In un suo recente libro, scritto a quattro mani con il fin lì sconosciuto Leonard Mlodinow (1954-…), Stephen Hawking (1942-…) ha tanto brutalmente quanto sinceramente affermato: «Come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo? Come si comporta l’Universo? Qual è la natura della realtà? Che origine ha tutto ciò? L’Universo ha avuto bisogno di un creatore? […] Per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza, e in particolare della fisica. Così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola nella nostra ricerca della conoscenza».1
Sarebbe fin troppo facile liquidare queste parole come espressione di uno scientismo rozzo e arrogante, che perde di vista ogni più elementare distinzione tra i diversi piani della realtà e i corrispondenti diversi metodi di indagine, tanto più che tutto il libro è caratterizzato da uno sconfortante semplicismo e una inaccettabile faziosità, anche al livello puramente scientifico, dove gli autori si limitano a dare per scontato che le proprie teorie preferite siano vere e quelle rivali false, senza mai fornire il benché minimo straccio di argomentazione. Eppure queste obiezioni, per quanto giuste, ci farebbero perdere di vista il punto fondamentale: se Hawking ha torto in linea di principio, ha però ragione (o almeno è molto vicino ad averla) in linea di fatto. La filosofia sta morendo, infatti, e sta morendo proprio per le ragioni che dice lui: per non aver saputo e spesso nemmeno voluto tenersi al passo con la scienza (guardata in genere con un paradossale misto di timore reverenziale e di sprezzante superiorità); e per non aver più creduto nella possibilità di ricercare la conoscenza (cosa, quest’ultima, almeno in parte conseguenza della prima), sostituendola o con un tecnicismo autoreferenziale fine a se stesso o con un relativismo politically correct buono solo per cercare l’applauso dei salotti – le due metà di una stessa maschera che racchiude il nulla.
Perciò, invece di prendersela con gli scienziati o, peggio ancora, con la scienza in quanto tale, davanti ad affermazioni del genere i filosofi (e gli umanisti in genere) farebbero bene a chiedersi quando è stata l’ultima volta che hanno osato porre pubblicamente, nei loro libri e nelle loro lezioni, le grandi domande sopra ricordate da Hawking – e, soprattutto, quand’è stata l’ultima volta che a esse hanno dato una risposta, come lui ha almeno tentato di fare, sia pure in maniera rozza e inadeguata. E se lo facessero, si accorgerebbero che in realtà la scienza (purché ben capita) non solo non è loro nemica, ma è anzi la loro migliore alleata in questa impresa. Anche perché lo scientismo non l’hanno affatto inventato gli scienziati, ma proprio loro, i filosofi. Come andremo subito a vedere.2
Galileo e l’origine della scienza
Non si può veramente capire la natura profonda di una cosa senza capirne l’origine. E l’origine della scienza moderna, per consenso pressoché unanime, risale all’opera di Galileo Galilei (1564-1642), da cui dunque incominceremo il nostro discorso.
È vero infatti che diversi passi importanti erano già stati fatti prima di lui, ma questo accade in qualsiasi rivoluzione. Che però per scoppiare e divampare nella sua interezza ha poi ancora bisogno di un uomo o di un gruppo di uomini che sappia fare la sintesi di ciò che già si stava muovendo, in sordina e spesso in maniera non del tutto consapevole, nei sottoscala della storia, portandolo alla luce del sole e mostrandone a tutti il vero significato e le inevitabili conseguenze. E non c’è dubbio che chi svolse questo ruolo rispetto alla rivoluzione scientifica del Seicento fu per l’appunto Galileo, il quale diede a essa almeno tre contributi di importanza straordinaria, ciascuno dei quali sarebbe bastato già da solo a farlo passare alla storia.
Anzitutto infatti egli con le sue scoperte astronomiche dimostrò la fondamentale unità della Natura, contro la millenaria divisione di derivazione aristotelica tra mondo celeste e mondo sublunare. Quindi, grazie ai suoi esperimenti con il piano inclinato e ad alcuni elegantissimi esperimenti mentali (di cui fu il vero inventore, tre secoli prima di Einstein), dimostrò il principio d’inerzia, la legge della caduta dei corpi e la relatività del moto, risultato che, unito al precedente, gli permise di provare, dopo quasi duemila anni, la falsità del sistema aristotelico-tolemaico e quantomeno la possibilità dell’eliocentrismo (ma a mio avviso anche la sua verità, benché su questo non vi sia oggi un generale consenso). Infine, pur non avendo scritto di ciò in modo sistematico, ma solo di passaggio in vari suoi testi, definì in maniera chiarissima e soprattutto definitiva il metodo scientifico, sul quale ora concentreremo la nostra attenzione, giacché è proprio da questo che si può capire che cosa la scienza è realmente.
