La storia delle macchine a vapore per l’utilizzo della «forza motrice del fuoco» è normalmente poco presente nei libri di testo di Storia e di Fisica, anche perché lo studio della Termodinamica è spesso trascurato.
L’autore traccia un excursus delle tappe più significative dell’invenzione e dello sviluppo tecnologico di queste macchine che condizionarono fortemente quella rivoluzione culturale e sociale che va sotto il nome «di prima rivoluzione industriale».
Una lettura interessante che offre spunti per approfondimenti ulteriori sia sulla evoluzione della struttura specifica delle macchine sia sul complesso rapporto tra scienza e tecnica.



 

Nei testi scolastici, l’invenzione della macchina a vapore viene giustamente ricordata come uno dei principali «motori» (anche se non l’unico) dei grandi cambiamenti nel modo di produrre che avvennero con la cosiddetta Rivoluzione Industriale.
Ci sembra peraltro, che il modo in cui questa tematica tecnologica viene il più delle volte introdotta in manuali di Storia che prevalentemente trattano di guerre, rivoluzioni, dispute dinastiche, conquiste coloniali, eccetera, od anche in testi di Fisica, rischi di ingenerare l’errata impressione che prima della macchina a vapore quasi non esistessero macchine e che esse non fossero utilizzate per produrre manufatti o per alleviare la fatica del lavoro.
In realtà, già in parte nell’antichità, ma sempre più a partire dal Medioevo, si costruivano macchine di vario tipo, anche piuttosto complesse (macchine da guerra, mulini ad acqua e a vento, forge, telai, filatoi, orologi, grandi navi a vela, eccetera) a opera di artigiani e «uomini d’ingegno» che inizialmente avevano poco a che fare con il mondo degli «scienziati», che ancora quasi non esisteva, ma che furono poi capaci di comprendere e assorbire i concetti che filtravano da tale mondo, quando esso si sviluppò, rielaborandoli a fini pratici.
La stessa realizzazione delle prime macchine che sfruttavano il vapore avvenne a opera di tali personaggi, la cui fantasia creativa fu certamente stimolata da crescenti necessità pratiche, ma che ricevette ispirazione anche dalla comprensione e dalla descrizione sistematica di alcuni fenomeni fisici fondamentali che era stata fatta da scienziati della loro epoca. In effetti la stessa idea di utilizzare delle forze di pressione-depressione si può far risalire alla dimostrazione (1644) della esistenza della pressione atmosferica a opera di Evangelista Torricelli (1608-1647), ai famosi esperimenti di Otto Von Guericke (1602-1686) (gli emisferi di Magdeburgo, ma più ancora la dimostrazione fatta con un accoppiamento cilindro-pistone) del 1650-54, e agli esperimenti del fisico francese Denis Papin (1647-1712), che lavorò a lungo in Inghilterra, il quale dimostrò in laboratorio nel 1690 la possibilità di creare forze di depressione in un accoppiamento cilindro-pistone con l’ausilio del vapore.
Non c’è dubbio, comunque, che fu nelle scure e fumose officine dei fabbri e dei meccanici che queste idee si materializzarono in macchine ancora rozze, ma funzionanti.



 

Precursori e inventori delle prime macchine a vapore

Un riconosciuto, anche se a volte dimenticato, precursore nella costruzione di macchine a vapore fu il capitano inglese Thomas Savery (nato nel Devon nel 1650, morto a Londra nel 1715), che ottenne nel 1698 un ampio e vantaggioso brevetto reale per macchine che sfruttassero the impellent force of fire.
Savery concepì e realizzò in realtà solamente un tipo di pompa idraulica (le pompe idrauliche non erano di per sé una novità) in cui la condensazione del vapore creava una depressione tramite la quale si risucchiava direttamente l’acqua che si voleva sollevare.
In pratica, in questo modo, oltre a ottenere una bassissima efficienza termodinamica, si introduceva un pesante limite al dislivello massimo che si poteva superare. La macchina non era quindi molto utile per il drenaggio di miniere profonde, che invece era una esigenza molto sentita nell’Inghilterra di quegli anni, e che ne aveva ispirato la costruzione.
Alcune macchine di Savery furono però effettivamente realizzate, nei primi anni del Settecento, anche se con modesto successo pratico. Per questo motivo gli storici non sono concordi nel considerare quella di Savery come la prima macchina a vapore, la cui invenzione viene più frequentemente associata al nome di un altro inglese, Thomas Newcomen.



