È appena uscito da Bompiani “L’ oggettività scientifica e i suoi contesti”, vera e propria summa dell’opera di Evandro Agazzi, uno dei più grandi filosofi contemporanei, significativamente pubblicata in occasione dei suoi ottant’anni di vita e dei suoi cinquant’anni di insegnamento.La scrittura del libro, iniziata addirittura nel 1977, ha infatti accompagnato praticamente tutta la sua carriera, sicché vi si trovano ricapitolati, anche nel loro sviluppo storico, tutti i principali temi da lui affrontati, compresi quelli riguardanti il rapporto della scienza con la metafisica e la religione.L’autore ce ne parla in questa intervista.Professor Agazzi, ci può raccontare come è nato questo libro, che è la traduzione italiana di “Scientific objectivity and its contexts” (Springer, Cham / Heidelberg / New York / Dordrecht / London, 2014)?



Questo libro ha una lunga gestazione, come spiego nella Prefazione, nel senso che è nato direi da un’esigenza pratica, che è la seguente: il mio volume “Temi e problemi di filosofia della fisica” conteneva già in più che sviluppato embrione un po’ tutta la mia impostazione di filosofia della scienza ed era concentrato però, in particolare, su problemi di filosofia della fisica.



Cosa succede? Che per ragioni varie questo libro praticamente è diventato rapidamente introvabile. È uscito con un certo editore Manfredi di Milano, che è fallito praticamente subito dopo. Allora le copie sono state passate all’editore Abete di Roma che ha semplicemente cambiato la copertina – da azzurrina l’ha trasformata in arancione – e ha fatto come se fosse una seconda edizione, ma in realtà non era neanche una ristampa. Ma anche Abete dopo un po’ ha cessato la produzione del volume. Quindi era diventato un libro introvabile, conosciuto da pochi, apprezzato da quelli che lo conoscevano, e io dico: «Santo cielo, è nato sotto una cattiva stella».



Allora queste mie idee cominciavano a circolare e a essere apprezzate, vedevo che però non erano sufficientemente note, e dico: «Va be’, faccio un’edizione inglese. Cioè, non farò la traduzione inglese di questo libro, ma ne farò una versione che lascia da parte le considerazioni più tecniche riguardanti la meccanica quantistica eccetera, e tira fuori soprattutto le idee filosofiche». E così, quando sono stato a Düsseldorf come professore invitato nel 1977-’78, ho cominciato a elaborare questa cosa qui.

Poi che cosa succede? Che io mi sono trovato rapidissimamente immerso in un vortice di impegni internazionali, presieduto società filosofiche di vario tipo, e non ho mai avuto il tempo sufficiente – quei due mesi, per così dire, di lavoro unicamente dedicato a questo – per terminarlo. Ma d’altra parte, siccome non avevo motivi di carriera, perché avevo già raggiunto la mia cattedra universitaria, ho detto: «Va be’, faccio le cose con calma».

E mano a mano che aggiungevo qualche cosa, magari, se era un aspetto che mi sembrava interessante, lo pubblicavo come articolo separato: alcuni di questi capitoli attuali sono usciti appunto nel ’77-’78 su grandi riviste come “Erkenntnis” o “Synthese”, oppure in atti di congressi. E sono andato avanti così, per tanto tempo. Poi c’è stato un momento in cui sembrava che potessi finirlo quando ero professore invitato in America, a Pittsburgh, ma anche lì non ho avuto il tempo di finirlo, perché mi mancavano certi dettagli che volevo sviluppare…
Morale della favola: l’ho lasciato in sospeso per tanto tempo e poi mi son detto: «Be’, bisognerà pure a un certo momento che lo finisca, altrimenti poi esce postumo, posto che esca». E così mi sono deciso e nel corso dell’anno passato finalmente ci ho dato sotto un buon mese per chiuderlo.

Perché si prolungava la stesura del libro?

Perché mano a mano lo dovevo aggiornare, pur senza la pretesa di essere à la page. Quindi che cosa succede? Che questo libro contiene molte cose che adesso, oggi come oggi, sono già anche state dette, tant’è vero che si dice: «Questa posizione ricorda la posizione del tale». Però io, in realtà, l’avevo anticipata rispetto a quel famoso «tale», anche se l’avevo anticipata in un articolo o in un altro saggio e in questo volume quindi appare sistematicamente.

Quindi questo contiene tutta la mia dottrina dell’oggettività scientifica, con le successive aggiunte, dunque con l’idea dell’operazionalità che caratterizza i predicati fondamentali che definiscono l’oggetto scientifico rispetto alle “cose” del senso comune e poi con tutto il discorso sulla caratteristica astratta degli oggetti scientifici, che però hanno dei referenti concreti, perché le operazioni consentono poi di trovare nella realtà concreta delle cose che esemplificano il concetto astratto (entro determinati limiti).

Questo è l’impianto generale, che si accompagna alla consapevolezza della caratteristica storica di questa determinazione dell’oggettività: perché quando io dico che ciascuna scienza considera la realtà da un determinato punto di vista, vuol dire che considera soltanto certe caratteristiche della realtà, cioè quelle che, in una determinata epoca storica, si possono pensare, concepire, trattare attraverso la matematica, riferire alla realtà utilizzando certi strumenti e via dicendo. E quindi questo immerge l’oggettività scientifica nel corso della storia.

