Qual è nella didattica della matematica il significato e il valore di proporre la risoluzione di problemi? Non si tratta solo di una prassi consueta, necessaria per stimolare nei bambini e nei ragazzi il trasferimento in situazione degli apprendimenti.Questo contributo, tratto dall’intervento dell’autore al convegno Ma.P.Es. 2018, si svolge in due parti. In questo numero, è inquadrata l’attività di
problem posing e problem solving, relativamente alla scuola primaria, in una prospettiva educativa, che suggerisce una didattica attiva e coinvolgente, che stimoli l’intuizione e la creatività degli alunni, senza generare timori e fissità.
Nel prossimo contributo l’autore tratterà problematiche e stimoli a proposito dell’intreccio della lingua con la matematica nella risoluzione di problemi, relazione che può rivelarsi positiva o disturbante.
Anche piccolissimi, i bambini si accorgono delle «cose» e delle variazioni e delle permanenze che intervengono nei contesti che li circondano. In una fase successiva della crescita, cercano di afferrare gli oggetti, in seguito li spostano in modo intenzionale, portandoli alla bocca o lasciandoli cadere ripetutamente.
Tutte le scoperte che i bambini fanno sono sorrette dalla loro naturale curiosità e dal forte desiderio di conoscere, nel senso più ampio del termine, di inoltrarsi nella realtà.
A bocca aperta!
Per questa ragione, vorrei aprire la mia riflessione partendo dall’immagine di un bimbo sorpreso, che manifesta con l’espressione del volto lo stupore che lo ha colto mentre sta giocando – così possiamo immaginare dai cubetti che ha in mano.
Non sappiamo che cosa lo abbia sorpreso, possiamo però riconoscere in questo sguardo l’atteggiamento originario di apertura cordiale dell’uomo alle «cose».
Ho sorpreso la stessa espressione in un bimbo, in occasione di un pranzo, in cui il tavolo era disposto a ferro di cavallo. Da un lato, all’interno, c’era un bimbo di dieci mesi sul seggiolone, che poteva vedere solo alcune persone che stavano sul lato esterno del ferro di cavallo, di fronte a lui. Verso il termine del pranzo, la mamma ha girato il seggiolone del bimbo verso l’altro lato della sala, ed egli improvvisamente ha visto molte altre persone, il suo volto si è acceso di un’espressione di stupore simile a quella della foto, come a significare: «Guarda quanti ce ne sono!».
Accorgersi delle «cose», accorgersi della presenza delle cose è il punto di avvio del processo della conoscenza: i bambini mostrano questa «fame di realtà» con modalità diverse, in maniera incessante. Lo vediamo quando, già da piccolissimi, fissano lo sguardo su un oggetto particolare, e ne modificano la durata quando cambia l’oggetto che viene fissato.
Gli attributi che provocano questo genere di fenomeni non hanno necessariamente tratti «concreti». Stanislas Dehaene, ne Il pallino della matematica [1], riferisce di esperienze svolte a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso con bambini di pochi mesi: ai bimbi venivano proposte una serie di diapositive, mentre un operatore ne riprendeva con una cinepresa lo sguardo e misurava il tempo necessario per fissare l’immagine; quando lo sguardo volgeva altrove veniva proiettata una nuova diapositiva.
All’inizio le immagini erano molto simili, con tre grossi pallini neri allineati, i bambini rispondevano alla ripetitività dello stimolo tenendo sempre meno fisso lo sguardo, finché la diapositiva non mostrava un’immagine diversa, con due pallini neri, in coincidenza della variazione dello stimolo il tempo di attenzione cambiava passando da 1,7 a 2,5 secondi. Altri esperimenti sono stati svolti variando gli aspetti interessati, come la posizione, la grandezza, anche con stimoli sonori, riscontrando la sensibilità dei bambini alla variazione del numero degli oggetti.
Desiderio e conoscenza
Il motore più efficiente che muove l’azione e mobilita le energie della persona, è il desiderio che le «cose» rispondano, siano brani di risposta, siano indizi di risposta alle attese che fanno vibrare il cuore.
Un esempio, presumo ben noto, ci aiuta a verificare questa osservazione, a descrivere questa dinamica. Pensiamo: «Di che cosa c’è bisogno per giocare a pallone?», la prima risposta che viene alla mente è «Del pallone». Falso! Non serve, basta la voglia di giocare, il desiderio di giocare.
Un qualunque manufatto, neanche troppo sferico, può diventare un pallone per chi ha voglia di giocare: un giornale accartocciato tenuto insieme dallo scotch, o un barattolo, vanno benissimo – la necessità aguzza l’ingegno! – e la partita diventa occasione di impegno, immaginativo e manuale, nel ricercare o costruire lo strumento per il gioco.