Ora, a proposito delle principali caratteristiche del metodo scientifico esiste (cosa più unica che rara, a ulteriore riprova della straordinaria efficacia di Galileo nel delinearlo) un consenso pressoché unanime tra gli storici e i filosofi della scienza, anche se ovviamente esse possono poi venire esposte in maniere diverse, benché sostanzialmente equivalenti. Io in genere procedo individuando quattro principi fondamentali:
Non «tentar l’essenza»,3 ma limitarsi a studiare alcune proprietà;
Uso dell’esperimento in luogo della semplice osservazione;
Uso del linguaggio matematico per esprimere le leggi di Natura;
Negazione del principio di autorità nelle questioni relative alla scienza naturale.
L’unanimità esistente circa i principi che stanno alla base del metodo scientifico si perde tuttavia non appena si tratta di stabilire il loro corretto significato e, in particolare, quale di essi sia il più importante, quello che ha segnato il vero punto di non ritorno rispetto a tutta la tradizione precedente.
La mia personale convinzione, peraltro condivisa, tra gli altri, anche da pensatori del calibro di Evandro Agazzi (1934-…), Stanley Jaki (1924-2009) e Peter Hodgson (1928-2008),4 è che il primo principio sia il più importante, per ben due ragioni, che si sostengono e si completano a vicenda.
Anzitutto infatti bisogna notare che il vero limite della scienza antica non stava né in una insufficiente attenzione per i fenomeni naturali (Aristotele -IV sec. a.C.-, in particolare, era un grandissimo osservatore e molte delle sue tesi fisiche errate erano basate non su pregiudizi filosofici, ma proprio su ciò che a prima vista sembra accadere in Natura) né in una scarsa dimestichezza con la matematica (il sistema tolemaico, in particolare, era un’opera raffinatissima, le cui prestazioni non erano inferiori a quelle del sistema copernicano e la cui elaborazione aveva richiesto il contributo di matematici di levatura straordinaria, come Eudosso.-IV sec. a.C.-, Apollonio -III sec. a.C.- e lo stesso Tolomeo -II sec.-).
Tale limite va piuttosto identificato nell’ostinata fedeltà al metodo deduttivo, consistente nello stabilire per prima cosa i principi fondamentali su base puramente razionale e poi ricavare da essi tutti i particolari, metodo che aveva dato straordinari risultati in logica, in metafisica e soprattutto in matematica, con gli Elementi di Euclide (IV sec. a.C.), un’opera così moderna che dovranno passare ben ventidue secoli prima che dei suoi assiomi venga data una formulazione tecnicamente migliore, nel 1899, a opera di David Hilbert (1862-1943).
Ora, di per sé non era affatto irragionevole (anzi!) pensare che un metodo di così grande successo potesse funzionare anche per la scienza naturale: il genio di Galileo consistette dunque proprio e innanzitutto nel capire che, nonostante le apparenze, tale metodo tuttavia nel caso delle scienze naturali non funzionava e se si voleva realmente progredire non bastavano degli aggiustamenti, ma era necessario cambiarlo radicalmente, anzi, addirittura invertirlo, come viene per l’appunto affermato dal primo principio. È per questo che, come subito vedremo, esiste una precisa relazione logica tra esso e gli altri tre, che ultimamente ne dipendono, sia per la loro giustificazione teorica che per la loro applicazione pratica.
Anzitutto infatti l’esperimento si differenzia dalla semplice osservazione perché è qualcosa di artificiale, che richiede l’uso di opportuni strumenti e ha, come requisito fondamentale, quello di essere ripetibile da chiunque, in ogni tempo e in ogni luogo. Ora, perché lo scienziato dovrebbe intervenire attivamente sulla Natura e non limitarsi a osservarla così com’è? Esattamente allo scopo di evidenziare e separare il più possibile dalle altre alcune proprietà, in modo da poterle studiare con maggior precisione. E questa è anche la ragione per cui l’esperimento, se eseguito correttamente, risulta ripetibile: infatti si capisce anche intuitivamente5 che nessuna situazione fisica si ripete mai esattamente identica, se la consideriamo nella totalità dei suoi fattori, mentre non è impossibile che ciò accada se ne consideriamo soltanto alcuni.