Questo è molto importante, perché consente anche di capire le ragioni per le quali la scienza ha una storia: che non è semplicemente l’accumularsi di verità e l’eliminare errori, ma è veramente l’essere all’altezza delle condizioni storiche che permettono di raggiungere certe conoscenze e di sfruttare le conoscenze che ci sono già.

E quali sono i punti più importanti?

Ci sono un paio di cose importanti. Anzitutto, c’è la difesa di una visione realista della scienza. Ciò significa che la scienza non è un costrutto semplicemente convenzionale, ma si propone di conoscere il mondo (non solo quello della natura, ma anche il mondo della società, il mondo della storia, il mondo della lingua, il mondo della struttura psichica, eccetera) e riesce in questa impresa. Il che ovviamente non implica che sia infallibile: come tutte le conoscenze umane, anche le conoscenze scientifiche possono essere qua e là costellate da errori che poi vengono eliminati, ma non è questo il vero problema.

La filosofia della scienza che ha imperato fino a oggi è quella ispirata dal Circolo di Vienna e dal positivismo logico, che si fondava su un dogma fondamentale, che era quello dell’empirismo radicale. Erano cioè disposti ad ammettere che la scienza conosce la realtà solo al livello delle osservazioni, mentre tutti i concetti e i costrutti teorici, che pullulano nelle scienze, venivano considerati come non dotati di un riferimento reale: quindi tutte le posizioni nate da questa impostazione erano antirealiste.

Allora com’è che io recupero la possibilità del realismo? Attraverso un percorso abbastanza complesso, cioè riconsegnando alla scienza la finalità e la capacità di fare affermazioni vere, cosa che da almeno cent’anni gli scienziati non si azzardavano più a dire. Allora, se la scienza compie affermazioni vere, devono esistere gli oggetti su cui fa tali affermazioni: e anche se questi oggetti non sono osservabili, nella misura in cui abbiamo delle ragioni per sostenere la verità di una teoria, quelle stesse ragioni ci obbligano ad ammettere che esistono quegli oggetti, altrimenti la teoria sarebbe vera “a proposito di”… nulla, cioè non sarebbe vera affatto.

Certo, possiamo anche sbagliarci: quante volte ci si è sbagliati nella storia a proposito di mille cose! Ma il carattere realistico della scienza non coincide con l’infallibilità e neppure con l’assoluta certezza delle conclusioni scientifiche. La scienza, come qualunque impresa umana, è fallibile. Ma riguarda la realtà.

La copertina del libro di Evandro Agazzi

Ci sono ulteriori conseguenze di questa visione realista della scienza?

Sì. Considerandone il contesto storico e la sua natura operativa, ci si rende conto che la scienza è anche un grande complesso di attività e quindi che, come tale, mentre in quanto sapere si giudica semplicemente in base a criteri di verità e coerenza, in quanto attività è tutta immersa nel contesto sociale, politico, economico, morale, religioso eccetera, e quindi tutti i giudizi di valore che si pronunciano a proposito dell’attività scientifica e dei suoi prodotti sono legittimi, non sono interferenze.

Sono legittimi perché la scienza è un sottosistema di un sistema complesso e deve intrattenere rapporti con tutti gli altri sottosistemi. Allora il problema è quello di combinare la libertà della ricerca scientifica (non esistono verità moralmente, religiosamente, economicamente, giuridicamente proibite), che dev’essere garantita, col fatto che però non tutto si può fare, che è un’altra questione.

Quindi le attività scientifiche e i loro prodotti possono essere e devono essere sottoposti a una certa disciplina, come succede dappertutto: la libertà umana è sempre stata affermata accompagnandola con le condizioni per il suo esercizio lecito.

Così anche nel caso della scienza nasce il problema della responsabilità, che oggi si manifesta soprattutto come grande problema di etica collettiva. Cioè, mentre l’etica che abbiamo elaborato finora nel corso dei secoli è soprattutto un’etica individuale (dice quello che tu devi fare), adesso diventa più importante vedere come una società complessa come la nostra deve riuscire a stabilire una maniera moralmente corretta di gestire il progresso scientifico e tecnologico.

Molti filosofi però guardano con favore a questa epistemologia antirealista, che, sminuendo il valore conoscitivo della scienza, sembra porre un argine efficace alla sua tendenza a invadere il campo della fede e, più in generale, dei valori umani. Lei invece è di tutt’altro avviso…

Io nel libro mi fermo al discorso su scienza e metafisica: non tocco il problema della religione (anche perché il libro è già lunghissimo così), pur avendo dedicato moltissimi scritti a questo e pur avendo evidenziato, come abbiamo visto prima, che nel contesto del far scienza c’entrano anche i valori religiosi.

