
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Zan R., 2006, (intervista), La matematica è difficile perché astratta?, Aetnascuola.it, 2010
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Sauvy J., 2016, Invito a un ritorno alle fonti tecniche della matematica e a una pedagogia più viva, in: L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate, vol.39A N.4, Centro Ricerche didattiche Ugo Morin, Paderno del Grappa.
© Pubblicato sul n° 67 di Emmeciquadro