Thomas Newcomen
Le notizie sulla vita di costui, nato a Dartmouth, nel Devon, nel 1663, sono piuttosto scarse. Per esempio della sua infanzia e della sua educazione non si sa praticamente niente; pare comunque che abbia cominciato a lavorare, in giovanissima età, come usava a quei tempi, quale apprendista in una bottega di fabbro, probabilmente a Exeter, che non è molto distante dal suo luogo di origine.
Ormai maturo, verso il 1703 gli riuscì di impiantare una sua attività di fabbro e commerciante di ferramenta nella sua città, entrando in società con un idraulico e vetraio. Un testimone di quei tempi riporta che l’idea della sua macchina a vapore gli venne durante i suoi frequenti viaggi nella vicina Cornovaglia, come fornitore di attrezzi e materiali di ferro alle numerose miniere di quella regione.
Proprio qui egli si rese conto di quanto fosse complesso e dispendioso mantenere il sistema di pompe azionate da cavalli che erano necessarie al drenaggio delle miniere, in particole quelle di stagno. I prototipi del suo motore a vapore furono realizzati dopo il 1705, e lo sviluppo dell’idea richiese diversi anni.
[A sinistra: Schema di funzionamento della macchina a vapore di Thomas Newcomen (circa 1712)]
Non è noto se Newcomen avesse in precedenza collaborato con Savery, né da dove gli provenissero le conoscenze necessarie a concepire e costruire la sua macchina. È comunque noto che l’esistenza del brevetto concesso a Savery, che aveva una lunga durata e copriva tutte le macchine in grado di sollevare acqua con la «forza del fuoco», lo costrinse a mettersi d’accordo con quest’ultimo.
La macchina di Newcomen sfruttava come quella di Savery la depressione che si otteneva facendo condensare del vapore d’acqua. Si trattava dunque di una macchina a vapore di tipo «atmosferico», in quanto il lavoro utile non veniva compiuto dalla espansione del vapore in pressione, ma dalla pressione atmosferica, che agiva su di un pistone, scorrevole all’interno di un cilindro.

La macchina di Newcomen

Più in dettaglio si può vedere, nello schema precedente, che la caldaia era costituita da una specie di grosso pentolone chiuso, costruito in lamiera chiodata, posto su un focolare a carbone (qualcosa di simile era in uso nelle fabbriche di birra del tempo). In questo recipiente si produceva del vapore a bassissima pressione, che tramite una valvola veniva immesso nel cilindro, costruito in ottone.

Il pistone che scorreva nel cilindro era poi collegato, tramite una catena e un grosso bilanciere di legno, a un’asta o catena più lunga che azionava una pompa, anch’essa a pistone, posizionata in basso nella miniera, in modo da non avere problemi di dislivello. La tenuta del pistone era fatta di cuoio, e al disopra di esso veniva, in aggiunta, mantenuto un battente d’acqua, per limitare le perdite: ciò era possibile perché superiormente il pistone era libero.

All’inizio del ciclo l’apertura di una valvola provocava l’immissione del vapore caldo, e nel contempo il pistone risaliva nel cilindro essenzialmente per il peso dell’asta della pompa. Quando il pistone era giunto al punto più alto, all’interno del cilindro veniva automaticamente immesso, tramite una valvola azionata dai cinematismi della macchina, uno spruzzo di acqua fredda che provocava l’immediata condensazione del vapore e la creazione di una depressione, che di conseguenza consentiva alla pressione atmosferica di spingere il pistone in basso, sollevando di conseguenza l’acqua nella pompa.

Poi il ciclo si ripeteva in maniera automatica, al ritmo di circa 12-15 volte al minuto, tramite leveraggi e meccanismi che rappresentarono forse il contributo più originale dato da Newcomen allo sviluppo di questa macchina.

