I risultati acquisiti in circa due secoli di ricerca scientifica consentono di affermare che la materia è formata da costituenti elementari i quali, a seconda dello specifico sistema considerato, sono aggregati molecolari o semplici atomi.
L’idea della struttura discreta e corpuscolare della materia è stata, in effetti, intuita in epoca pre-scientifica, come dimostrano i risultati della scuola filosofica fondata da Democrito (470-360 a.C.), ma solo con l’affermarsi delle discipline chimiche e fisiche, e dello sviluppo tecnologico che esse hanno prodotto, ha assunto la veste di verità scientifica. Al giorno d’oggi, infatti, esistono innumerevoli e convincenti verifiche sperimentali di questo fatto.
Si pensi, per esempio, agli esperimenti di diffusione di raggi X o di neutroni termici da parte di cristalli; oppure, alle misure dirette del posizionamento spaziale degli atomi in un solido fornita dalle microscopie elettroniche o a forza atomica (come illustrato nell’immagine a lato (o che segue). A esse si affianca un formidabile edificio teorico (la meccanica quantisica) che consente la loro esatta interpretazione o, addirittura, la predizione di fenomeni non ancora osservati.
Il contesto generale e il paradigma materials by design
L’acquisizione di questa nozione fondamentale non si è limitata a essere un (importante) traguardo culturale, ma ha anche comportato una rivoluzione concettuale sul come utilizzare i materiali per applicazioni di interesse pratico. Abbiamo, infatti, tanto imparato a comprendere l’origine microscopica dei fenomeni osservabili (con i sensi o con strumentazione) a partire dalla struttura atomica della materia, quanto a manipolarla a livello dei suoi costituenti elementari per ottenere nuovi materiali con proprietà inusuali (se confrontate con quelle osservate in materiali naturali) o, addirittura, progettate ad hoc per specifiche utilità.
Questa capacità tecnologica si concretizza proprio alla scala spaziale che caratterizza la disposizione degli atomi nella materia. Per aggregati atomici di dimensione tipica fino a pochi nanometri (corrispondente a un miliardesimo di metro – nanometro; per dare un’idea: un capello umano ha lo spessore di 80.000 nanomentri!) parliamo usualmente di molecole che, eventualmente, diventano macromolecole (come i polimeri organici o le molecole della vita, quali gli acidi nucleici) se raggiungono la dimensione di una decina di nanometri. Questo è il regno della (bio)chimica.
Aumentando la quantità di materia aggregata si entra invece nel regno della fisica e i corrispondenti sistemi possono opportunamente essere classificati come nano- o micro-materiali, a seconda che la dimensione spaziale caratterizzante si collochi, rispettivamente, nell’intervallo del centinaio o del migliaio di nanometri. A questo livello la fisica è dominata da fenomeni tipicamente quantistici.
La realizzazione di nuovi nanomateriali segue usualmente due diversi approcci: quello bottom-up (tipico della chimica, in cui il sistema di interesse è formato assemblando in modo opportuno e una dopo l’altra le molecole selezionate), oppure quello top-down (tipico della fisica, consistente nel frazionare progressivamente la materia fino a raggiungere la scala spaziale desiderata). Seguendo l’uno o l’altro metodo è possibile costruire in modo controllato e riproducibile un aggregato la cui specifica struttura atomica comporti, in modo predicibile, caratteristiche ottimali per l’utilità considerata. Questo paradigma è noto come materials by design e pervade ogni aspetto delle moderne nanotecnologie, per qualsivoglia ambito applicativo.
Nel seguito discuterò brevemente due recenti realizzazioni del paradigma materials by design in diversi ambiti applicativi (la produzione di energia e la nanotecnologia per l’informazione), cercando di sottolineare il concetto-chiave, ovvero: la realizzazione ad hoc di un nuovo nanomateriale con caratteristiche fisiche inusuali e specificatamente progettate per uno scopo altrimenti non raggiungibile con l’uso di materiali ordinari.
Semiconduttori nanostrutturati per applicazioni energetiche
Viviamo in una società estremamente energivora che consuma combustibili fossili a ritmo accelerato, con gravi ripercussioni ambientali e depauperamento delle risorse naturali non rinnovabili.