Quanto all’uso del linguaggio matematico per esprimere le proprietà del mondo fisico che saranno successivamente oggetto della verifica sperimentale, l’idea non era affatto nuova, risalendo già a Pitagora. Il problema è che fino a quel momento esso era stato limitato ai soli fenomeni celesti (sui quali però, per ovvi motivi, non era possibile eseguire esperimenti), perché quelli terrestri venivano giudicati troppo complessi e irregolari per sperare di trovare una formula matematica che permettesse di prevederne il comportamento: convinzione che peraltro sembrava confermata dal fatto che i pochi tentativi effettuati in tal senso, a cominciare proprio da quelli dei pitagorici, avevano prodotto solo un guazzabuglio di strampalate teorie numerologiche, basate su analogie forzate e superficiali e sconfinanti regolarmente nella magia e nella superstizione. Fu soltanto accettando la prescrizione metodologica galileiana di limitarsi allo studio di alcune proprietà che l’applicazione della matematica alla realtà fisica divenne finalmente possibile, fino a raggiungere la straordinaria efficacia che ben conosciamo.
Infine, il rifiuto del principio di autorità da parte di Galileo non si basava affatto su un atteggiamento ribellistico o, peggio ancora, anarchico, bensì sul fatto che nelle scienze naturali in caso di disaccordo è sempre possibile rifarsi a un’autorità superiore a quella umana, che direttamente è l’autorità della Natura, ma indirettamente è quella di Dio stesso, dei cui «ordini» la Natura è «osservantissima esecutrice»,6 essendo priva di una volontà propria e non potendo quindi, a differenza degli uomini, in alcun modo discostarsi da essi. Ma tale possibilità si basa sulla ripetibilità degli esperimenti e sulla possibilità di stabilirne esattamente il risultato grazie all’uso della matematica, il che a sua volta dipende, come abbiamo appena visto, dal primo principio, che è dunque realmente il più importante e fondamentale di tutti.
È importante notare, contro chi vorrebbe vedere in lui un precursore dello scientismo odierno, che Galileo disse invece con la massima chiarezza che tale inversione metodologica andava fatta solo nel caso di quella scienza che intende occuparsi delle «sustanze naturali», ovvero dei «corpi»,7 riconoscendo che il metodo tradizionale restava valido negli ambiti in cui era sorto, mentre in altri ambiti poteva essere necessario un metodo ancora differente.
In altri termini, il riconoscimento del pluralismo metodologico, cioè del fatto che oggetti diversi richiedono metodi diversi per la loro conoscenza, è parte costitutiva dell’atto di nascita della scienza e per niente affatto qualcosa che si è tentato di imporle successivamente dall’esterno per cercare di arginare in qualche modo il suo straordinario e crescente successo. Anzi, tale successo è stato reso possibile proprio e soltanto da tale cosciente e intenzionale autolimitazione, al punto che rimuoverla equivarrebbe non a espandere, bensì a distruggere la scienza.
Allo stesso modo, è da evitarsi anche l’errore opposto e non meno frequente di pensare che ciò faccia di Galileo un fenomenista o, peggio ancora, uno scettico e della scienza un’impresa meramente pratica o, peggio ancora, convenzionale, priva di reale valore conoscitivo.
Anzitutto infatti non si deve cadere nell’equivoco di attribuire anacronisticamente a Galileo una concezione dell’essenza intesa come qualcosa che sta al di là di ogni proprietà fenomenica, quasi fosse una kantiana «cosa in sé», mentre all’epoca il termine indicava soltanto ciò che una cosa è «veramente», ovvero le sue proprietà più importanti, da cui dipendono tutte le altre. Così intesa, la conoscibilità delle essenze da parte della scienza coincide di fatto con l’affermazione del realismo scientifico e dunque non poteva essere negata da Galileo, che fu sempre un realista convinto e rivendicò per tutta la vita la corrispondenza delle sue teorie alla realtà,8 contro i suggerimenti di chi gli suggeriva di presentarle come puri modelli matematici, o per prudenza (come Bellarmino) o anche (come i sostenitori del cosiddetto «finzionalismo») in base a motivazioni filosofiche non molto diverse da quella care all’epistemologia relativista contemporanea.
