Il 14 marzo 2018 è morto a Cambridge all’età di 76 anni Stephen Hawking, uno dei più grandi e più controversi scienziati del nostro tempo, che ha sempre cercato di mettere in relazione le sue ricerche con questioni tradizionalmente riservate alla filosofia e alla teologia, a volte cercando un difficile dialogo, altre volte cercando invece di soppiantarle.
Paolo Musso, filosofo della scienza, ne ripercorre la vicenda umana e scientifica, senza risparmiare le critiche, ma cercando di mostrare come anche nei suoi atteggiamenti più discutibili Hawking non abbia mai chiuso del tutto la porta alle grandi domande della vita.
Leggendo e ascoltando le molte cose scritte e dette in occasione della recente morte di Stephen Hawking mi è stato difficile evitare di provare un certo disagio.
In effetti, pur con alcune lodevoli eccezioni (molto belli per esempio gli articoli di Marco Bersanelli su Il Sussidiario.net e di Piero Benvenuti su Avvenire, sembra che di colpo tutti siano diventati suoi incondizionati ammiratori, anche quelli che fino al giorno prima lo criticavano per le sue molto discutibili e molto discusse prese di posizione su questioni filosofiche e teologiche.
Intendiamoci, è sempre stato un po’ così: de mortuis nihil nisi bonum lo dicevano già i greci e i romani e in fondo è anche un principio di civiltà, però la tendenza oggi sembra essersi di molto accentuata, andando di pari passo, tanto paradossalmente quanto significativamente, con quella opposta, per cui sembra sempre più difficile apprezzare chi non la pensa come noi mentre è in vita.
Ciò dipende, credo, dal fatto che la crescente sfiducia nell’esistenza di un significato positivo della realtà in quanto tale ci impedisce di percepire l’altro come un bene in sé, al di là dei suoi veri o presunti difetti, sicché questi ci disturbano esageratamente mentre la persona in questione è tra di noi, salvo poi, con un’altra esagerazione uguale e contraria, pentircene fino al punto di rifiutarci di riconoscerli e perfino di nominarli quando ci lascia e ci accorgiamo improvvisamente di tutto quello che abbiamo perso con la sua dipartita.
Forse non dovremmo essere troppo severi nel giudicare tale atteggiamento, giacché, come il coraggio di manzoniana memoria, anche la fiducia se uno non ce l’ha non se la può dare, come proprio la vicenda di Hawking dimostra. Ciò non significa però che sia giusto, anzi, sono convinto che per rendere omaggio a una persona non solo non è necessario evitare di muoverle delle critiche, ma che proprio queste ultime, purché non siano puramente aprioristiche e distruttive, possono aiutare a capire e apprezzare meglio i suoi lati positivi.
Questo è dunque quello che cercherò di fare anche con Hawking, cominciando dall’aspetto propriamente scientifico.
Un grande della scienza, ma non un grandissimo
Che Hawking sia stato un grande scienziato è evidentemente una cosa che nessuna persona sana di mente può sognarsi di mettere in dubbio. Tuttavia non è di questo che si tratta, perché la discussione verte in genere sul fatto che sia stato uno scienziato non «semplicemente» grande, ma straordinario, addirittura allo stesso livello di Einstein, con cui non a caso viene sempre paragonato.
Prima di entrare nel merito, tuttavia, è bene chiarire un punto preliminare. Infatti molti di quelli che non sono d’accordo con questa tesi adducono come prova il fatto che Hawking non abbia mai vinto il Premio Nobel.
Ora, è vero che la cosa una certa rilevanza ce l’ha, poiché, se è vero che ci sono stati diversi scienziati non di primissimo piano che hanno vinto il Nobel semplicemente perché si sono trovati per così dire al posto giusto e al momento giusto, è altrettanto vero che in generale non vale l’inverso, giacché da quando il premio è stato istituito non si ricorda nessun caso di uno scienziato veramente grande che non l’abbia mai vinto (tranne quando l’ha impedito la morte,1 dato che la prassi è che il Nobel non venga mai assegnato postumo).
Tuttavia al riguardo bisogna fare alcune precisazioni. In primo luogo, infatti, in un certo senso proprio Einstein costituisce un’eccezione (e clamorosa) alla regola, poiché è vero che il Nobel l’ha vinto, ma non per la Relatività, bensì per la spiegazione dell’effetto fotoelettrico, che, per quanto straordinaria anch’essa, non può certo starle alla pari: insomma, se non lo scienziato, perlomeno la teoria scientifica più famosa della storia il Nobel non l’ha mai vinto.