La potenza dei primi esemplari realizzati era di circa 5 Hp1, ma in seguito furono prodotte macchine di potenze dell’ordine dei 30-40 Hp (valori ben superiore alle tipiche ruote idrauliche del tempo). Il rendimento termodinamico del sistema era molto basso, fra lo 0,5% e lo 1%, perché le dispersioni termiche, gli attriti e la scarsa tenuta degli accoppiamenti erano enormi; ma la macchina era robusta e affidabile e poteva lavorare giorno e notte, purché il fuoco fosse alimentato in continuazione (in genere con carbone di scarto, di bassa qualità e costo).
Nel 1712 una prima macchina cominciò a funzionare in maniera continuativa per il drenaggio dell’acqua da un pozzo profondo circa 45 m. L’invenzione ebbe subito un buon successo2 e prima della morte di Newcomen (1729), erano già stati costruiti un centinaio di esemplari, sia in Inghilterra sia sul Continente.
Nonostante fossero abbastanza rudimentali, le macchine di Newcomen (nel frattempo perfezionate dall’ingegnere e inventore John Smeaton) rimasero sulla scena per molti decenni, tanto che le ultime erano ancora in servizio nel 1790; inevitabilmente però, la loro scarsa efficienza ne decretò il progressivo abbandono a favore delle più evolute macchine a vapore sviluppate da James Watt.

James Watt
Costui era nato vicino a Glasgow in Scozia, nel 1736 ed aveva cominciato la sua carriera come meccanico di precisione e costruttore di strumenti matematici e scientifici per la locale Università.
Nel 1764 gli fu affidata la riparazione di un modello di macchina di Newcomen che veniva usata durante le lezioni; eseguendo questo lavoro egli ebbe le idee giuste per perfezionare la macchina, fino ad arrivare ad un primo brevetto, nel 1769.

Prima macchina vapore di James Watt, dotata di condensatore separato e cilindro riscaldato (circa 1770)

La macchina di Watt

Dallo schema precedente si può vedere che le prime macchine di Watt avevano una struttura abbastanza simile a quelle di Newcomen, ed erano ancora di tipo atmosferico.

Il cilindro veniva però tenuto sempre caldo da una camicia esterna dove fluiva il vapore: inoltre superiormente era chiuso da un coperchio, attraverso il quale passava l’asta che trasmetteva il moto. La condensazione del vapore che creava la depressione non avveniva all’interno del cilindro (fatto che nella macchine di Newcomen, ogni volta provocava il suo raffreddamento e una notevole dispersione di calore), ma in un «condensatore» separato.

Quest’ultimo era mantenuto in depressione, con una apposita pompa, ed a bassa temperatura con acqua fredda esterna. Dopo che l’immissione di vapore caldo aveva fatto sollevare il pistone (allo stesso modo di quanto succedeva nella macchina di Newcomen) la valvola di ammissione del vapore veniva chiusa e contemporaneamente si apriva un’altra valvola che metteva in comunicazione il cilindro con il condensatore.

Poiché esso era in depressione, il vapore vi veniva subito aspirato e, condensando, sia per via di uno spray di acqua fredda, sia per via delle pareti fredde, creava un vuoto parziale nel cilindro, il cui stantuffo era a questo punto spinto verso il basso, in modo analogo a quanto succedeva nella macchina di Newcomen.

In un secondo tempo Watt aggiunse, in questa fase, una ulteriore immissione di vapore, a pressione leggermente superiore a quella atmosferica, nella parte superiore del cilindro, in modo da mantenerlo ancora più caldo: questo vapore compiva anche un certo lavoro aggiuntivo, in aiuto alla pressione atmosferica. Watt introdusse anche altri miglioramenti, in particolare un migliore accoppiamento meccanico fra cilindro e pistone3.

Dopo vari tentativi e prove effettuate su modelli a piccola scala e prototipi, furono le macchine da lui realizzate a partire dal 1777, che ebbero un vero successo. In particolare fra il 1781 e il 1788 Watt, realizzò nelle officine e fonderie Boulton di Soho, nei pressi di Birmingham, grazie alla fiducia e agli investimenti di Matthew Boulton (1728-1809), del quale era in breve divenuto socio, le prime macchine a vapore nelle quali il moto alternato del pistone era indotto dal doppio effetto della pressione del vapore e della depressione atmosferica.
Ovviamente in questo caso non era più possibile mantenere il sistema di trasmissione del moto a catena e bilanciere, che era tipico delle macchine di Newcomen e delle prime macchine di Watt (il quale poteva funzionare solamente in modo unidirezionale); a questo scopo fu introdotto un semplice e geniale cinematismo, che prese anch’esso il nome dal suo inventore (parallelogramma di Watt).
Dopo qualche anno fu adottato un ulteriore perfezionamento mediante il quale il moto alternato dello stantuffo, all’interno di un cilindro “a doppia azione”, veniva trasformato in moto rotatorio, tramite un meccanismo biella-manovella (cinematismo ben noto, per utilizzare il quale Boulton e Watt dovettero però superare alcuni problemi legali dovuti a esistenti brevetti).
Inoltre la velocità di rotazione veniva mantenuta costante, indipendentemente dalla potenza richiesta alla macchina, o dalle piccole variazioni della «qualità» del vapore, tramite un regolatore centrifugo a masse rotanti che agiva sulla valvola di ammissione del vapore (anche in questo caso dispositivi simili erano già in uso sui mulini a vento, ma Watt li adattò all’uso col vapore).