Il fatto è che in Galileo il «non tentar l’essenza» è, come si è detto, un principio metodologico, che di per sé non ce ne vieta la conoscenza, ma ne fa il punto di arrivo dell’impresa scientifica, laddove gli antichi ne avevano fatto invece il punto di partenza, a cui pensavano di poter arrivare d’un solo colpo e per via puramente intuitiva. Per Galileo invece all’essenza delle cose si può arrivare solo partendo dalle proprietà più semplici ed evidenti, per poi ricostruire un po’ alla volta, pezzetto per pezzetto, come in un mosaico, quelle più complesse e profonde (e dunque «essenziali», nel senso sopra ricordato): e di fatto la scienza moderna si è sviluppata proprio così.
Un nuovo modo di usare la ragione
È molto importante comprendere che l’individuazione del corretto metodo della scienza naturale rappresentò non solo un successo pratico (comunque straordinario, visto chetale metodo resta valido – e anzi più efficace che mai – ancor oggi, dopo ben quattro secoli), ma anche un avvenimento culturale di primaria importanza, giacché si trattò nientedimeno che della scoperta di un nuovo modo di usare la ragione, come aveva ben capito Einstein, il quale ebbe a scrivere che «la scoperta e l’uso del ragionamento scientifico, a opera di Galileo, fu uno dei più importanti avvenimenti nella storia del pensiero umano» (e non solo della fisica, di cui pure «segna la vera origine»).9
Donandoci una prospettiva nuova sulla realtà creata, esso ci ha infatti donato anche una prospettiva nuova per cercare in essa le orme del suo Creatore, come Galileo per primo non si è mai stancato di ripetere: in questo senso perciò la scienza non solo non è ostile a quel processo di «allargamento della ragione» più volte invocato da Benedetto XVI e oggi quanto mai necessario, ma può anzi dare un importante contributo in tal senso.
Del resto non fu certo un caso che la nascita della scienza moderna si sia verificata nell’ambito dell’Italia del Rinascimento, in cui si realizzò nel modo più armonico e spettacolare l’incontro tra la cristianità e il meglio della tradizione greca. Infatti la svolta decisiva non fu dovuta né allo sviluppo della matematica (quella usata da Galileo era relativamente semplice e nota già da secoli) né a quello della tecnologia (lo strumento più sofisticato usato da Galileo fu il cannocchiale, che costruì per tentativi10 e usando lenti da occhiali), bensì alla combinazione di tre fattori, tutti essenzialmente culturali:
La convinzione, sia greca che cristiana, dell’esistenza di un ordine razionale del mondo:
L’idea, soprattutto greca (in particolare pitagorica e platonica), che tale ordine, almeno a livello della realtà materiale, fosse essenzialmente di tipo matematico;
Il concetto, esclusivamente cristiano, di creazione.
Quest’ultimo, in particolare, fece la differenza. Esso portava infatti con sé due implicazioni del tutto estranee alla cultura greca che permisero di fare il passo decisivo verso la definizione di quella scienza sperimentale che i Greci avevano soltanto sfiorato:
iiia) la prima era la dignità di tutto ciò che esiste, che determinò le condizioni sociali e culturali che resero possibile l’affermazione del metodo sperimentale, riabilitando da un lato il lavoro manuale, indispensabile alla sua realizzazione (che per i Greci era roba da schiavi) e dall’altro il mondo sublunare, il solo su cui si potessero fare esperimenti (che per i Greci era il regno dell’imperfezione);
iiib) la seconda era la contingenza del mondo, che fornì la base concettuale dell’inversione metodologica galileiana, giacché se il mondo è così com’è per una scelta libera da parte di Dio e non per una necessità metafisica cade ogni possibilità di dedurne le proprietà in base a un qualsiasi principio raggiungibile con la pura ragione e diventa quindi necessario andare a indagare con i nostri occhi e le nostre mani «non […] quello che Iddio poteva fare, ma quello che Egli ha fatto».11
Cartesio e l’origine dello scientismo
Se così stanno le cose, dove allora ci si è persi per strada, fino ad arrivare allo scientismo odierno? Per capirlo dobbiamo rifarci non all’ambito della scienza, ma a quello della filosofia e in particolare al pensiero di quello che viene tanto spesso quanto indebitamente accostato a Galileo come vero e proprio co-ideatore del metodo scientifico, ovvero René Descartes (1596-1650).