Bisogna inoltre tener presente che le teorie più importanti di Hawking finora non sono mai state né verificate né confutate, semplicemente perché non siamo ancora in grado di farlo dal punto di vista tecnologico, sicché il giudizio è ancora in sospeso. In particolare, la sua teoria più nota, quella della radiazione a cui è stato dato il suo nome, che si produrrebbe al limite dell’orizzonte degli eventi dei buchi neri causandone alla lunga l’evaporazione, è quasi certamente vera, dato che è già stata verificata2 per il caso di uno speciale campo elettromagnetico prodotto in laboratorio che le particelle possono attraversare in una sola direzione e che quindi è del tutto equivalente, almeno dal punto di vista che qui ci interessa, all’orizzonte degli eventi di un buco nero, per cui non si vede per quale ragione non dovrebbe accadere lo stesso anche in quest’ultimo caso.
Purtroppo però la prova diretta di ciò è ancora molto lontana dalle nostre attuali possibilità di verifica sperimentale (e potrebbe addirittura restarlo per sempre): e siccome il Nobel non viene mai assegnato postumo, Hawking ormai non potrà più averlo in ogni caso, neanche se la sua teoria fosse giusta.
Ciò detto in suo favore, bisogna però dire altrettanto chiaramente che il paragone con Einstein e con altri giganti della fisica come Galileo e Newton (con cui Hawking stesso amava civettare, sfruttando astutamente alcune curiose ma insignificanti coincidenze tra le rispettive date di nascita e di morte) non sta davvero né in cielo né in terra.
Anzitutto, infatti, non va dimenticato che, se è possibile e perfino probabile che la teoria della radiazione di Hawking sia vera, questo non è ancora sicuro e alla fine potrebbe anche risultare il contrario, mentre ancor più incerta è la valutazione delle sue altre idee più celebri, a cominciare da quella della cosiddetta «assenza di confine» che eliminerebbe il concetto stesso di «momento iniziale» dell’Universo facendo leva sul concetto di tempo immaginario, che però sembra molto più un artificio matematico privo di reale significato fisico che non quella teoria rivoluzionaria che lui ha sempre preteso che fosse.3
Inoltre, le teorie di Galileo, Newton e Einstein (che, per inciso, di Nobel avrebbe dovuto vincerne almeno tre4), hanno completamente cambiato la nostra visione del mondo (e anche il mondo stesso, attraverso le loro conseguenze tecnologiche), mentre quelle di Hawking, quand’anche dovessero rivelarsi tutte esatte, cambierebbero soltanto il nostro modo di concepire alcuni aspetti, per quanto importanti, delle teorie attualmente accettate, tutte derivate, direttamente o indirettamente, proprio da quelle dei grandi di cui sopra.
Per quanto sgradevole e politically incorrect ciò possa apparire, bisogna quindi riconoscere lealmente che l’immensa fama raggiunta da Hawking era assolutamente sproporzionata alla realtà dei fatti e verosimilmente era dovuta soprattutto alla sua malattia: se fosse stato sano, avrebbe avuto certamente una vita più felice, ma altrettanto certamente sarebbe rimasto uno dei tanti, del tutto sconosciuto al grande pubblico.
Con ciò non si vuole ovviamente negare lo straordinario valore dell’esempio da lui dato continuando a lavorare ad altissimi livelli nonostante i problemi sempre più gravi causati dalla progressiva paralisi, ma dovrebbe essere altrettanto ovvio (benché, a quanto pare, non lo sia) che ciò non implica che lo stesso giudizio di valore debba essere automaticamente trasferito anche ai suoi contributi scientifici.
Un divulgatore di successo, ma non di talento
Quanto detto sopra vale anche, e perfino a maggior ragione, per i suoi libri di divulgazione, che (bisogna pur che qualcuno abbia il coraggio di dirlo) sono tra i peggiori che siano mai stati scritti, non solo perché sono praticamente illeggibili da chi non abbia già di suo una cultura scientifica molto solida (il che rappresenta la negazione del concetto stesso di divulgazione), ma anche perché sono sempre estremamente faziosi, al limite e spesso addirittura oltre il limite della vera e propria disonestà intellettuale.
