In diverse zone d’Italia si sono manifestati recentemente, con esiti anche distruttivi, eventi meteorologici di entità notevole, cui non eravamo abituati.
Abbiamo imparato che ci sono diversi tipi di fenomeni violenti, che la loro complessità non permette di prevedere con precisione quando e dove possono scatenarsi e ci sono nate molte domande.
Le abbiamo poste a un amico esperto, giovane ma già PhD e ricercatore presso il Dipartimento di Meteorologia dell’Università di Reading (UK).
Quali modelli si prendono a riferimento per studiare i fenomeni meteorologici? Quali sono vantaggi e limiti di questi modelli, che cosa non riescono a spiegare? Quali caratteristiche definiscono fenomeni a impatto globale, come i grandi tornado e fenomeni a impatto locale?
Le sue risposte, a partire dalle più recenti esperienze come ricercatore.



Durante il suo dottorato di ricerca si è occupato di sting jet all’interno di cicloni extratropicali. Può spiegare brevemente di cosa si tratta?

Uno sting jet è una corrente discendente che può essere presente all’interno di particolari cicloni extratropicali e può essere causa di venti molto intensi e pericolosi, con raffiche al suolo anche oltre i 150 km/h.
Per esempio, nell’immagine si vede il ciclone extratropicale Tini, contenente uno sting jet, mentre raggiunge le Isole Britanniche (copyright NASA Goddard Space Flight Center).
Con «ciclone extratropicale» si intende un sistema perturbato che evolve alle medie latitudini. È importante precisare questo per evitare confusioni con i cicloni tropicali, normalmente chiamati uragani in America e tifoni nel Sud-Est Asiatico.
Senza scendere nei dettagli, a diverse latitudini corrispondono dinamiche differenti, con i cicloni tropicali che si alimentano del calore latente generato dall’evaporazione sopra i caldi oceani equatoriali e hanno una struttura circolare abbastanza simmetrica con un occhio ben definito al centro.
I cicloni extratropicali, invece, vengono generati da instabilità nei forti venti che soffiano da W verso E in alta troposfera (jet stream) e presentano una forma più allungata.
Nonostante i cicloni extratropicali siano generalmente meno violenti dei loro «cugini» tropicali, possono comunque contenere venti molto intensi e pericolosi. Tra questi venti ci sono anche gli sting jet, uno dei principali argomenti di ricerca nel campo della meteorologia negli ultimi anni.
Il primo ciclone in cui uno sting jet è stato osservato è la Great Storm del 16 Ottobre 1987, che colpì il Sud dell’Inghilterra causando ingenti danni e, purtroppo, diciannove vittime.
Nell’immagine a lato un esempio dei danni causati dalla Great Storm del 16 Ottobre 1987 nel Sud Inghilterra (copyright ITV.com).
È interessante ricordare che nel giorno precedente all’arrivo della Great Storm il presentatore di turno alla BBC volle rassicurare il pubblico, raccontando che una signora aveva chiamato in studio per chiedere se ci fosse un uragano in arrivo e lui aveva risposto che non c’era nessun rischio di uragani.
Per quanto formalmente la Great Storm, essendo un ciclone extratropicale, non poteva essere considerata un uragano, venti di intensità paragonabili a quelli di un uragano causati da uno sting jet, fino a quel momento un fenomeno sconosciuto, spazzarono l’Inghilterra il giorno seguente.
Se si considera che cicloni simili colpiscono le Isole Britanniche con frequenza quasi annuale (fortunatamente non con la stessa violenza) si può capire perché negli ultimi 10-15 anni (ci vollero anni per capire che nella Great Storm c’era uno sting jet) la ricerca scientifica sugli sting jet sia diventata via via sempre più attiva.
Un punto chiave dello studio che stiamo conducendo a University of Reading, contenuto in un articolo appena pubblicato sul Quarterly Journal of the Royal Meteorological Society, è la comprensione e la spiegazione dei meccanismi che generano lo sting jet all’interno di una cloud head (la nuvola che si arriccia intorno al centro del ciclone) e lo portano ad accelerare e a scendere verso il suolo, uscendo dalla «coda» della suddetta cloud head.



Fenomeni estremi senza dubbio. Provando ad allargare lo sguardo al di fuori delle Isole Britanniche e a concentrarci sull’Italia, la frequenza dei fenomeni estremi nel Bel Paese sta aumentando? Nel caso, può esserci un legame con i cambiamenti climatici?

Quando si parla di fenomeni estremi è sempre difficile capire se stanno diventando più frequenti utilizzando i dati e le serie storiche a disposizione dato che si stanno considerando fenomeni che sono rari e con tempi di ritorno elevati per definizione.
Per quanto diversi studi utilissimi stiano comunque usando questo approccio la maggioranza della ricerca scientifica nel campo attualmente utilizza modelli climatici per produrre simulazioni che comprendano diverse centinaia di anni, simulando condizioni passate o future.
In questo modo si può anche cercare un legame con cambiamenti climatici a scala globale in quanto variando parametri come la concentrazione di anidride carbonica si può osservare l’effetto sulla simulazione a larga scala e sui singoli fenomeni estremi che si vuole considerare.
In un sistema così complesso e decisamente non lineare nel suo comportamento qual è l’atmosfera è comunque sempre importante non generalizzare ma cercare di legare causa ed effetto del fenomeno che si sta considerando.