Tra i «miti fondativi» della modernità, quello del «secondo padre» della scienza moderna è probabilmente secondo solo a quello della costitutiva opposizione tra la scienza stessa e la religione, costruito a partire dal processo a Galileo, una vicenda certamente sciagurata e deplorevole, ma che dipese assai più dagli screzi personali tra Galileo e Urbano VIII che non da effettive questioni dottrinali. Tuttavia in questo caso almeno un fatto reale da cui prendere spunto c’era, mentre nella vicenda di Cartesio, per quanto incredibile ciò possa sembrare, non c’è nient’altro se non la pura e semplice propaganda.
Anzitutto infatti non vi è la minima possibilità di dubbio (giacché egli lo ripete decine di volte e con la massima nettezza in tutte le sue opere) che per Cartesio, esattamente come per gli aristotelici che pure affermava di avversare, il metodo della scienza resta deduttivo e i suoi principi fondamentali devono essere ricavati a partire da quelli della metafisica e non stabiliti attraverso gli esperimenti, che servono solo a definire i dettagli del sistema (e anche qui solo per una ragione pratica, perché dedurli tutti a priori risulterebbe troppo complicato, benché possibile in linea di principio).
Peraltro Cartesio parla sì spesso di «esperienze», ma dal contesto è evidente che in genere intende le semplici osservazioni, tanto più che dice esplicitamente che, almeno «in principio, è meglio servirsi di quelle che si presentano da sé ai nostri sensi».12 Inoltre anche le poche esperienze che egli presenta come autentici esperimenti non sono quasi mai realmente tali, perlopiù sono di seconda mano e non eseguite personalmente e infine (dettaglio non proprio secondario) sono quasi sempre sbagliate. Anche rispetto all’uso della matematica le cose vanno in modo analogo, anzi, perfino peggiore, giacché, pur parlando molto anche di essa, Cartesio non la usa proprio mai, per la semplice ragione che per lui essa ha importanza non come strumento, bensì come modello del metodo del sapere. Qui il paradosso raggiunge l’apice, perché mentre Cartesio (diversamente da Galileo, che era un artigiano abilissimo) quanto a manualità era piuttosto imbranato, il che può almeno in parte spiegare la sua allergia per gli esperimenti, in matematica invece non temeva confronti: eppure nelle sue opere «scientifiche» non si trova neanche una formula.13
Infine, anche Cartesio rifiuta il principio di autorità, ma non perché sia inutile in quanto chiunque può imparare il suo metodo e usarlo per stabilire chi ha ragione, bensì perché è inapplicabile in quanto nessuno all’infuori di lui può capire davvero il suo metodo e quindi nessuno all’infuori di lui è in grado di stabilire chi ha ragione.
Quindi, come si vede, il metodo cartesiano non è semplicemente diverso e nemmeno soltanto incompatibile, ma letteralmente opposto, punto per punto, a quello galileiano, che non per niente Cartesio aveva esplicitamente criticato in una lettera all’amico Marin Mersenne, in cui, commentando il Dialogo sopra i due massimi sistemi, disapprovava il fatto che Galileo «senza aver considerato le prime cause della Natura, ha solamente cercato le ragioni di alcuni effetti particolari»14 e concludeva poi, dopo una lunga sequela di supponenti quanto infondate critiche, che in quell’opera «non c’è pressoché nulla che io vorrei avere per mio».15
Chiarito dunque che Cartesio non ha avuto alcun ruolo nella nascita della scienza, segue evidentemente che neppure la sua filosofia, cioè il razionalismo, ha nulla a che vedere con essa. Ha invece molto a che vedere con la nascita dello scientismo, anche se personalmente Cartesio non era affatto scientista, ma piuttosto (se esistesse la parola) «filosofista», in quanto, come abbiamo visto, per lui è la filosofia che ingloba al suo interno tutte le altre scienze.
Tuttavia Cartesio ha quanto meno preparato la strada allo scientismo, da un lato mantenendo ferma l’idea aristotelica che il metodo della conoscenza sia unico e dall’altro aggiungendovi di suo l’idea (che neanche al più fanatico degli aristotelici sarebbe mai venuta in mente) che attraverso tale metodo si potesse addirittura esaurire senza residui la realtà tutta.16 È chiaro infatti che, una volta accettate tali premesse, bastava che la scienza dimostrasse di essere una forma di conoscenza più efficiente della filosofia (cosa che entro i suoi limiti indubbiamente è) perché si facesse progressivamente irresistibile la tendenza a identificare tale metodo unico ed esaustivo della conoscenza con quello della scienza anziché con quello della filosofia.