Hawking infatti presenta sempre le sue teorie preferite (cioè essenzialmente le sue e quelle dei suoi amici) come se fossero già state verificate con assoluta certezza, quando invece spesso, come si diceva prima, non si è nemmeno cominciato a farlo, mentre parla di quelle a lui sgradite (cioè tutte le altre) come se fossero così ovviamente false che non vale nemmeno la pena di sforzarsi a confutarle, o addirittura non ne parla proprio, anche quando hanno molte più evidenze a favore che le sue.
Mi sembra quindi difficile negare che la vera ragione per cui i suoi libri hanno avuto un successo planetario sta proprio nello strano carisma conferitogli dalla sua malattia e in particolare dalla sua voce artificiale, che a molti dava l’impressione di avere a che fare con una specie di oracolo alieno, che ha visto cose che noi umani non possiamo neanche immaginare, quasi che la limitazione della sua attività corporea avesse incrementato quella mentale, un po’ come i ciechi che col tempo diventano capaci di percepire i suoni in modo più nitido, mentre è vero esattamente il contrario.
[A destra: A 65 anni Hawking sperimenta l’assenza di gravità]
Infatti, anche se molti hanno della scienza un’immagine mitica, come se fosse il frutto delle riflessioni di geni solitari, piovuti sulla Terra da chissà dove, che non comunicano con i comuni mortali che non sarebbero nemmeno in grado di capirli, la verità è invece che la discussione con i propri colleghi è fondamentale per l’attività di qualsiasi scienziato, anche quando lavora ai problemi più teorici e astratti che si possano immaginare, tant’è vero che chiunque abbia un minimo di familiarità con il mondo della ricerca sa perfettamente che molte delle idee migliori nascono dalle discussioni a tavola o mentre si passeggia.
È per questo che quando i medioevali hanno inventato le Università le hanno concepite non come dei semplici luoghi di lavoro, ma come delle comunità, al tempo stesso di vita e di studio. Ed è sempre per questo che le Università che funzionano meglio al giorno d’oggi sono quelle anglosassoni, che, diversamente dalle nostre, hanno mantenuto questo modello nel sistema dei college.
Quindi, ben lungi dal favorire la sua attività scientifica, la malattia di Hawking l’ha semmai limitata: e se c’è un motivo per cui è davvero giusto e doveroso ammirarlo incondizionatamente è per essere ugualmente riuscito a dare i contributi che ha dato nonostante essa, lottando continuamente con tenacia e coraggio contro il suo progredire, anche grazie agli aiuti delle persone che lo amavano e della tecnologia.
Al tempo stesso, è altrettanto giusto e doveroso dire che anch’egli ha contribuito, almeno in parte, a creare tale immagine mitica e fuorviante di se stesso e della scienza, sfruttando abilmente la sua condizione a tale scopo, cosa che gli si può anche perdonare (dopo tutto, voglio vedere chi, al posto suo, non cercherebbe di togliersi qualche soddisfazione, senza stare a sottilizzare troppo sul modo), a patto però che almeno si riconosca onestamente come stanno davvero le cose.
Dal Tutto al Nulla, ma sempre domandando
A parte l’immagine mitica di cui sopra, non c’è dubbio che l’altro motivo per cui Hawking è stato un personaggio così celebre e controverso è rappresentato dalle sue idee a proposito di Dio e dal modo, sempre originale e spesso provocatorio, in cui le ha messe in rapporto con le sue teorie scientifiche.
Peraltro va detto che Hawking ha spesso cambiato idea, sia a proposito delle prime che delle seconde, in parte probabilmente perché anche questo era un modo di «fare notizia» e di mantenere l’attenzione su di sé, ma principalmente per un autentico e sincero travaglio interiore, che l’ha accompagnato per tutta la sua vita e che non è possibile ripercorrere per filo e per segno in queste righe: cercherò però di dire almeno l’essenziale.
E un aiuto importante per capire in cosa questo «essenziale» consista è, a mio parere, La Teoria del Tutto, il film dedicato alla sua vita uscito nel 2014 e recentemente riproposto da molti canali televisivi in occasione della sua morte, per la cui straordinaria interpretazione il protagonista, l’attore britannico Eddie Redmayne, ha giustamente ricevuto l’Oscar.
Ora, nel film c’è un aspetto abbastanza paradossale: infatti dei tre temi principali trattati, ovvero la malattia, gli amici e la scienza, quella che si vede meno è proprio quest’ultima, il che a prima vista appare quantomeno curioso e ha suscitato anche diverse critiche.
