Tra i sistemi che rendono possibile la vita, il sistema immunitario è sicuramente uno dei più complessi. Non solo ci sono voluti lunghi anni di ricerca per identificare le cellule e gli organi che garantiscono la sua azione di difesa, contro tutto ciò che può danneggiare il nostro organismo. Ma anche, man mano che, nella seconda parte del secolo scorso, si sono identificate le numerose proteine-recettori legate ai componenti cellulari, ci si è resi conto che il corretto funzionamento del sistema immunitario dipende dall’interazione tra queste molecole. Complessità nella complessità. In questo quadro si inserisce la scoperta dei due scienziati premiati con il Nobel 2018: una terapia anticancro basata sull’«inibizione della regolazione immunitaria negativa» dell’attività dei linfociti T, cellule fondamentali del sistema immunitario.
L’Assemblea dei Nobel riunita al Karolinska Institute ha assegnato il premio Nobel per la Medicina 2018, in parti uguali, a due studiosi del sistema immunitario: l’americano James Patrick Allison e il giapponese Tasuku Honjo «for their discovery of cancer therapy by inhibition of negative immune regulation». In altre parole, i due scienziati hanno scoperto una terapia anticancro basata sulla regolazione (più precisamente sull’inibizione della regolazione immunitaria negativa) dell’attività dei linfociti T, cellule fondamentali del sistema immunitario.
Allison, texano nato nel 1948, lavora oggi a Houston e a San Francisco in prestigiosi centri di ricerca per la lotta al cancro; Honjo, giapponese nato a Kyoto nel 1942, dirige il Department of Immunology and Genomic Medicine all’Università di Kyoto.
Gli stessi scienziati erano stati premiati, nel 2014, con il premio Tang (premio internazionale fondato per riconoscere e sostenere scoperte innovative nel XXI secolo) nella categoria Biopharmaceutical Science.
Semplifichiamo al massimo. Entrambi gli scienziati hanno scoperto che alcune proteine, in particolare CTLA-4 (studiata da Allison) e PD-1 (studiata da Honjo), agiscono, seppure con meccanismi differenti, come «freni» (checkpoint) che rallentano l’azione delle cellule T nel riconoscere e attaccare componenti non self quali sono le cellule tumorali rispetto alle cellule del corpo. E sono riusciti a dimostrare che è possibile riattivare il sistema immunitario e la sua azione di difesa somministrando anticorpi che contrastano l’azione delle proteine checkpoint.
Un sistema complesso a difesa del corpo
Come dimostrano le motivazioni di molti premi Nobel assegnati nel XX secolo, il funzionamento del sistema immunitario è stato ed è un tema centrale per la ricerca medica; anche per la lotta al cancro è stato importante capire i meccanismi con cui si riconoscono self e non self per attaccare e eliminare tutti i possibili invasori.
Un punto chiave è stato, negli anni Ottanta del secolo scorso, il riconoscimento che le cellule T (o linfociti T), un tipo di globuli bianchi del sangue, presentano, in superficie, recettori che si legano alle strutture riconosciute come non self e innescano le difese immunitarie, altri che agiscono come «acceleratori» e altri ancora che funzionano come «freni», bolccando l’attivazione immunitaria. Complesse interazioni tra queste molecole possono garantire la difesa dai non self, evitando la distruzione autoimmune di cellule e tessuti sani.
Le ricerche premiate con il Nobel si riferiscono anzitutto alla scoperta, all’inizio degli anni Novanta, di due importanti proteine che agiscono come inibitori dell’attività dei linfociti T: Allison ha identificato CTLA-4 (Cytotoxic T Lymphocyte Antigen 4) che agisce sui linfociti-T immaturi mentre sono ancora nei linfonodi; Honjo ha identificato PD-1 (Programmed Cell-Death-1) che agisce sui linfociti T iperattivi in ogni parte del corpo.
Nella parte superiore dell’immagine seguente è schematizzato il ruolo di CTLA-4 e PD-1 nel funzionamento dei linfociti T contro le cellule cancerose. La molecola CTLA-4 frena l’attività della cellula T, perché inibisce la funzione dell’acceleratore (a sinistra), mentre, con un meccanismo differente, ma con lo stesso risultato, PD-1 inibisce l’attività del linfocita (a destra).
Nella parte inferiore dell’immagine è invece schematizzata la strategia per riattivare le difese contro le cellule tumorali mediante anticorpi (rappresentati con il colore verde)
Le scoperte premiate
Come racconta in un’intervista, Allison era segnato dalla malattia di diversi suoi parenti e voleva trovare una cura per il cancro. Progettò una strategia nuova: usare un anticorpo anti CTLA-4 per «sbloccare»il freno della cellula T e riattivare le difese antitumorali. Il primo esperimento, eseguito sui topi alla Berkeley University alla fine del 1994, diede risultati sorprendenti confermati nel corso del 1996 su diversi tipi di tumori.
Anche il gruppo di Honjo, che aveva identificato PD-1 durante una ricerca di base sull’apoptosi nel 1992, cominciò a studiare gli effetti degli anticorpi anti PD-1 sui topi ammalati di tumore.
Dal 2010 sono stati effettuati trials clinici sull’uomo sia per gli anticorpi anti CTLA-4 che si sono rivelati efficaci in pazienti con melanoma a uno stadio avanzato, sia con anticorpi anti PD-1 che si sono rivelati efficaci per diversi tipi di tumori come il tumore del polmone e del rene.
In conclusione: le scoperte dei premiati con il Nobel per la medicina di quest’anno hanno contribuito a sviluppare una nuova forma di immunoterapia tumorale basata sulla rimozione dei freni delle cellule T e sulla stimolazione della risposta immunitaria del paziente, prevalentemente attraverso linfociti T.
Come sostiene Marco Pierotti, «Il cancro è elusivo, cambia pelle continuamente, una sola terapia non basta, magari la cura va associata alla chemio magari anche alla radio. Il premio Nobel è comunque molto meritato, perché si tratta di una scoperta cruciale e in pochissimi anni ha avuto una ricaduta medica, che è il risultato che ci si aspetta sempre in questi casi. E loro ci sono riusciti».
Maria Cristina Speciani
(Giornalista, esperta di didattica delle scienze, membro della redazione di Emmeciquadro)