Alla presa di coscienza che, sotto il profilo strettamente energetico, non è più possibile programmare il nostro futuro assumendo lo schema concettuale della «crescita illimitata», la nostra società sta rispondendo (invero, non sempre linearmente e non sempre con la necessaria decisione o tempestività) in termini di una chiamata generale alla riduzione dei consumi (ove possibile), di un serio sforzo tecnologico volto all’ottimizzazione degli attuali sistemi di produzione e di una massiccia ricerca di metodi alternativi per la produzione energetica.
Quest’ultima sfida è, significativamente, stata fatta propria dalla Unione Europea che ha deciso di dedicarvi ingenti risorse finanziarie nell’ambito del progetto comunitario Horizon 2020.
Tra le innumerevoli strategie di approvvigionamento energetico alternativo alla combustione fossile attualmente allo studio vi è quella della co-produzione che, sfruttando fonti non convenzionali, si propone di alimentare in modo diffuso e puntuale una miriade di utilità (cioè di dispositivi) che richiedono energia elettrica per poter funzionare.
Un esempio significativo è quello della green electronics dove, anziché sfruttare una presa di corrente o una pila interna per alimentare un dispositivo, si preleva energia dall’ambiente (tipicamente in forma di conversione fotovoltaica). Un altro esempio di co-produzione è quello della conversione termoelettrica, che utilizzerò per illustrare nel seguito quanto il paradigma del materials by design possa essere al contempo innovativo e vincente: in questo caso viene sfruttata una forma «degradata» di energia (quale il calore ambientale o quello dei gas di scarico) per produrre corrente elettrica, da sfruttare nelle servitù.
Questa potenzialità applicativa è di grande interesse nell’industria automobilistica, dove un obiettivo su cui si sta concentrando la ricerca tecnologica è quello di convertire gran parte del calore dei gas che transitano nella marmitta (e normalmente disperso nell’ambiente senza utilizzazione) in energia elettrica per alimentare tutto ciò che caratterizza un’auto moderna: computer di bordo, impianto radio e stereo, comunicazione bluetooth e satellitari, sistemi di sicurezza attivi e quant’altro. Su scala decisamente più grande lo stesso principio potrebbe essere applicato per sfruttare il calore dei fumi di emissione di un grosso impianto industriale, con significativo recupero di energia.
La conversione di calore in energia elettrica è possibile grazie al fenomeno della termoelettricità, per la prima volta descritto scientificamente da Alessandro Volta (1745-1827) in una sua memoria di inizio 1794: mantenendo a temperature diverse due regioni di un circuito chiuso (senza alimentazione!) realizzato con materiale opportuno, si osserva il passaggio di corrente elettrica. Nell’immagine che segue, viene rappresentato lo schema concettuale che descrive il fenomeno.
L’efficienza del fenomeno di conversione è riassunta in una quantità adimensionale che dipende dal rapporto tra la conducibilità elettrica e la conducibilità termica del materiale utilizzato per il circuito. Dunque, per avere un’alta efficienza di trasformazione di calore in energia elettrica è necessario avere un materiale che sia un eccellente conduttore di elettricità, ma un pessimo conduttore termico. Sfortunatamente, ragioni di fisica fondamentale impongono che un tale materiale naturale non sia disponibile, come riassunto dalla legge di Wiedemann-Franz (1853): un metallo (per esempio, il rame) è notoriamente un buon conduttore di elettricità e di calore, così come un isolante elettrico (per esempio, la ceramica) trasporta anche il calore in modo modesto.
La conseguenza di questi fatti è che l’uso del fenomeno della termoelettricità è stato sinora in gran parte limitato ad applicazioni di nicchia, per le quali i fattori economici e di praticità non sono fattori chiave, basate sull’impiego di specie chimiche rare, costose e prodotte in paesi instabili sotto il profilo geopolitico. Per poter superare i limiti naturali è dunque necessario seguire una via nuova, quella appunto del materials by design, che consenta di progettare su scala atomica una nuova classe di materiali con caratteristiche tali da incrementare al massimo la loro efficienza termoelettrica.
Il punto di partenza è riconoscere che una corrente, elettrica o di calore, vista alla nanoscala altro non è che un flusso di portatori microscopici: elettroni o fononi, rispettivamente. Mentre i primi sono entità corpuscolari ben note, i fononi sono pseudo-particelle (non hanno massa!) che descrivono, nel linguaggio della fisica moderna, il complesso delle oscillazioni degli atomi costituenti la materia, attorno alle proprie posizioni di equilibrio.