Tuttavia non dobbiamo dimenticare che Hawking ha sempre detto di essersi riconosciuto molto nell’immagine di sé che si ricava dal film, cosa che non avrebbe certo fatto se l’avesse giudicato inadeguato proprio su un punto così importante: quindi, invece di pretendere di giudicare il film in base a quello che crediamo di aver capito di Hawking, forse faremmo meglio a fare il contrario, lasciando che sia Hawking stesso, attraverso il suo alter ego cinematografico, a dirci qualcosa di lui che forse non avevamo capito.
Personalmente credo che la giusta chiave di lettura ci venga fornita da una delle prime scene, in cui il giovane Stephen nel 1963, agli inizi della sua brillante carriera e ancora ignaro della malattia, incontra a una festa una studentessa di letteratura, Jane Wilde, che diventerà poi sua moglie e lo assisterà con grande forza d’animo nei momenti più tragici della sua vicenda personale.
Vediamo infatti che Hawking inizia subito a parlarle della sua idea di arrivare un giorno a scoprire la cosiddetta Teoria del Tutto (che non per nulla dà il titolo al film), cioè una teoria unificata di tutte le forze fondamentali della natura, da cui non si pretenderebbe certo, come lui per primo ha sempre chiaramente spiegato, che possa permetterci di prevedere qualsiasi cosa accada nell’Universo, però sì almeno gli aspetti fondamentali della sua struttura e della sua evoluzione.
Ora, se fin dal primo incontro con l’amore della sua vita Hawking ha sentito il bisogno di parlarle di questo, significa evidentemente che non si trattava di un semplice progetto di ricerca o, peggio ancora, di un manifesto ideologico, ma era davvero il suo sogno nel cassetto, il «motore immobile» di tutta la sua vita, il «filo rosso» sotterraneo che collegava e dava senso a tutto il resto.
Probabilmente è per questo che Hawking non ha trovato fuori luogo che nel film si accennasse appena ad altre sue idee, anche molto celebri (peraltro assai difficili da rendere visivamente): l’essenziale era stato comunque già detto. E, viste in questa luce, anche le battute anticlericali con cui accompagna il suo racconto (e che peraltro la combattiva Jane, niente affatto intimidita, rimbecca prontamente) acquistano un sapore diverso, apparendo più come delle provocazioni amichevoli che come una vera e propria posizione ideologica: e forse dovremmo sforzarci di vedere di più in questa luce anche molte delle analoghe battute fatte dallo Stephen reale.
Questa impressione ritorna, con un impatto emotivo ancor maggiore, quando, venticinque anni dopo, un Hawking ormai completamente paralizzato e incapace di parlare a causa della tracheotomia annuncia alla Jane ormai diventata sua moglie, attraverso le parole scritte sullo schermo del computer (il sintetizzatore vocale era ancora di là da venire), di voler scrivere «un libro sul tempo», quello che sarà poi A brief history of time,5 il suo primo grande best-seller, nonché l’unico libro da lui scritto che valga davvero la pena di essere letto, anche se l’impresa è purtroppo superiore alla forze della stragrande maggioranza dei non addetti ai lavori, compresi gli oltre nove milioni che in tutto il mondo l’hanno comprato.
E ritorna ancora nella scena finale, in cui, invitato a Buckingham Palace dalla Regina Elisabetta, Hawking ancora una volta vuole avere al suo fianco Jane, nonostante nel frattempo avesse divorziato da lei per sposare Elaine Mason (l’infermiera che si era presa cura di lui dopo l’operazione alla trachea, insegnandogli a comunicare prima con delle lettere scritte su una tabella e poi con il sintetizzatore realizzato da quello che allora era suo marito) e ancora una volta le parla del suo grande sogno che continua nonostante tutto ad inseguire: Jane e la Teoria del Tutto, i suoi due unici, veri, grandi amori, che continuamente si intrecciano, si sostengono a vicenda e a volte anche confliggono, ma non riescono mai a separarsi, tanto nel film come nella sua vita reale.
E in effetti, quando la propose per la prima volta al mondo, per l’appunto in A brief history of time, Hawking lo fece in maniera tesa e appassionata, con l’idea, esplicitamente dichiarata e in cui credeva realmente, che una tale teoria avrebbe potuto costituire una base oggettiva e comune a tutti gli esseri umani per cercare di rispondere a quella che egli giudicava la domanda più importante di tutte, che era stata posta originariamente da Einstein, ovvero: «Quante possibilità di scelta ha avuto Dio nel creare l’Universo?».