Macchina a vapore evoluta di Watt dotata di regolatore di velocità, volano ed accoppiamento biella-manovella (circa 1780)

Le macchine a vapore di Watt raggiunsero rendimenti di quasi il 3%, mentre le potenze tipiche che fornivano erano fra 7 e 15 Hp. Fu questo il tipo di macchina che iniziò a fare una seria concorrenza alle ruote idrauliche che fino a quel momento avevano azionato i filatoi, i telai, i laminatoi, eccetera, delle fabbriche inglesi, svincolando il loro lavoro da problemi di localizzazione in vicinanza dei corsi d’acqua e dai capricci del tempo.
Tali macchine resero economico l’utilizzo della forza del vapore anche per il drenaggio delle miniere di carbone, dove il valore del prodotto, assai inferiore a quello dei minerali metallici della Cornovaglia, non ne aveva fin a quel momento reso conveniente l’introduzione.

 

Le locomotive trainano lo sviluppo delle macchine a vapore

Agli inizi dell’Ottocento, l’idea di rendere semovente un veicolo o un battello4 mediante la «forza del vapore», che si era già affacciata sulla scena tecnologica verso il 1770, con lo sfortunato «triciclo» del francese Joseph Cugnot, e con qualche altro infruttuoso tentativo, prese corpo in Gran Bretagna, grazie al lavoro di Richard Threvithick, nato in Cornovaglia nel 1771.

Richard Threvithick
Costui perfezionò gli esistenti motori a vapore, e le relative caldaie, e realizzò i primi prototipi discretamente funzionanti di «locomotive», in grado di trainare i pesanti carrelli delle wagonways, cioè dei (brevi) percorsi su binari, allora già relativamente comuni in questo paese, costruiti in genere per collegare miniere e fabbriche a porti o canali.
Il problema di sistemare su di un carrello adatto a scorrere su binari una ingombrante e pesante macchina nata per usi stazionari, fu affrontato da Threvithick nell’unica maniera intuitivamente possibile, progettando una caldaia a un tempo compatta e in grado di produrre vapore a una pressione, ancora di poche «atmosfere» (3-4 atm, in alcuni tentativi fino a 10 atm), ma comunque superiore a quella che i suoi contemporanei, ben consci dei pericoli di esplosioni, utilizzavano normalmente.

Il motore di Threvithick
La caldaia del motore di Threvithick si differenziava nettamente da quella specie di grosse «pentole a pressione», riscaldate dall’esterno, che erano state fino ad allora in uso. Era costituita da un barilotto orizzontale di lamiera di ferro, all’interno del quale era ricavato il focolare e un unico condotto di passaggio dei fumi, sagomato come una grossa U, in modo che essi percorressero tutta la lunghezza della caldaia e ritornassero indietro dal lato del focolare, per poi scaricarsi nel camino.
In questo modo l’acqua contenuta nel corpo della caldaia veniva riscaldata dall’interno; anche l’unico cilindro/pistone del vapore, a doppio effetto, era sistemato all’interno della caldaia, e il tutto era concepito per mantenere il più possibile costante la pressione, riducendo le dispersioni di calore. Dopo essersi espanso il vapore veniva scaricato nel condotto dei fumi: in questo modo si «energizzava» il tiraggio del lungo camino e si attivava la combustione del carbone, consentendo di produrre più vapore.
Threvithick concepì anche i cinematismi, a dir la verità un po’ macchinosi vista la presenza di un solo cilindro/pistone, in grado di produrre un movimento delle sue locomotive sufficientemente regolare e controllabile.