Naturalmente la responsabilità di tale ulteriore passaggio è di chi l’ha compiuto e non di Cartesio. Tuttavia non può certo essere ritenuto un caso che a farlo siano stati ancora una volta non degli scienziati, ma due filosofi, David Hume (1711-1776) e Immanuel Kant (1724-1804), che di Cartesio condividevano il presupposto fondamentale.
Il dogma centrale della modernità
Il presupposto di cui sopra è quello che a partire da La scienza e l’idea di ragione ho cominciato a chiamare «il dogma centrale della modernità» e che può essere enunciato così: La ragione non può mai incontrare la verità dentro l’esperienza.
Proprio questa infatti è la base del razionalismo cartesiano, che non nacque, come in genere si dice, dalla fiducia nella ragione, bensì da una radicale sfiducia nell’esperienza, come si vede nel modo più chiaro da questo passo dei Principia Philosophiae, in cui Cartesio, dopo aver enunciato ben sette «regole» relative allo scontro fra corpi in differenti situazioni di moto,17 tutte e sette sbagliate e in alcuni casi anche manifestamente assurde,18 conclude la loro esposizione con questa tanto sconcertante quanto significativa affermazione: «E le dimostrazioni di tutto questo sono così certe, che anche se l’esperienza sembrasse farci vedere il contrario, noi dovremmo, nondimeno, prestare maggior fede alla nostra ragione che ai nostri sensi».19
Va notato peraltro che tale sfiducia è l’esito di una libera opzione e non di una necessità insita nelle cose stesse, come del resto Cartesio ha inequivocabilmente dichiarato fin dal suo testo programmatico, il Discours de la méthode: «Quindi, dato che i sensi a volte ci ingannano, volli supporre che nessuna cosa fosse tal quale ce la fanno immaginare».20
Da qui è derivato tutto il resto: la necessità per la ragione di fondarsi solo su se stessa, il partire dalle idee anziché dalla realtà, il dubbio sistematico, la necessità della ricerca di un «cominciamento assoluto» della filosofia e di conseguenza della scienza, la sua identificazione nel celeberrimo Cogito, il tentativo di dedurre da esso ogni cosa, compresa l’esistenza stessa del mondo, e infine, come conseguenza del suo inevitabile quanto notorio fallimento,21 l’irrimediabile frattura tra ragione e realtà, che poi si è riverberata a livello metafisico in quella tra spirito e materia, generando gli eccessi speculari e opposti dell’idealismo e dell’empirismo, e a livello psicologico in quella tra ragione e sentimento, vera e propria «malattia mortale» del nostro tempo.22
L’alba incompiuta del Rinascimento
Contrariamente a quanto generalmente si dice, dunque, nel Rinascimento non nacque affatto una nuova idea di ragione, il razionalismo, e una nuova cultura, la modernità, che avrebbero avuto, secondo questa lettura, un carattere univoco e in certo modo «fatale», in quanto intrinsecamente collegate alla nascita della scienza a opera di Galileo e Cartesio.
Al contrario, ciò che accadde realmente all’inizio del Seicento fu l’insorgere di una drammatica dicotomia tra due concezioni opposte della ragione e quindi della scienza e della nuova civiltà che da quest’ultima sarebbe stata plasmata, emblematicamente rappresentate dalle figure contrapposte di Galileo e Cartesio.
Il paradosso è che a prevalere a livello culturale, dando origine appunto a quella che chiamiamo «modernità», sia stata l’idea di ragione sbagliata, cioè quella «chiusa» di derivazione cartesiana, basata sul misconoscimento dell’autentico metodo scientifico e, più in generale, sul rifiuto aprioristico della realtà, dalla quale è derivato non solo il razionalismo, ma anche il relativismo, oggi di gran lunga dominante, che sembrerebbe il suo opposto, ma in effetti non è che il rovescio della stessa medaglia. Il relativismo moderno infatti, diversamente da quello antico, scaturisce essenzialmente dal rifiuto della concezione razionalista della verità, vista come causa di intolleranza e violenza, come tragicamente dimostrato dalle ideologie che hanno insanguinato il Novecento, che del razionalismo moderno sono figlie legittime, essendo tutte scaturite dall’idealismo tedesco e in particolare dalla filosofia hegeliana.