Inoltre, egli si dimostrava consapevole del fatto che «il metodo usuale della scienza di costruire un modello matematico non può rispondere alle domande sul perché deve esistere un Universo che sia descritto da quel modello» e che perfino se alla fine risultasse che «c’è una sola Teoria del Tutto possibile, si tratterebbe solo di un insieme di regole e di equazioni. Che cos’è che soffia il fuoco nelle equazioni e crea un Universo che può essere descritto da esse?».
Certo, nel libro c’è anche una critica ai filosofi, che sono rimasti indietro rispetto ai progressi della scienza, ma se la si legge bene, si vede che la vera critica (peraltro assolutamente meritata) è solo per quei filosofi che hanno rinunciato volontariamente a porsi le grandi domande tradizionalmente tipiche della loro disciplina, mentre per il resto si tratta più che altro della presa d’atto di una difficoltà oggettiva, dovuta al fatto che «nel XIX e XX secolo la scienza è diventata troppo tecnica e matematica per loro, e per chiunque, eccetto che per pochi specialisti», mentre per altro verso c’è pure il riconoscimento che gli scienziati invece, per parte loro, «sono stati troppo occupati a sviluppare nuove teorie che descrivono come è fatto l’Universo per chiedersi perché esiste».
Tuttavia proprio questo problema era quello che Hawking sperava potesse essere superato grazie alla scoperta della Teoria del Tutto, che «col tempo dovrebbe diventare, almeno nelle sue linee di fondo, comprensibile a tutti e non solo a pochi scienziati».
Se viste nel contesto appena descritto, anche alcune espressioni poco felici, che innegabilmente nel libro sono presenti e potrebbero far pensare a una posizione tendente allo scientismo, sembrano dover essere più correttamente ridimensionate a semplici svarioni lessicali, dovuti verosimilmente alla non completa padronanza dei concetti filosofici e teologici implicati, nonché a un perdonabile eccesso di entusiasmo, mentre la sua vera speranza era che alla fine «tutti, filosofi, scienziati e gente comune, saremo in grado di prendere parte alla discussione sul perché esiste l’Universo e perché esistiamo noi stessi».
Hawking ha mantenuto questa posizione per diverso tempo, tanto che in una celebre intervista radiofonica a Sue Lawley della BBC, trasmessa il giorno di Natale del 1992, si è spinto a dire: «Rimane però ancora la domanda: perché l’Universo si dà la pena di esistere? Se crede, può dire che Dio sia la risposta a questa domanda».
È però innegabile che negli ultimi anni il suo atteggiamento è molto cambiato, finendo per giustificare a posteriori le accuse di scientismo e di ateismo che gli erano state mosse, probabilmente a torto, in precedenza. Il punto di svolta può essere individuato nel 2010, quando esce The Grand Design, che Hawking firma insieme al fisico statunitense di origine polacca Leonard Mlodinow, anche se è evidente che in realtà è quasi interamente farina del suo sacco.6
All’inizio del libro Hawking riprende infatti le stesse questioni che aveva sollevato alla fine di A brief history of time, ma trasformandole da domande in giudizi, molto netti e soprattutto molto duri.
In particolare, la critica ai filosofi, che prima, come abbiamo visto, era circoscritta ad alcuni di essi e per il resto era piuttosto la presa d’atto di una difficoltà oggettiva, qui diventa una condanna generalizzata e senza appello, arrivando addirittura a proclamare che «la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza, e in particolare della Fisica. Così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola nella nostra ricerca della conoscenza».
E, giusto per non lasciare dubbi di sorta al riguardo, all’affermazione teorica segue una vignetta in cui si vede uno scienziato che mostra a una perplessa coppia di mezza età una formula matematica su una lavagna affermando: «E questa è la mia filosofia».7
Intesa così, però, la Teoria del Tutto rischiava di trasformarsi in una Teoria del Nulla, dato l’orizzonte sostanzialmente nichilista e materialista in cui l’ultimo Hawking l’aveva collocata. E poiché, come tutti sappiamo per esperienza, nel nulla non si può vivere, non appena gli facciamo spazio nella nostra mente e nel nostro cuore esso tende immediatamente a riempirsi di brutte copie di quel Dio di cui abbiamo ingenuamente creduto di poterci liberare: per usare una parola antica ma quanto mai attuale, di idoli.