Un impegno anche cognitivo, che si esprime in valutazioni relative a che cosa sarebbe successo se la «palla» non si fosse disfatta proprio nel calciare il rigore, o se il barattolo avesse avuto un rimbalzo più simile a quello di un pallone vero.
Dentro questa dinamica si imparano le cose: poiché vincere dà appagamento e soddisfazione, si cerca di trattenere ciò che può determinare l’esito sperato. L’esperienza di calciare il pallone volta per volta si analizza e si trattiene, calciare la palla in un certo modo (punto dell’impatto, forza, direzione, posizione del piede…) imprime un moto che imparo a riconoscere e riprodurre. Calciare in un certo modo significa rendersi conto e trattenere nella memoria qual è stato il punto di impatto, significa valutare la lunghezza della traiettoria a seconda della forza impressa, come si regola la direzione del tiro con la posizione del piede, ma da più grandi anche delle spalle…
Non è estranea questa dinamica a quella che presiede la ricerca della soluzione di un problema: si tratta di realizzare delle azioni che permettono di soddisfare un desiderio.
Se questa affermazione sembra eccessiva, pensiamo a un’altra situazione: immaginiamo di avere per le mani l’invito a un concerto che si svolge in un’altra città una di queste sere, 100 euro e l’orario dei treni. Possiamo dire che è un problema? Sì, se il concerto mi interessa; altrimenti no.
Solo l’interesse personale trasforma una situazione in un problema, che si concretizza nell’esplicitazione di una domanda: «Riesco ad andare al concerto?».
La risposta alla domanda si può raggiungere mobilitando le risorse di cui si è provvisti, rispettando la natura di ciascuna di esse e orientandole attraverso l’energia di cui l’uomo dispone per compenetrare la realtà: la ragione.
Il processo che conduce alla risposta si esplicita anche nell’analisi delle informazioni – per restare nell’esempio, l’orario di partenza e arrivo del treno, il costo del viaggio -, e nella loro elaborazione – l’ora di arrivo del treno deve permettere di raggiungere in tempo la sala del concerto…
Questo processo si traduce in termini di affermazioni razionali: «Sì, riesco ad andare al concerto perché posso prendere un treno a una certa ora, perché mi bastano i soldi…». Oppure in valutazioni di ragionevolezza: se il mattino dopo il concerto si svolge in una terza città la prova di un concorso che può segnare definitivamente il mio futuro professionale, forse si può rivedere la decisione di andare al concerto.
Il problema a scuola e nella storia
Immagino, e spero, che molti stiano pensando che questo genere di osservazioni siano utili e significative a inquadrare il tema del problema, immagino anche che molti stiano pensando: «Sì, però a scuola…».
Non dobbiamo dimenticare che l’obiettivo generale della scuola è contribuire a far crescere i bambini e aiutarli a diventare adulti. Al di là quindi dei programmi, delle preoccupazioni sui ritmi e i tempi di apprendimento, dei confronti con la classe della collega antipatica, dei discorsi delle mamme e delle nonne ai giardinetti, è pur sempre compito degli insegnanti aver cura dell’umanità dei bambini e dei ragazzi, in tutta la loro integralità, evitando di rivolgersi solo alla loro componente cognitiva.
Vale la pena di ricordare quanto scriveva Hans Freudenthal [2]: «Il valore che si attribuisce ai discenti come esseri umani determina il modo in cui ci si aspetta che essi imparino la loro matematica: con libertà oppure da schiavi, guidati oppure imbrigliati». Le scelte didattiche sono figlie della concezione che si ha del bambino, del ragazzo e dell’uomo; ritengo pertanto sia utile ricordarci che salvaguardare ragione e libertà è imprescindibile per realizzare una proposta didattica che chiami in gioco la persona del discente.
In quest’ottica il problema è uno strumento prezioso da utilizzare in classe, posto che ci si debba intendere su che cosa esso sia. Stella Baruk nel suo Dizionario di matematica elementare [3] alla voce problema denuncia: «Da ‘questione difficile da risolvere’ problema è diventato un termine onnivalente, il cui uso scorretto e generico contribuisce […] a impoverire l’espressione e, quindi, la lingua. Tutto pone problemi, tutto crea problemi». Più avanti nella stessa voce propone una descrizione per ricostruire il pieno significato del termine: «Questione da risolvere attraverso metodi scientifici o razionali a partire da un certo numero di dati, che ne costituiscono l’enunciato.»
Quella di Stella Baruk non è una voce isolata. Giovanni Vailati, un matematico che ha lavorato nei primi decenni del Novecento anche alla riforma della scuola, raccomandava: «Per garantire il raggiungimento dei fini educativi dell’insegnamento matematico, […] esso sia impartito in modo da stimolare, fin dal principio, gli alunni all’esercizio autonomo delle loro facoltà di raziocinio e d’invenzione, […] per risolvere determinati problemi e determinate difficoltà.».