Comunque, perché dico che le epistemologie antirealiste non sono quello che serve? Perché l’importante è riconoscere che il sapere scientifico è sapere autentico, ma limitato. E proprio la mia teoria dell’oggettività scientifica mostra che ogni discorso scientifico è vero a proposito dei suoi oggetti ed è quindi arbitrario pretendere che parli del tutto: ovvero, ci sono dimensioni della realtà che sfuggono alla fisica perché, per esempio, rientrano nel campo della biologia; ma esistono anche dimensioni della realtà che non rientrano nel campo della fisica né in quello della biologia né in quello della psicologia eccetera, perché riguardano il problema dell’assoluto. Cioè: la realtà che ci circonda è il tutto o c’è qualche cosa al di là dell’unità dell’esperienza? Questo discorso è il discorso metafisico: perché il discorso metafisico riguarda l’intero.

Il vero problema è questo: l’intero si riduce all’unità dell’esperienza o no? È possibile dare un senso alla vita anche con quello: le filosofie immanentiste dicono: «Sì, l’intero si esaurisce qui», ma poi attraverso le ideologie trovano ugualmente un senso nella realizzazione (quasi sempre spostata utopisticamente in un grande futuro) di una società di uguali o del trionfo della nazione o di altre cose del genere. Oppure, viceversa, c’è un esito di tipo trascendentista: cioè, il senso che possiamo dare all’intero dell’esperienza esige che si riconosca invece qualche cosa che non cade all’interno dell’esperienza, e questo è il compito della metafisica. E se la metafisica ottiene questo guadagno, apre, come sono solito dire, lo spazio concettuale per una religione: perché poi la religione è quella che si occupa di dire che cos’è questo “qualche cosa”.

Infatti in metafisica si può dire: «Sì, chiamiamo Dio quello che è al di là dell’esperienza», però questo “Dio” è un predicato: sarà Causa Prima, sarà Motore Immobile, sarà altre cose di questo genere, però son tutti predicati. Quindi Dio come soggetto si incontra solo nell’esperienza religiosa, che è tutta un’altra cosa.

Le religioni sono quelle che cercano di darci un’immagine (in genere attraverso una rivelazione) di questo mondo del divino che l’uomo cerca di attingere, perché in realtà non esiste sulla faccia della Terra nessuna cultura che manchi di una religione: ci possono essere individui non religiosi, ma non una società in generale.

La civiltà contemporanea è tale che sta perdendo questa dimensione, proprio perché si è lasciata prendere dallo scientismo: cioè ha ritenuto di consegnare totalmente alla scienza e alla tecnologia la capacità di risolvere tutti i problemi umani, compresi quelli del senso e del valore della vita. Però è evidente che questo non funziona: tutte le crisi alle quali stiamo assistendo ci dicono che non si può affidare solo alla scienza e alla tecnologia addirittura la sopravvivenza dell’umanità, e quindi c’è bisogno di fare appello a una responsabilità morale, a dei valori e a degli ideali.

Lei però non dimostra soltanto che la scienza è limitata, ma dice anche qualcosa di più: cioè che rivendicare il valore conoscitivo della scienza aiuta a fare un discorso razionale anche sulla metafisica, il che è la cosa che in genere viene meno capita…

Sì, perché altrimenti quel che succede è che c’è uno scientismo ribadito da un fideismo. Cioè, tutto quanto concerne razionalità e conoscenza lo abbiamo dato alla scienza. E che cosa resta? La fede del carbonaio. La fede gratuita e, sottointeso, irrazionale: una fede, gira e rigira, alla fine di tipo emotivo.

Viceversa, qui si vede che se noi andiamo (e il lavoro che io ho fatto è questo) ad analizzare come si può fare il discorso metafisico (non sempre lo si fa così) lo si può fare utilizzando gli strumenti dell’empiricità e della logicità che si utilizzano nella scienza, semplicemente togliendo l’obbligo di essere legati soltanto all’esperienza: se si toglie, quest’obbligo, si apre lo spazio concettuale della metafisica, che è lo spazio perché la stessa religione possa apparire come razionalmente intelligibile.

Dopodiché non è sufficiente, perché la razionalità non dà la fede. Allora la fede resta sempre. Fortunatamente, perché la maggior parte degli uomini non hanno il tempo e la vocazione di dedicarsi a fare i metafisici. Però fortunatamente possono trovare un senso per la vita in una fede religiosa, ideologica, politica, quale che sia.

Ogni uomo che viva consapevolmente deve avere una fede, altrimenti vive come una bestia. Ma ogni uomo che a un certo momento senta il problema di dare un senso, un valore alla propria esistenza lo basa in una certa fede. Questa fede a un certo momento può essere argomentata, sostenuta (senza per questo togliere i dubbi e tutte queste cose qui) razionalmente. Qualche volta uno può dire: «Ma io razionalmente non ho argomenti né pro né contro». Va bene, resta agnostico dal punto di vista razionale e allora per libera scelta accetta una determinata fede.

Poi se uno è addirittura cristiano, allora riconosce che questa fede in realtà è un dono: cioè, non dipende da me credere o non credere, non è semplicemente un atto di pura volontà, ma è qualche cosa a cui io ho risposto.

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A cura di Paolo Musso(docente di Filosofia della scienza – Università dell’Insubria – Varese)