Quelli di Hawking, com’era facile prevedere, sono stati i buchi neri, da cui era sempre stato affascinato, ma che negli ultimi tempi sono diventati per lui una vera e propria ossessione, finendo per attribuir loro poteri quasi soprannaturali e creando di fatto intorno a essi una sorta di strampalata pseudo-teologia materialista, la cui espressione più compiuta e al tempo stesso più preoccupante, visto il successo di pubblico che ha avuto in tutto il mondo, è senz’altro rappresentata da Interstellar.
Non solo scritto, ma addirittura coprodotto dal suo amico e sodale di sempre, Kip Thorne, il film è uscito nel 2014 ed è stato subito incomprensibilmente celebrato da tutti come un capolavoro assoluto e, soprattutto, come il film che «finalmente fa una fantascienza scientifica», solo per il fatto che la rappresentazione del buco nero rotante che vi compare (peraltro assolutamente indistinguibile, almeno per lo spettatore medio, da quella di un qualsiasi B-movie senza pretese di scientificità) è stata costruita in base alle vere formule fisiche.
Peccato solo che questo sia l’unico elemento corretto di tutto il film, che per il resto è una sequela ininterrotta di spropositi, non solo dal punto di vista della trama, che sembra avere come suo unico principio ispiratore quello di far sempre agire i personaggi nel modo più illogico possibile, ma anche e soprattutto dal punto di vista della scienza.
Tanto per capirci, è un po’ come se uno definisse scientifici gli oroscopi moderni solo perché in essi si considerano anche i pianeti visibili solo al telescopio. Che un tale indecente pastrocchio abbia avuto il sostegno compatto non solo della critica, ma anche di moltissimi scienziati seri8 e normalmente assai lontani da simili deliri ideologici è tanto incomprensibile quanto preoccupante e dimostra nella maniera più chiara quanto non Hawking, ma il mito di Hawking sia stato dannoso per la causa della vera scienza.
Infatti, anche se non è stato direttamente coinvolto nella sua realizzazione, nessuno può dubitare seriamente che il clamoroso successo di Interstellar si debba proprio a lui, dato che Thorne è certamente anche lui un grandissimo scienziato,9 ma del tutto sconosciuto al grande pubblico: e infatti ogni volta che se ne parlava la prima cosa (che spesso rimaneva anche l’unica) che di lui si menzionava non era un qualsiasi titolo scientifico o accademico, ma che era «l’amico di Stephen Hawking».
Ora, da cosa è dipeso tutto ciò? Se da un lato sarebbe certamente riduttivo voler spiegare l’involuzione di Hawking solo ed esclusivamente con il progredire della sua malattia, credo che sarebbe altrettanto sbagliato non riconoscere che almeno in gran parte proprio questa ne è stata la causa. Una delle scene più commoventi del film è quando Hawking, ormai adulto e famoso in tutto il mondo, ma in grado di parlare solo attraverso il sintetizzatore vocale, sta rispondendo alle domande del pubblico alla fine di una conferenza: a un certo punto vede che a una ragazza seduta in prima fila è caduta la penna e per un momento si dimentica di tutto e immagina di poter tornare normale, alzarsi dalla sedia, raccogliere la penna e restituirgliela, ma naturalmente il sogno a occhi aperti termina presto e Hawking, con un sorriso metà ironico e metà malinconico, risponde pazientemente alla domanda, concludendo che «finché c’è vita, c’è speranza».
Ebbene, forse proprio questa speranza è ciò che Hawking un po’ alla volta ha perduto, quando ha cominciato a rendersi conto che la possibilità di indagare i misteri dell’Universo non valeva quella di poter compiere il più piccolo gesto di gentilezza e di umanità.
Per risarcirlo di questo ci sarebbe voluto ben altro: la scoperta o almeno l’intuizione che al fondo di quel mistero senza volto che studiava da tanto tempo e con tanta passione c’era un amore più grande che lo aspettava e che per riconoscerlo non c’era affatto bisogno di una teoria perfetta, ma bastavano solo la sua ragione e il suo cuore.
Questo passo, però, lui non ha mai potuto o voluto farlo, pur avendone avuto certamente più volte l’occasione, considerando le tante persone che gli hanno voluto bene e che gli sono state vicino, molte delle quali, a cominciare dalla moglie, erano anche sinceramente religiose. Ma qui, lo sappiamo, entra in gioco il mistero della libertà e, pur senza permetterci di giudicare (perché, appunto, di mistero si tratta), non possiamo far altro che prendere atto che tutto questo a Hawking evidentemente non è bastato e che alla fine ha prevalso in lui il desiderio di dire un «Basta!» definitivo che proclamasse la leopardiana «infinita vanità» di quel Tutto con cui aveva lottato corpo a corpo per tutta la vita, come Giacobbe con l’angelo, tentando invano di comprenderne il senso.