Così George Polya, una delle voci più importanti del secolo scorso nel dibattito sull’insegnamento della matematica, nel libro degli anni Sessanta del secolo scorso La scoperta matematica [4], dedicato a «capire, imparare e insegnare a risolvere i problemi», chiosa: «… in matematica il ‘saper come’ è molto più importante che il solo possedere delle informazioni. […] Che cosa è il ‘saper come’ in matematica? L’abilità a risolvere problemi – non semplicemente di ‘routine’, ma problemi che richiedano un certo grado di indipendenza, di giudizio, di originalità, di creatività». Pur con le diversità dei tempi e delle sensibilità il messaggio è lo stesso.
In un recente intervento Ana Millan Gasca ha ricordato come nella storia dell’umanità i problemi accompagnano sempre la trasmissione del sapere matematico: testi che segnano la storia della matematica sono raccolte di problemi, come il papiro di Rhind o il testo medievale Propositiones ad acuendos juvenes di Alcuino, il maestro di Carlo Magno, in cui troviamo insieme accenti di natura pedagogica e ricreativa. Ma, forse più profondamente, la genesi stessa dei concetti matematici è legata alla soluzione dei problemi, come testimonia una su tutte l’esperienza di Newton, che ha «inventato» il calcolo infinitesimale per tentare di risolvere il problema di descrivere la traiettoria dei pianeti.
Questi argomenti, che vogliono se pur per brevi cenni anche suggerire un ambito da indagare e approfondire personalmente, ci portano a sostenere che la soluzione di problemi e l’apprendimento della matematica sono originariamente intrecciati, e quindi inscindibili, sia nell’esperienza personale, sia nell’esperienza scolastica.
Non si può pensare ai problemi come a un capitolo del sussidiario o del manuale, una fase del flusso del programma, un argomento «da fare», che prevede solo la richiesta di riconoscere uno schema risolutivo e applicare una procedura routinaria. Essi sono piuttosto occasioni generative di pensiero, e molto opportunamente possono essere usati anche per introdurre un nuovo concetto o una nuova procedura, attraverso l’esplorazione personale da parte dei bambini, da soli o anche in gruppo.
La mancanza di motivazione o la difficoltà non possono essere giustificazioni per evitare di proporre ai bambini di affrontare e cercare la soluzione di problemi, sotto la pressione di presunti programmi da completare – i programmi non esistono più da almeno un decennio – o di abilità da acquisire ed esercitare – in particolare abilità di calcolo.
Ogni apprendimento che non sia volto a una effettiva comprensione, che potrà anche avvenire in maniera completa tempo dopo, finisce per essere nei migliori dei casi inutile.
Così ci ricorda Raffaella Manara [5]: «Tutti i tipi di difficoltà […] si possono ricondurre a una radice profonda, vera origine di tanti ostacoli nell’apprendimento della matematica: l’atteggiamento di distacco dal senso, di chi si rassegna a eseguire acriticamente operazioni ripetitive e inconsapevoli. Esso porta a confondere la capacità intellettuale, la comprensione concettuale con l’abilità di manipolazione: so fare, non importa il che cosa e il perché. Vorremmo che ci si convincesse che questo atteggiamento è antitetico alla natura e allo scopo della matematica. Nell’apprendimento matematico il vero ostacolo non è fare errori di calcolo, non è l’intoppo operativo: ciò che veramente impedisce lo sviluppo del pensiero matematico è l’azione inconsapevole».
Come per tutto il resto, i bambini imparano dalla maestra la motivazione e l’atteggiamento corretto di fronte alla difficoltà: per questo è necessaria una «rivoluzione culturale» degli insegnanti per sviluppare, riprendere e approfondire una concezione della matematica corrispondente alla natura della disciplina, come suggerisce Adriana Davoli in un interessante articolo di questa rivista [6].
Andrea Gorini(Insegnante di matematica alla Scuola secondaria di primo grado, Fondazione “San Girolamo Emiliani” di Corbetta – Milano)Riferimenti bibliografici[1]
S. Dehaene, Il pallino della matematica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.
[2] H. Freudenthal, Ripensando l’educazione matematica, La Scuola, Brescia, 1994.
[3] S. Baruk, Dizionario di matematica elementare, Zanichelli, Bologna, 1998.
[4] G. Polya, Come risolvere i problemi di matematica, Utet, Torino, 2016.
[5] R. Manara, La matematica e la realtà, Marietti1820, Genova, 2002.
[6] A. Davoli, La conversione culturale nell’insegnare matematica, in Emmeciquadro n. 54 – Settembre 2014.