Un oggetto caldo contiene un numero di fononi maggiore di quando è freddo. Per di più, aumentando la temperatura, la popolazione di fononi ad alta energia diventa dominante su quella dei fononi meno energetici. Stante l’esistenza di questa doppia famiglia di portatori, possiamo avvalerci di una semplice similitudine idrodinamica al fine di comprendere la natura fisica fondamentale della corrente elettrica e termica: per fare scorrere un liquido (non troppo viscoso) dentro a un condotto basta portare gli estremi del condotto ad altezze diverse.
In termini fisici: la differenza di potenziale gravitazionale ai capi del condotto genera una corrente idrodinamica, i cui portatori microscopici sono le molecole costituenti il liquido. Parimenti, osserveremo un flusso di elettroni o di fononi quando, rispettivamente, i valori del potenziale elettrostatico o della temperatura ai capi di un materiale conduttore sono mantenuti a valori diversi. Nel primo caso diremo che la tensione elettrica applicata genera quel fenomeno di scorrimento degli elettroni che chiamiamo corrente elettrica. Nel secondo caso, la differenza di temperatura provocherà il flusso dei fononi (dal punto più caldo a quello più freddo) che chiamiamo corrente termica.
Lo scorrimento di una corrente è sempre accompagnato da fenomeni resistivi. Nel caso paradigmatico della corrente idrodinamica, essi sono dovuti alla viscosità di scorrimento del liquido contro se stesso e contro le pareti. Per gli elettroni, la resistenza è dovuta ai loro continui urti contro gli atomi che formano il materiale conduttore o contro difetti strutturali. È un risultato ben acquisito di fisica dello stato solido il calcolo del libero cammino medio elettronico, ovvero della distanza media che un elettrone compie tra due urti successivi: per i materiali semiconduttori di cui parleremo nel seguito esso è di soli pochi nanometri in condizioni ordinarie. Per i fononi, invece, il libero cammino medio (limitato dai fenomeni di anarmonicità delle vibrazioni e dalla presenza di difetti strutturali nel reticolo atomico) è decisamente maggiore, potendo raggiungere nei casi di nostro interesse anche la scala micrometrica.
Il quadro delineato suggerisce finalmente una possibile soluzione al nostro problema: potremmo massimizzare l’efficienza di conversione termoelettrica di un semiconduttore del gruppo IV (silicio, germanio o loro leghe binarie) se riuscissimo a realizzare ostacoli che limitino il libero cammino medio dei fononi, senza alterare significativamente quello degli elettroni. In gergo tecnico, ciò equivarrebbe a progettare un «isolante fononico» che sia però al contempo un «conduttore elettronico». Tali ostacoli devono essere ospitati nel reticolo cristallino, in modo da massimizzare i fenomeni resistivi che agiscono contro la corrente dei fononi. Questa è la soluzione materials by design da implementare!
Farlo è relativamente semplice, grazie alle nanotecnologie di cui disponiamo al giorno d’oggi: sostanzialmente, si tratta di ridurre, tramite nanofrantumazione meccanica, un campione di materiale in una polvere di cristalliti di dimensioni opportunamente piccole. Per sinterizzazione (cioè: per compattazione ad alta temperatura) si provvede successivamente a riaggregare la polvere in un nuovo materiale indivisibile che possegga la stessa composizione chimica dell’originale e, al contempo, una struttura alla nanoscala caratterizzata da una rete densa di bordi di grano (corrispondenti ai confini geometrici tra i cristalliti sinterizzati) che si sovrappone alla struttura atomica sottostante.
Nell’immagine che segue sono rappresentati tre diversi campioni di una lega di silicio e germanio (materiale con le ottimali proprietà di conduzione elettrica) ottenuti dal procedimento indicato. È interessante notare che, a seconda dei dettagli di processo, la rete dei bordi di grano corrisponde a una granulometria (cioè a una dimensione media dei cristalliti) variabile. Il punto chiave è che tale granulometria non rappresenta una caratteristica fisica intrinseca della lega, assegnata una volta per tutte dalla Natura, ma piuttosto un parametro strutturale totalmente ingegnerizzabile allo scopo.
La rete dei bordi di grano è chiaramente distinguibile e costituisce un formidabile ostacolo resistivo al flusso di fononi. Queste leghe nanostrutturate sono, dunque, degli isolanti termici eccezionalmente
La rete dei bordi di grano rappresenta proprio quella serie di ostacoli resistivi al flusso di fononi che cercavamo per minimizzare la corrente termica. Se il processo di frantumazione-sinterizzazione viene condotto in modo tale da generare cristalliti con dimensioni medie maggiori del libero cammino medio elettronico, ma decisamente inferiori a quello fononico, è stato realizzato un eccellente «isolante termico», senza aver diminuito significativamente le sue proprietà di conduzione elettrica.