Tuttavia non voglio chiudere con una nota così negativa e apparentemente disperata, non solo perché mi dispiacerebbe, ma anche perché ritengo che sarebbe oggettivamente sbagliato. Spezzerò quindi una lancia anche a favore dell’ultimo Hawking, o, per meglio dire, farò notare come sia stato lui, nonostante le apparenze contrarie, a spezzarne una (e bella grossa) a favore nostro.
Infatti, anche se la sua dura presa di posizione contro la filosofia che si trova all’inizio del Grand Design è sbagliata in linea di principio, lo è invece molto meno se consideriamo le cose in linea di fatto.
La filosofia come tale, è vero, non è morta, perché non può morire, dato che le sue domande sono eterne, facendo parte della natura stessa dell’uomo e non potendo trovare risposta nella scienza, contrariamente a ciò che Hawking qui afferma. Ma è altrettanto vero che, dai tempi della pubblicazione del suo primo libro fino a oggi, la «grande ritirata» dei filosofi dalle domande di cui sopra, che già allora egli aveva denunciato, non solo non si è arrestata, ma si è accentuata sempre più, così come si è accentuata sempre più la loro tendenza a rifugiarsi in un meschino tecnicismo fine a se stesso e privo di qualsiasi interesse per chiunque abbia ancora un po’ di intelligenza e di cuore.
Ed è altrettanto vero che di fatto oggi come oggi gli unici che tentano ancora di affrontare certe questioni sono proprio gli scienziati.
Lo fanno in modo rozzo e inadeguato, come l’ultimo Hawking? Forse. Ma finché i filosofi (compresi quelli cattolici, o almeno la loro grande maggioranza) non si decideranno a prendere sul serio la sua sfida, rendendosi conto di quanto sia grave il ritardo culturale che devono ricuperare rispetto alla scienza per tornare ad essere punti di riferimento credibili per gli uomini del nostro tempo, allora ben vengano gli Hawking e perfino i Mlodinow! Perché delle domande che costituiscono il nostro cuore è pur sempre meglio parlarne male che non parlarne affatto.
Vorrei chiudere con una notizia recentissima, che può sembrare di poco conto di fronte a queste grandi questioni, ma che invece mi sembra molto significativa.
Pochi giorni fa si è saputo che la famiglia Hawking ha donato alla Wesley Methodist Church di Cambridge il denaro per offrire un pranzo a cinquanta senzatetto, dicendo che era «a gift from Stephen», un regalo di Stephen.
Di per sé potrebbe apparire solo come un gesto di generosità, che, per quanto commovente, non ha molto a che fare con i problemi di cui abbiamo fin qui parlato, ma il fatto che si trattasse proprio del pranzo di Pasqua difficilmente può essere considerato casuale e ci induce a pensare che forse, come già quell’altra di duemila anni fa in Palestina, anche la pietra tombale che Hawking aveva cercato di mettere sopra le proprie domande e sopra il proprio cuore non era poi così solida e soprattutto così definitiva come sembrava.
Siamo quindi autorizzati a sperare che quando finalmente si è trovato di fronte a quel Tutto che aveva sempre cercato, senza più bisogno della mediazione di alcuna teoria, Stephen l’abbia preferito al Nulla che in questi ultimi anni era parso voler abbracciare.
Almeno per quanto mi riguarda, questa più che una speranza è una certezza: ed è una certezza che mi rende felice. Perché, sia chiaro, anche se spesso mi ha fatto arrabbiare, io a Stephen Hawking gli ho voluto bene.
Vai al PDF di questo articolo |
Vai alla Home-Page della Rivista | Chi Siamo | Vai al Sommario del n° 68 – Marzo 2018 |
Vai alla Sezione SCIENZAinDIRETTA | Vai agli SPECIALI della Rivista |
Paolo Musso
(Docente di Filosofia della Scienza presso l’Università dell’Insubria di Varese – Corso di laurea in Scienze della Comunicazione)
Note
È il caso, per esempio, di Pierre Curie, che nel 11911 non poté condividere con la moglie il Nobel per la Chimica, essendo morto cinque anni prima. In tempi a noi vicini, il fisico belga Robert Brout, morì 14 mesi prima che il CERN annunciasse la scoperta del bosone di Higgs, che aveva contribuito a teorizzare, e non poté così ricevere il Nobel insieme a Peter Higgs e François Englert.