Non abbiamo in questa sede spazio per entrare nei particolari, e ci limiteremo a ricordare che i tentativi di Threvithick, iniziati già verso il 1797 con la costruzione di modelli in miniatura funzionanti, culminarono agli inizi nel 1804 con la realizzazione di una locomotiva, denominata Pen-y-darren, che fu in grado di trainare, a piccola velocità, un carico di 10 tonnellate di ferro su una esistente strada ferrata, lunga circa 15 km, che collegava una ferriera con un canale artificiale, nel Galles Meridionale5.

Schema della locomotiva Penydarren di Richard Threvithick (1804)

Negli anni successivi il nostro inventore produsse altre locomotive, dandone pubblica dimostrazione perfino a Londra, ma i tempi non erano evidentemente ancora maturi perché la novità venisse accettata.
Un po’ più di successo ebbero le sue caldaie e i suoi motori a vapore stazionari, costruiti in base agli stessi principi, che furono adottati in diverse miniere e stabilimenti. Ma nel complesso la carriera e gli affari di questo geniale meccanico, che dopo il 1816 cercò occasioni di lavoro anche in Sud America, furono molto sfortunati, tanto che quando morì (Dartford, Kent, 1833) era praticamente ridotto in miseria.
Nonostante gli insuccessi personali, le idee di Threvithick sui motori a vapore e sulle locomotive, non mancarono, col tempo, di affermarsi. Furono però necessari altri 10-15 anni perché un nuovo genio della meccanica inglese, George Stephenson, nato nel 1781 a Wylam, vicino a Newcastle-on- Tyne (nel bel mezzo del più ricco distretto britannico del carbone) percorresse con più fortuna la strada che il suo collega aveva indicato.

George Stephenson
A dir la verità gli anni della fanciullezza e della prima giovinezza di Stephenson furono caratterizzati da una tale povertà di mezzi familiari e di istruzione, che difficilmente si sarebbe potuto prevedere lo sviluppo che ebbe la sua vita. Ma evidentemente l’aver «respirato» fin da piccolo «vapore e polvere di carbone» (suo padre era il fuochista della macchina a vapore della miniera di carbone di Wylam) ebbe un effetto di stimolo sul suo innato genio meccanico ben superiore alla mancanza di studi regolari che la sua famiglia non ebbe i mezzi per garantirgli.
La «vaporiera» Blucher, che Stephenson mise in funzione nel 1814 sulla strada ferrata che serviva la miniera di carbone di Killingworth (poco a nord di Newcastle) viene da molti considerata la prima vera locomotiva che ebbe un utilizzo pratico continuativo.
Stephenson si costruì in pochi anni un’ottima fama di esperto di vaporiere, fino a essere assunto come progettista e direttore dei lavori dalla ferrovia Stockton&Darlington, fondata nel 1821 per il trasporto di merci su rotaia. Su questa linea, lunga circa 40 km, il 27 settembre del 1825, lo stesso Stephenson guidò la locomotiva a vapore Locomotion, costruita in collaborazione con suo figlio Robert, trainando un convoglio ferroviario con a bordo qualche centinaio di passeggeri, per la maggior parte sistemati in modo precario nei carri aperti normalmente usati per le merci.
Nel giro di pochi anni i tempi divennero maturi per la realizzazione della prima linea ferroviaria (per merci e passeggeri) di collegamento fra due città importanti, Liverpool e Manchester, che distano fra loro circa 48 km. Poiché i costruttori di locomotive a vapore erano diventati numerosi, i promotori dell’iniziativa lanciarono un vero e proprio concorso per la scelta della migliore macchina.
Tra i cinque partecipanti prevalse la locomotiva Rocket (razzo) degli Stephenson, che ebbero così una commessa per la costruzione di otto macchine, che iniziarono il regolare servizio su questa linea nel settembre del 1830.


Schema generale della locomotiva Rocket di G&R Stephenson (1829)

La Rocket vinse la competizione anche grazie all’adozione di una caldaia «a tubi di fumo» una soluzione che favoriva nettamente lo scambio termico fra i gas di combustione e l’acqua bollente, consentendo una produzione stabile e costante di vapore; questa configurazione6 fu da allora in poi adottata, in varie forme dalla maggior parte delle locomotive.