Il problema è che la sacrosanta reazione a tale fallimento non ha portato al ricupero di una nozione di verità basata sull’accordo tra ragione ed esperienza, bensì a un sospetto generalizzato verso la nozione di verità tout court. In altre parole, il relativista moderno è fondamentalmente un razionalista deluso, nel senso che non crede più nella possibilità che il razionalismo possa avere successo (ovvero che la ragione possa arrivare alla verità con le sole sue forze), però continua a condividerne il presupposto fondamentale (ovvero che la ragione non possa arrivare alla verità a partire dall’esperienza).
Per questo la scienza ha, oggi più che mai, una straordinaria importanza, non solo per la sua utilità pratica, non solo per le meraviglie che ci fa continuamente scoprire, ma anche e soprattutto perché rappresenta un fondamentale punto di resistenza non solo al relativismo nichilista, ma anche al razionalismo scientista: contro il primo, infatti, la scienza non ha paura di affermare che una conoscenza vera è possibile;23 contro il secondo rivendica, come cuore del metodo che solo può condurre a tale conoscenza vera, l’unità inscindibile tra ragione ed esperienza.24
Per questa stessa ragione è invece profondamente sbagliato, e, di più, pericoloso e autolesionista l’atteggiamento di molti filosofi che credono di trovare una facile scorciatoia contro le pretese dello scientismo nelle tesi relativiste e antirealiste tipiche della mainstream della filosofia della scienza contemporanea, senza rendersi conto che provengono dalla stessa idea ridotta di ragione che ha prodotto lo scientismo.
A tutti costoro va ripetuto l’ammonimento di Benedetto XVI, che già nel 1990, ancora semplice cardinale e ben prima del celebre discorso di Ratisbona, proprio parlando di queste tendenze epistemologiche in una conferenza all’Università ‘La Sapienza’ di Roma ebbe a dire: «Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande».25
Come ho qui cercato di mostrare, chiunque si accinga a questo compito, tanto difficile quanto inderogabile, non può che trovare in Galileo e nella scienza da lui fondata dei naturali e preziosissimi alleati.
Vai al sito del Simposio per le slide della Presentazione
Paolo Musso
(Università degli Studi dell’Insubria di Varese)
Note
S. Hawking, L. Mlodinow, Il grande disegno, Mondadori, Milano, 2010, p. 5.
La base concettuale di questo articolo è: Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, Mimesis, Milano 2011, a cui dunque rimando per qualsiasi approfondimento dei temi qui trattati.
Galileo Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, in Opere, Giunti Barbera, Firenze 1890-1909, vol. V, pp. 187-188.
Cfr. p. es. E. Agazzi, Filosofia della fisica, Abete, Roma 1974, pp. 9-10; S. Jaki, La strada della scienza e le vie verso Dio, Jaca Book, Milano 1981, p. 57; P. Hodgson, L’origine cristiana della scienza moderna, in P. Poupard (ed.), La nuova immagine del mondo, Piemme, Casale Monferrato 1996, pp. 60-61.
Ma può essere anche dimostrato formalmente, in base alla teoria del caos (cfr. Paolo Musso, Filosofia del caos, Franco Angeli, Milano 1997).
Cfr. Galileo Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena, in Opere (cit.), vol. V, pp. 282.
Cfr. Galileo Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, in Opere, Giunti Barbera, Firenze 1890-1909, vol. V, pp. 187-188.
Questa comunque non è solo una deduzione logica: vi sono diversi passi in cui Galileo afferma esplicitamente che egli intende parlare dell’essenza delle cose e non di mere apparenze o convenzioni linguistiche.
A. Einstein, L. Infeld, L’evoluzione della fisica, Boringhieri, Torino 1948, p. 19 (il corsivo è mio).
Al tempo infatti le leggi dell’ottica non erano ancora state definite correttamente: lo farà Keplero pochi mesi dopo, basandosi proprio sul cannocchiale di Galileo.
Galileo Galilei, Note per il Morino, in Opere, Giunti Barbera, Firenze 1890-1909, vol. VII, p. 565.
Cartesio, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, Laterza, Bari, 1986, vol. I, p. 332.
Tranne che nella Diottrica, dove però si limita a mettere in forma più moderna leggi già stabilite da altri. In effetti Cartesio non è stato solo un bravo matematico, ma (insieme a Fermat) il vero padre della matematica moderna: e la cosa più paradossale è che l’ansia di spacciarlo per ciò che non è mai stato finisce in genere per far passare sotto silenzio questa che è invece la sua vera gloria.