Può spiegare meglio quest’ultima frase?

Comprendere il fenomeno, la sua evoluzione e le sue cause può aiutare a capire su quali fattori concentrarsi. Per esempio, mentre il nostro gruppo si occupa della dinamica degli sting jet, altri ricercatori stanno delineando la relazione tra la loro formazione e le caratteristiche dei cicloni in cui si sviluppano, dal loro contenuto di energia e umidità alla loro traiettoria attraverso l’Oceano Atlantico. In questo modo si può legare l’evoluzione del singolo evento estremo, difficile da inquadrare in un’analisi di tipo climatologico, e la situazione generale.
Per passare a eventi più italiani, possiamo pensare alle alluvioni autunnali che spesso purtroppo colpiscono Liguria e Alta Toscana.
In questi eventi l’interazione tra la perturbazione in arrivo, l’aria fresca già presente in Pianura Padana che tracima dai passi appenninici e l’aria caldo umida in arrivo dal Mar Mediterraneo gioca un ruolo fondamentale.
Se da un lato i dettagli della conformazione del territorio e dei rilievi sono decisivi nella localizzazione delle precipitazioni più intense e durature, dall’altro si può ipotizzare che un aumento della temperatura del mare in superficie nel bacino del Mediterraneo sia associato a una maggiore disponibilità di energia nell’evoluzione di questi intensi fenomeni precipitativi.
Un altro esempio, sempre connesso alla temperatura del Mar Mediterraneo, è legato al possibile aumento della frequenza dei medicanes (mediterranean hurricanes), cicloni simil-tropicali che si possono formare nel Mediterraneo e hanno bisogno, come gli uragani «originali» di essere sostenuti da acque calde nel loro sviluppo. In questo senso si può dire che i cambiamenti climatici a scala globale possono influenzare anche fenomeni estremi locali.

Con l’avanzare della ricerca, oltre a comprendere sempre meglio questi fenomeni possiamo anche prevederli meglio?

Certo, i modelli di previsione meteorologica stanno avanzando. Come detto prima, la capacità di previsione dipende dal tipo di episodio che si considera.
Al momento i principali centri meteo usano modelli numerici globali con passo di griglia intorno ai 10 km e possono scendere fino intorno a 1 km per modelli locali. Come regola generale possiamo considerare che un fenomeno deve essere esteso per almeno 3-4 punti di griglia per essere correttamente simulato da un modello.
Se per prevedere l’evoluzione generale di un ciclone un passo di griglia di circa 25 km è già sufficiente, per simulare correttamente l’instabilità responsabile dell’intensificazione di uno sting jet bisogna scendere almeno a 10 km.
Per tornare all’esempio delle alluvioni liguri, in questo caso bisogna assicurarsi che anche l’orografia sia correttamente rappresentata. Si capisce quindi come la localizzazione del fenomeno, da cui può dipendere la decisione di chiudere le scuole a Genova piuttosto che nelle Cinque Terre, sia particolarmente complicata.
Un esempio estremo per quanto riguarda la risoluzione del modello riguarda le trombe d’aria, tornado che avendo un’estensione intorno al km non sono al momento predicibili se non con speciali modelli per scopi di ricerca, non ancora operativi.
In ogni caso, fenomeni la cui dinamica dipende da forzanti a grande scala sono intrinsecamente più predicibili rispetto a fenomeni caotici e localizzati come possono essere allagamenti causati da brevi e intensi temporali «di calore» non legati a un fronte freddo organizzato.

Per concludere, qual è il contributo che la scienza può dare in questo campo?

La mia opinione è che le università e i centri di ricerca possono principalmente fornire un contributo di formazione, agevolando la conoscenza e la comprensione di fenomeni estremi, in modo da aiutare le agenzie preposte a capire cosa accade, quali sono i parametri più utili da consultare e interpretare, per poter prendere le migliori decisioni possibili.
Come ultimo esempio posso citare il progetto in cui sono coinvolto attualmente, che verte principalmente su una migliore comprensione dei meccanismi che regolano l’avanzamento del Monsone Indiano. Dato che le piogge associate al monsone rappresentano la principale fonte d’acqua per centinaia di milioni di persone e sono fondamentali per l’agricoltura nella regione, si capisce quanto un avanzamento della comprensione del fenomeno possa essere d’aiuto per la popolazione, sia in situazioni di emergenza che per pianificazioni a più lungo raggio.
Per concludere, è un aiuto a capire come funziona il sistema meteo per poterne apprezzare la bellezza e per prendersi cura del territorio, dell’ambiente e di chi ci abita.

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a cura di Maria Cristina Speciani
(Membro della Redazione Emmeciquadro)

Ambrogio Volonté
(Laureato in Fisica a Milano, con tesi svolte in collaborazione con il Centro Geofisico Prealpino di Varese e con ISAC-CNR di Bologna. Attualmente è ricercatore presso il Dipartimento di Meteorologia dell’Università di Reading (UK) e si occupa di sting jets in cicloni extratropicali e di dinamica del Monsone Indiano – progetto INCOMPASS)

© Pubblicato sul n° 68 di Emmeciquadro

 

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