Spaccato di uno dei cilindri della locomotiva Rocket di G&R Stephenson con distribuzione a cassetto piano (ricostruzione)

Analogamente divennero comuni la disposizione laterale di due cilindri (a doppio effetto), collegati direttamente alle ruote motrici con un cinematismo a biella-manovella e l’utilizzo delle valvole a «cassetto piano» di distribuzione del vapore, così come l’accorgimento di scaricare il vapore in uscita dai cilindri nel fumaiolo (questo accorgimento conferisce alle locomotive il caratteristico rumore «sbuffante»).
Non abbiamo spazio per tracciare, neppure sommariamente, la storia dello sviluppo delle locomotive7, ma nel box sono riportati alcuni dati per dare un’idea dei progressi, derivanti da innumerevoli perfezionamenti tecnici, che la macchina a vapore compì nei circa cento anni in cui dominò il mondo delle ferrovie (tra i principali l’adozione della distribuzione Walschaerts a cilindro, del surriscaldamento del vapore e, in alcune macchine, anche della doppia espansione, accorgimento quest’ultimo più comune nei motori a vapore navali, dove gli spazi e gli ingombri sono meno critici).

Schema di locomotiva a vapore surriscaldato e distribuzione Walschaerts (seconda metà del XIX secolo)

Cento anni di sviluppo delle locomotive

La locomotiva Rocket pesava circa 5 tonnellate, utilizzava vapore alla pressione massima di 3,4 atm, sviluppava una potenza di circa 20 Hp (15 kW), aveva un rendimento termodinamico non precisato (probabilmente circa 5%) e raggiungeva una velocità massima di 45 km/h.
Negli anni Trenta del XX secolo, quando ormai le locomotive avevano raggiunto l’apice del loro sviluppo, la pressione del vapore delle migliori macchine era di solito compresa fra 12 e 20 atm (anche se in Germania ci furono tentativi di utilizzare pressioni fino a 60 atm), ma il rendimento termodinamico non superava il 10-12% (a causa del fatto che nelle locomotive il ciclo termodinamico è in ogni caso «aperto» e l’espansione del vapore può avvenire solamente fino alla pressione atmosferica).
Le potenze unitarie erano però salite a valori usuali attorno 1300 Hp (con punte fino a 3500-4000Hp) e i pesi a molte decine di tonnellate; velocità massime dell’ordine dei 130-150 km/h erano abbastanza comuni.

 

Dalle locomotive alle turbine a vapore

Benché la macchina a vapore di tipo «alternativo» (cioè a cilindro-pistone) dominasse il mondo delle ferrovie, delle fabbriche e delle navi per tutto il XIX secolo (e anche oltre), negli ultimi due decenni del secolo, diversi tecnici (Parsons in Inghilterra, Rateau in Francia, Curtis negli USA e De Laval in Svezia), cominciarono a lavorare, quasi in contemporanea, all’idea di una diversa macchina a vapore, non più a moto alternativo, ma a moto rotatorio: nacque così la turbina a vapore.
Furono ancora una volta gli inglesi ad arrivare per primi alla produzione di un prototipo di caratteristiche affidabili, con una turbina, del tipo multistadio «a reazione» da 2300 Hp, prodotta dalla Parsons LtD (società fondata nel 1889 da Charles Parsons), che fu montata sul Turbinia, un battello collaudato con successo nel 1897, capace di raggiungere la velocità di 34 nodi, superiore a quella di qualsiasi nave di quel tempo.

Battello TURBINIA lanciato alla velocità di 34 nodi, grazie a una turbina a vapore Parsons da 2300 Hp (1897)

A cominciare dagli inizi del Novecento, le turbine a vapore, grazie alla loro caratteristiche di compattezza, elevata velocità di rotazione, assenza di vibrazioni, eccetera, divennero abbastanza rapidamente i «motori primi» più usati in campo navale e nelle centrali termoelettriche.
Per questi ultimi impianti, in particolare, esse si dimostrarono le macchine più adatte all’accoppiamento diretto con i generatori elettrici veloci (alternatori trifase), divenendo la spina dorsale del sistema centralizzato di produzione dell’energia elettrica, che ha dominato il processo di elettrificazione dei paesi più avanzati per tutto il secolo XX. Le turbine a vapore, dimostrarono in breve un potenziale di sviluppo ben superiore a quello delle altre macchine a vapore, sia in termini di efficienza sia in termini di potenza massima generabile.
Si consideri per esempio che negli anni Sessanta del XX secolo si arrivò a costruire turbine del tipo tandem compound (costituite cioè da più «corpi» di alta, media e bassa pressione, collegati in serie fra loro, ognuno ottimizzato per sfruttare al meglio una parte del salto entalpico complessivo del vapore), destinate alle centrali nucleari, di potenza unitaria superiore a 1.330.000 Hp (circa 1000 MW). Ma anche negli impianti termoelettrici convenzionali (per esempio nella gran parte di quelli costruiti in Italia dall’ENEL, dopo la Nazionalizzazione del Sistema Elettrico) potenze dell’ordine di 320-660 MW divennero usuali.

