La meteorologia applica modelli probabilistici che consentono di fare previsioni fino a quindici/venti giorni di distanza.
Per il clima si tratta di costruire modelli che tengano conto delle diverse forzanti che condizionano il sistema-atmosfera e che permettano di studiare le reazioni del sistema alle variazioni imposte.
I dati confermano che negli ultimi decenni è cresciuto il ruolo della componente antropogenica.
Quando si approccia l’argomento «meteo», c’è sempre una certa confusione nel distinguere ciò che è tempo meteorologico in senso stretto, e ciò che è invece «clima». La definizione sembra ed è piuttosto semplice, eppure sottende una cruciale differenza quando si guarda ai modelli che tentano di prevedere l’uno e l’altro.
Proviamo dunque a sbrogliare la matassa. Tempo è tutto ciò che è piccolo in scala spaziale e temporale. Pensiamo per esempio a un temporale estivo, che si genera, matura e si spegne nel giro di poche decine di minuti, e che generalmente non si estende per più di pochissimi chilometri. O a una depressione, portatrice di quelle tipiche piovose giornate invernali sulla nostra penisola. Se ci spingiamo più in là nel tempo e nello spazio, per parlare di clima, arriviamo ai decenni e ai secoli. In questo frangente, la scala spaziale cresce considerevolmente e si arriva ad analizzare il globo intero o larghe parti di esso. Il riscaldamento globale è forse l’esempio più calzante.
Ma partiamo dal tempo meteorologico e cerchiamo di capire il ruolo dei modelli nel prevederlo.
Nell’immagine di apertura si vede la Terra dal Polo Nord. La linea tratteggiata bianca individua quella che viene comunemente chiamata «corrente a getto» o, in inglese, jet stream. Questa corrente è da intendersi come un vero e proprio fiume d’aria che scorre da ovest verso est in continuazione.
Nel far ciò, il jet stream piega a nord e a sud formando delle vistose anse. Quelle che piegano a sud vengono associate alle comuni depressioni (o aree cicloniche) che portano piogge sparse e vento. In particolare, in figura è evidenziata un’area rossa: una depressione in procinto di raggiungere le coste dell’Europa occidentale. Come detto in precedenza, il suo moto sarà verso est; è quindi lecito attendersi un peggioramento del tempo su Francia e Inghilterra nelle ore successive.
Sebbene rudimentale, quella sopra descritta è una forma molto semplice di modello. È sufficiente osservare l’oggetto in questione (l’atmosfera), carpirne le regole (il moto verso est della corrente a getto) e attuarle nel tentativo di prevedere il futuro.
Il vero problema sta nel fatto che l’atmosfera è molto più complessa. Rimanendo all’esempio della depressione al largo delle coste francesi, potremmo identificare almeno tre gradi di incertezza. Non sappiamo:
- se la depressione, nel procedere da ovest a est, virerà verso nord o verso sud;
- se la sua velocità rimarrà costante nel tempo;
- se si attenuerà, o piuttosto rinforzerà con l’andare delle ore.
È del tutto evidente che per prevedere tutte queste variabili abbiamo bisogno di modelli molto piu evoluti. In particolare, di due ingredienti: il primo sono le leggi che regolamentano i moti dell’atmosfera, in fisica e matematica le chiameremmo equazioni; il secondo sono le cosiddette «condizioni iniziali».
È proprio su quest’ultimo aspetto che vale la pena soffermarsi un momento. Quando i modelli vengono «lanciati» (in termini tecnici si direbbe che le equazioni vengono integrate nel tempo), il loro punto di partenza sono appunto le condizioni «conosciute» in cui si trova l’atmosfera: temperatura, umidità, pressione e così via. Sebbene osservate, queste condizioni di partenza saranno sempre associate a degli errori marginali.
È come pensare di dare 30 termometri diversi a 30 persone nella stessa stanza e chiedere quale sia la temperatura. Tutti vi diranno numeri molto simili fra loro, ma non identici! Ecco, questo problema, che sembra quasi trascurabile, sta alla base del limite delle previsioni meteorologiche. Integrando le equazioni del modello, l’errore iniziale si propaga nel tempo e si ingrandisce a dismisura; al punto tale che dopo 10/15 giorni la previsione si rivelerà, il più delle volte, sbagliata.
Come si può, quindi, porre rimedio? Sfruttando per esempio il medesimo errore, e usarlo per produrre una previsione «probabilistica».
Nell’immagine precedente si mostra un punto iniziale da dove viene lanciato il modello. Invece che usare una singola previsione (linea rossa nell’immagine), ne vengono integrate diverse, che ovviamente divergono al passare del tempo. Per ciò che si è spiegato in precedenza, l’incertezza sulle condizioni iniziali diventerà ben più grande a previsione ultimata. Il risultato (in questo caso le precipitazioni previste in UK) indicherà quale zona del Regno Unito avrà più probabilità di veder piovere.
Come si vede nel pannello a destra, la maggior parte delle emissioni indica precipitazioni sparse sul nord Inghilterra, mentre quasi nessuna prevede un peggioramento del tempo in Scozia.
Questo approccio probabilistico è oramai impiegato dai principali centri meteorologici di tutto il mondo e dà la possibilità di spingersi a prevedere il tempo fino a quindici/venti giorni di distanza!