Ivi, p. 305.
Cartesio, Lettera a Marin Mersenne, in Galileo Galilei, Opere, Giunti Barbera, Firenze 1890-1909, vol. XV, p. 341.
Addirittura Cartesio pensava di essere in grado di scoprire da solo nell’arco della sua vita tutto ciò che al mondo si poteva scoprire e già nel 1637, a soli 41 anni, riteneva di aver compiuto circa i 2/3 dell’impresa (cfr. Cartesio, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1986, vol. I, p. 335). Al contrario, i due aspetti più caratteristici della scienza galileiana sono di essere per sua natura un’impresa aperta e comunitaria.
E non, come spesso erroneamente si dice, sette diverse formulazioni del principio di azione e reazione, a cui Cartesio non giunse mai e che fu invece enunciato per la prima volta da Newton: ancor prima del giudizio sulla sua correttezza, infatti, perché si possa parlare della stessa esistenza di qualcosa come un «principio» occorre che tutte le diverse fattispecie vengano ricondotte ad unità mostrando come, a dispetto delle apparenze, possano essere tutte spiegate in base ad un’unica legge, come farà appunto Newton e come invece non fece (e anzi nemmeno pensò di fare) Cartesio.
Si veda per esempio la quarta regola, da lui così enunciata: «Se il corpo C fosse, sia pure di poco, più grande di B, e fosse interamente in riposo, […] con qualunque velocità B potesse venire verso di lui, mai avrebbe la forza di muoverlo, ma sarebbe costretto a rimbalzare verso lo stesso lato donde fosse venuto» (Cartesio, I principi della filosofia, in Opere filosofiche, Laterza, Bari, vol. III, p. 99.
Cartesio, I principi della filosofia, in Opere filosofiche, Laterza, Bari, vol. III, p. 102.
Cartesio, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, Laterza, Bari, vol. I, p. 312 (corsivi miei).
Neanche i più entusiasti ammiratori di Cartesio si sono infatti mai sognati di negare che il suo tentativo di dedurre l’esistenza del mondo dal Cogito cada in un circolo vizioso. La domanda, semmai, è perché ciononostante non lo ritengano un motivo sufficiente per mettere in discussione i presupposti di fondo della sua filosofia, dato che non è precisamente un problema secondario.
Questa è anche l’obiezione di fondo che la modernità, da Kant in poi, ha sempre mosso al cristianesimo: che un fatto storico particolare, come quello di Gesù Cristo, non può fondare una verità universale, come quella di una fede religiosa (dopodiché il razionalista crede che una religione universale possa essere fondata attraverso la pura ragione, il relativista pensa di no e che in materia possono esistere solo opinioni soggettive, ma, ancora una volta, il punto di partenza è comune). La cosa è ancor più significativa se si pensa che Cartesio era un cristiano convinto e intendeva con la sua opera rafforzare sia la filosofia che la teologia: ma una concezione ridotta della ragione non può che finire col ridurre anche la fede, giacché sia il «libro» della Natura che quello della Rivelazione (Galileo docet) sono opera dello stesso artefice.
Un po’ più di paura c’è invece, anche tra gli scienziati, ad affermare la possibilità di una conoscenza certa. Ma in realtà qualsiasi ricupero della nozione di verità implica inevitabilmente anche un ricupero della nozione di certezza (cfr. Paolo Musso, Il coraggio della certezza, in Emmeciquadro n° 51 – Dicembre 2013).
Questo vale anche e anzi addirittura soprattutto per la tecnologia: infatti qualsiasi apparato tecnologico prima di poter modificare la realtà deve saperle ubbidire, altrimenti semplicemente non funzionerà. Che poi il messaggio implicito contenuto in questo dato di fatto (che cioè noi non siamo i padroni e tantomeno gli artefici della realtà) venga spesso dimenticato e in conseguenza di ciò la tecnologia venga spesso usata come strumento di dominio e di disumanizzazione è vero, ma è un altro discorso, che non cancella il dato di fatto di cui sopra, così come non cancella un altro innegabile dato di fatto, cioè che almeno altrettanto spesso la tecnologia viene usata invece per migliorare la realtà (cfr. Paolo Musso, Chi ha paura della tecnica? Risposta a Olivier Rey, in Emmeciquadro n° 54 – Settembre 2014).
J. Ratzinger, Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti, Edizioni Paoline, Roma, 1992, p. 79.
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