Sezione di turbina a vapore tandem compound da 320 MW (seconda metà del XX secolo)

Si tenga anche presente che tali turbine, erano costruite per lavorare con pressione del vapore in ingresso al corpo di alta pressione dell’ordine di 160-170 atm e temperature di circa 540 °C; ovviamente necessitavano di caldaie, o per meglio dire di «generatori di vapore» (non più a tubi di fumo, come nelle locomotive, ma a tubi di vapore) in grado di produrre vapore surriscaldato di tali caratteristiche; per questo erano dotate di accorgimenti particolari quali preriscaldatori dell’aria e dell’acqua di alimento, serpentine di surriscaldamento, eccetera.
Negli impianti termoelettrici più moderni e sofisticati costruiti negli ultimi decenni del XX secolo il rendimento termodinamico complessivo ha raggiunto valori dell’ordine del 40%.
Solo un accenno al fatto che rendimenti ancora migliori sono stati ottenuti con i cicli a vapore USC (ultra supercritici), aumentando ulteriormente la pressione (270 atm) e la temperatura del vapore (600-610 °C), valori peraltro raggiungibili solamente con l’utilizzo, nelle caldaie e nelle turbine, di acciai di caratteristiche termomeccaniche (e di costo) nettamente superiori.
Tali impianti sono a tutt’oggi poco diffusi; molto più successo hanno invece riscosso i cosiddetti «cicli combinati», nei quali una turbina a gas (alimentata a gas naturale) viene accoppiata a una turbina a vapore alimentata dal vapore prodotto, in una speciale caldaia «a recupero», utilizzando i gas di scarico della turbina a gas. Con questi cicli si sono raggiunti e superati rendimenti termodinamici complessivi del 50%.

 

Conclusioni

Per concludere questo veloce e sommario excursus sulla evoluzione delle macchine a vapore ci sembra interessante sottolineare che agli inizi e per molti decenni il loro sviluppo avvenne senza che le idee base della Fisica dei fenomeni termici (calore, temperatura, trasformazioni di stato, eccetera) avessero trovato un inquadramento scientifico completo e coerente. In effetti la sistemazione teorica dei concetti della Termodinamica avvenne, nel corso dell’Ottocento, in maniera progressiva, e a opera di vari scienziati.
Solamente attorno al 1824 il francese Sadi Carnot, con il teorema che prese il suo nome e con l’idea di «macchina termodinamica ideale», chiarì definitivamente il concetto di rendimento termodinamico, cioè i limiti fisici a cui deve sottostare qualsiasi macchina termica che sfrutti il calore per produrre lavoro meccanico.
Con la definizione della temperatura assoluta e del secondo principio della termodinamica (Lord Kelvin, 1848), la dimostrazione dell’equivalenza di calore e lavoro (James P. Joule, 1850), i concetti di irreversibilità ed entropia (Rudolf Clausius, 1855), il progressivo abbandono dell’idea dell’esistenza di un fluido «calorico», e infine i concetti di energia interna e trasformazione termodinamica (Willard Gibbs, 1876), dai quali in seguito derivò l’uso del termine «entalpia», si arrivò un po’ alla volta, a una sistemazione definitiva della Termodinamica.
Questo processo, che implicò anche una progressiva unificazione e standardizzazione internazionale dei concetti e della terminologia, si concluse solamente nei primi decenni del Novecento, implicando anche l’introduzione di alcune metodiche di calcolo che semplificarono notevolmente il lavoro degli ingegneri che progettavano macchine e impianti che sfruttavano le trasformazioni termodinamiche del vapore d’acqua. È il caso per esempio del famoso diagramma h-s (entalpia-entropia) pubblicato nel 1906 dal fisico e ingegnere austriaco Richard Mollier (1863-1935), che prese in seguito il suo nome.
Ma le macchine a vapore che erano state uno dei principali motori della prima rivoluzione industriale e che dopo il 1830, come abbiamo accennato, misero in moto anche la rivoluzione dei trasporti, con le ferrovie e le navi a vapore, erano state costruite e avevano trovato largo impiego già molti anni prima che gli scienziati riuscissero a inquadrare, in relazioni matematiche e principi fisici, il loro funzionamento.
Si tratta in effetti di uno dei più significativi esempi del fatto che la tecnologia ha spesso preceduto la scienza nello sviluppo di macchine e dispositivi di ogni genere (un altro esempio eclatante è l’aeroplano), a dimostrazione che essa non è (neppure ai nostri giorni), semplicemente «scienza applicata».
Con ciò non si vuole ovviamente sminuire il fatto che la rinnovata capacità di osservazione e interpretazione dei fenomeni naturali, che ebbe un importante impulso dalla nascita della scienza moderna, abbia positivamente e largamente influenzato tutto il mondo delle tecnica, e in particolare quello che si sviluppò attorno alle macchine a vapore, ma si vuole in ogni caso sottolineare che la tecnologia non è totalmente dipendente per il suo sviluppo dalle conoscenze scientifiche, e segue anche strade sue proprie per raggiungere i suoi obbiettivi.