Dalle condizioni iniziali alle condizioni al contorno
Spostiamoci ora sull’aspetto climatico. La domanda che sorge spontanea è: ma come si fa a prevedere i prossimi decenni, se non addirittura secoli, se le previsioni si spingono fino al massimo a tre settimane?
Per spiegare l’apparente contraddizione si richiama il lettore all’inizio del nostro articolo, dove spiegavamo la differenza fra tempo e clima. In altre parole, nessuno ha la presunzione di sapere che temperatura ci sarà a Tokyo il primo gennaio del 2081! Piuttosto, interessa capire se in Giappone la temperatura invernale sarà generalmente più alta di quella che si osserva ai giorni nostri.
Proviamo a fare un paragone e immaginiamoci una pentola piena d’acqua messa sopra al fuoco. Soggetta alla fonte di calore, l’acqua comincerà a scaldarsi, fino a quando le prime bollicine d’aria si formeranno sul suo fondo per poi scattare verso l’alto. Ecco, prevedere il tempo è come “indovinare” la traiettoria che ognuna di queste piccole bolle seguirà nello spazio di pochi decimi di secondo.
Quando si approccia l’aspetto climatico, ci si muove su scale di tempo e di spazio molto più grandi. Così, nell’esempio della pentola d’acqua saremo interessati a sapere come cambia la sua temperatura, dopo molti minuti, al variare delle condizioni che imponiamo. In termini tecnici, questo non è più un problema di condizioni iniziali (cioè, la posizione esatta della bolla d’aria), ma piuttosto un problema di condizioni al contorno (cioè, le forzanti che imponiamo al sistema).
Sempre concentrandosi sulla pentola d’acqua, potremmo dire che la sua temperatura raggiunge un certo equilibrio nel momento in cui il calore che riceve dal fuoco è uguale a quello che disperde nell’ambiente circostante.
Domandiamoci ora, come possiamo far aumentare la temperatura e quali condizioni al contorno possiamo variare per scaldare l’acqua? Il primo metodo è semplicemente alzare il fuoco, quindi aumentare la fonte di calore. Il secondo invece agisce sull’efficienza del «sistema pentola», rendendolo più efficace nel trattenere il calore che riceve. In parole povere, basterà mettere un coperchio per intrappolare il calore del fuoco!
Ritornando quindi alla nostra atmosfera, l’aumento globale della temperatura potrà essere dettato o dall’aumento della radiazione solare (il fuoco nel nostro esempio) oppure dall’effetto serra, che equivale esattamente al mettere il coperchio sulla pentola d’acqua.
Il vantaggio di avere modelli che prevedano il clima sta esattamente nel poter variare queste condizioni al contorno e vedere come l’atmosfera terrestre reagisce. È del tutto evidente che l’uomo non ha il lusso di poter aspettare decenni per verificare se, per esempio, l’aumento di CO2 impatti significativamente sulla temperatura globale.
I modelli meteorologici hanno dunque l’indubbio vantaggio di «proiettare» nel futuro (in inglese, infatti, non si parla mai di previsioni climatiche, ma sempre di «proiezioni» un possibile scenario a seconda di come si è variata la forzante da studiare (sole, eruzioni vulcaniche, anidride carbonica, eccetera).
Questo strumento assume un’importanza ancora maggiore se si pensa che il tutto è calcolato in poche ore o giorni, senza contare che si possono fare diversi esperimenti considerando più variabili allo stesso tempo.
[A sinistra: La temperatura globale nell’ultimo secolo e le principali forzanti: vulcanica, solare, antropogenica]
Come si vede dal grafico, la temperatura prevista dal modello durante lo scorso secolo (linea rossa) non è poi così distante da quella realmente osservata (banda blu).
Ovviamente, se uno si volesse focalizzare su singoli anni, noterebbe differenze significative, per esempio, attorno agli anni Quaranta. Ma, come detto sopra, lo scopo delle previsioni climatiche è prevedere il generale aumento di temperatura verificatosi negli ultimi cento/centocinquanta anni, fino a poter correttamente rappresentare cicli multi-decadali (come per esempio il parziale raffreddamento dagli anni Quaranta agli anni Settanta del secolo scorso).
Nel grafico, le barre indicano le diverse componenti che hanno fatto variare la temperatura nel tempo. Fino agli anni Settanta la componente solare (barra gialla) era predominante e poteva così spiegare il riscaldamento globale. Negli ultimi decenni, invece, la componente antropogenica (cioè, l’immissione di CO2 in atmosfera dovuta all’attività umana) è stata di gran lunga la fonte primaria dell’aumento delle temperature globali.
È del tutto evidente come la branca della climatologia, supportata dalle altre Scienze della Terra (come per esempio la Paleoclimatologia e la Glaciologia) e dalla Fisica stessa, sia di cruciale importanza nel tentare di prevedere il clima futuro.
I modelli a disposizione sono i medesimi; è l’oggetto in questione (tempo vs clima) che determina il modo diverso di impiego e la probabilità di successo che ne deriva.
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Giacomo Masato
(Climatologo presso l’Agenzia Marex Spectron di Londra)
L’articolo riprende i contenuti di un intervento dell’autore all’incontro del 7 giugno 2018 “IL CLIMA STA CAMBIANDO. COME FACCIAMO A SAPERLO?” presso il Centro Culturale di Milano.
© Pubblicato sul n° 69 di Emmeciquadro