La prassi si deve al fatto che nelle intenzioni di Alfred Nobel il premio doveva servire a finanziare le ricerche di giovani menti brillanti. Da molto tempo non è più così e il Nobel è ormai di fatto una sorta di premio alla carriera, ma questa regola non scritta è rimasta.Nel 2010, proprio nella mia Università dell’Insubria, da un gruppo di ricercatori guidato dal fisico italo-britannico Daniele Faccio. La radiazione di Hawking è prodotta dal fenomeno delle cosiddette particelle virtuali, che si generano spontaneamente a partire dalle fluttuazioni quantistiche dall’energia del vuoto (detta anche campo di punto zero).
In genere queste particelle, che si generano in coppie di materia e antimateria, si annichilano a vicenda prima di avere il tempo di raggiungere la massa che dovrebbero avere se fossero reali. Ma se ciò accade vicino a un orizzonte degli eventi, può succedere che una delle due lo superi prima che ciò accada, sicché l’altra, non potendo più annichilarsi con la sua gemella, è per così dire «costretta» a diventare reale, il che nel caso del campo elettromagnetico avviene convertendo in massa un po’ della sua energia, mentre nel caso del buco nero dovrebbe avvenire a scapito della sua energia gravitazionale.
Cfr. Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, Mimesis, Milano-Udine 2011, § 5.9.Cfr. Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, Mimesis, Milano-Udine 2011, § 6.4.
Oltre a quello incredibilmente mai datogli per la relatività, infatti, avrebbe dovuto riceverne almeno un altro per la sua spiegazione del moto browniano, che, oltre al suo valore intrinseco, ha permesso a Perrin, pochi anni dopo, di dimostrare per la prima volta l’esistenza reale degli atomi.
Senza contare poi «bazzecole» come la scoperta dell’equivalenza di massa e energia (E=mc2) e di fenomeni come le lenti gravitazionali, i wormhole (tunnel spazio-temporali) e le onde gravitazionali, che sono tutte conseguenze della Relatività, ma sono a tutti gli effetti scoperte autonome e se fossero state effettuate da chiunque altro sarebbero state ritenute tali anche dalla comunità scientifica. E non dimentichiamo l’effetto EPR, che ha portato alla scoperta del fondamentale fenomeno dell’entanglement quantistico.
Insomma, i tre Nobel per il buon vecchio zio Albert sono ancora una stima per difetto.Stephen Hawking, A brief history of time, Bantam Books, New York 1988, trad. it. Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, Rizzoli, Milano 1988, cap. 12, passim.
Cfr. Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, Mimesis, Milano-Udine 2011, § 5.12, 5.13.In effetti Mlodinow era stato cooptato da Hawking come co-autore di A briefer history of time (Bantam Books, New York, 2005), praticamente una ristampa riveduta, corretta e aggiornata, proprio grazie alle sue competenze su alcuni punti specifici relativi alla meccanica quantistica, del libro del 1988.
Evidentemente i due si sono trovati bene e hanno deciso di continuare la collaborazione, anche se, mentre è evidente l’interesse che può avervi avuto Mlodinow, che prima era un illustre sconosciuto, non è invece chiaro quale vantaggio ne abbia avuto Hawking (a parte quello della compagnia, beninteso: e forse proprio di questo si è trattato)Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, The Grand Design, Bantam Books, New York 2010, trad. it. Il grande disegno, Mondadori, Milano 2011, p. 5.
Per una critica puntuale alle tesi di questo libro si veda Paolo Musso, Teorías del todo e inagotabilidad de lo real, in “PHAINOMENON”, vol. 14, n. 1 (2015), pp. 11-29.Per esempio, in Italia, da Giovanni Bignami, che oltretutto, incomprensibilmente, lo riteneva pure molto migliore di Gravity, che, a parte la demenziale scena in cui George Clooney viene sparato via dalla Stazione Spaziale in aperto spregio al principio di inerzia, per il resto quanto a scientificità sta a Interstellar come Einstein sta a Vanna Marchi, Per chi fosse interessato, le mie recensioni ai due film si trovano ai seguenti link:
Che tra l’altro, a differenza di lui, il Nobel l’ha anche vinto, giusto l’anno scorso, anche se – poetic justice! – non per una scoperta teorica, bensì sperimentale: quella delle onde gravitazionali.
© Pubblicato sul n° 68 di Emmeciquadro