 

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Gianluca Lapini
(Ingegnere. Già ricercatore presso CISE e CESI Ricerca S.p.a.)

Indicazioni bibliografiche

  1. Jorgen Lovland, A History of Steam Power, Department of Chemical Engineering NTNU, Trondheim, Norway, 2007.

  2. Arthur Stowers, Thomas Newcomen’s First Steam Engine 250 Years Ago and the Initial Development of Steam Power, Transctions of the Newcomen Society, Vol. 24, 1961-62.

Note

  1. Abbiamo preferito utilizzare in tutto il testo come unità di misura della potenza, invece dei kW gli Hp (horse power), ricordando che essa deriva il suo nome dal fatto che prima dell’introduzione delle macchine a vapore, era usuale indicare la potenza necessaria a eseguire un certo lavoro, per esempio azionare una pompa, con il numero di cavalli che andavano impiegati. Analogamente come unità di misura della pressione utilizziamo le desuete atm (atmosfere, per altro non molto diverse dai bar e dai Kpa), in omaggio a quella che fu la prima unità di misura della pressione di uso comune.

  2. Per comprendere il motivo di questo successo, bisogna pensare che la gestione di una scuderia di cavalli per una miniera era un affare piuttosto complesso, perché gli animali richiedevano un frequente ricambio. Nelle miniere più grandi poteva quindi essere necessario avere a disposizione centinaia di cavalli, e il relativo personale per alimentarli e accudirli, in modo da garantire il drenaggio continuativo delle acque di infiltrazione o piovane, tramite pompe o altro.

  3. Intorno al 1774, John Wilkinson (1728-1808) realizzò una macchina alesatrice di precisione, che oltre a servire per la foratura delle canne dei cannoni, risultò molto utile per produrre cilindri dimensionalmente più perfetti per le macchine a vapore di Watt.

  4. Per esigenze di spazio non parleremo dello sviluppo dei motori a vapore in campo navale, anche se essi diedero un contributo allo sviluppo della navigazione altrettanto importante di quello che accadde sulla terra con le locomotive.

  5. Presso il Museo Nazionale del Galles di Cardiff esiste una replica funzionante di questa macchina, costruita sulla base dei documenti esistenti (i disegni originali di Threvithick sono però andati persi), che in particolari occasioni viene messa in funzione.
    Si veda il video di uno di tali eventi al seguente link: https://museum.wales/articles/2008-12-15/Richard-Trevithicks-steam-locomotive/

  6. Una soluzione similare era stata brevettata nel 1829 dall’ingegnere francese Marc Seguin (1786-1875); si tratta di un significativo segnale che anche la Francia era entrata a pieno titolo nello sviluppo della tecnologia ferroviaria.

  7. Il lettore che fosse interessato a maggiori particolari sulla vita di Stephenson e sulla nascita delle ferrovie potrà riandare all’articolo di G. Lapini, pubblicato sul n. 55 – Dicembre 2014 di Emmeciquadro: Duecento anni di ferrovia: le origini.
    Interessanti anche due video che mostrano un’animazione e una replica della locomotiva Rocket in azione, reperibili ai seguente link:
    www.youtube.com/watch?v=yNn0LC_9imY
    www.bbc.co.uk/history/interactive/animations/rocket/index_embed.shtml

 

 

© Pubblicato sul n° 68 di Emmeciquadro

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