Questo risultato è stato effettivamente osservato in laboratorio e pienamente compreso a livello teorico: la conducibilità termica è stata diminuita di un fattore 2, corrispondente a un raddoppio netto dell’efficienza del processo di conversione termoelettrica.
In conclusione, possiamo affermare che la progettazione materials by design ha consentito di progettare e realizzare una nuova classe di nanomateriali (le leghe nanostrutturate di silicio e germanio) che, a costi di produzione compatibili con le commercializzazioni di grande scala, offrono una efficienza di conversione termoelettrica nettamente superiore a quella dei corrispondenti materiali naturali.
Grafene: un foglio atomico bidimensionale dalle proprietà strabilianti
Il carbonio è un elemento caratterizzato dalla sua allotropia, ovvero dalla capacità di formare strutture di legame molto diverse. Questa flessibilità, dovuta alla speciale chimica del processo di ibridizzazione dei suoi orbitali elettronici di valenza, rende il carbonio capace di realizzare strutture mono-, bi- e tri-dimensionali, corrispondenti a molecole polimeriche, strutture «tipo grafene» e diamante.
La famiglia «tipo grafene» è particolarmente numerosa e, come illustrato schematicamente nell’immagine che segue, consta di strutture generate da un foglio atomico bidimensionale, sul quale gli atomi sono disposti in anelli esagonali: il grafene, appunto.
Il grafene, se ripiegato su se stesso, forma un nanotubo (in alto a sinistra). L’impilamento di diversi piani di grafene forma la grafite (in basso al centro), mentre l’aggiunta di un congruo numero di anelli pentagonali consente di formare una molecola chiusa e cava nota come fullerene (in basso a destra).
Per confronto in basso a sinistra viene rappresentato il diamante dove gli atomi hanno ibridizzazione sp3 e distribuzione tridimensionale.
Il grafene viene al giorno d’oggi prodotto sia per sintesi chimica, sia per esfoliazione meccanica della grafite. Questa procedura ha, in particolare, meritato ai suoi ideatori Andre Geim (1958-…) e Konstantin Novoselov (1974-…) il premio Nobel 2010 per la fisica perché, consentendone la produzione facile e massiccia, ha aperto l’uso del grafene alle applicazioni industriali di grande scala.
Il grafene possiede alcune proprietà fisiche straordinarie: pur essendo flessibile, ha una resistenza meccanica alla rottura superiore a quella dei migliori acciai prodotti dall’Uomo, proprietà che risulta utile per l’utilizzo in ingegneria strutturale come elemento rinforzante; è un eccellente conduttore di elettricità e possiede particolarissime proprietà magnetiche che lo rendono un materiale molto promettente per la nano- e la spin-elettronica, ovvero per le due più moderne tecnologie per l’informazione; infine, conduce il calore in modo estremamente efficiente, il che lo candida a svolgere un importante ruolo come materiale per applicazioni energetiche.
Qui discuteremo l’applicazione del paradigma materials by design al grafene per farne un efficiente dissipatore di calore per dispositivi elettronici ad alta integrazione di ultima generazione.
L’aumento della potenza informatica è stato fino a oggi ben riassunto dalla legge empirica enunciata da Gordon Moore (1929-…) nel 1965: il numero di transistor presenti in un chip raddoppia ogni 18 mesi. Questa crescita, che costituisce la base dell’esplosivo aumento di capacità degli elaboratori elettronici, non ha dato significativi segni di rallentamento per parecchi decenni. Di recente, tuttavia, la densità di transistor ha raggiunto livelli tali da rendere eccessiva la produzione di calore nel cuore dei chip; questo eccesso altera in maniera grave il budget termico del dispositivo e, pertanto, rappresenta una delle problematiche tecnologiche più critiche, tale da porre in dubbio il proseguimento ininterrotto lungo la linea di sviluppo definita dalla legge di Moore.
Un transistor è un dispositivo che ospita (e governa) il passaggio di correnti elettriche che, per ineliminabili motivi di fisica fondamentale, è sempre accompagnato dalla produzione di calore. Questo effetto (noto come effetto Joule) è quantificato da una semplice relazione: ogni elemento circuitale attraversato da corrente dissipa in calore una potenza data dal prodotto dell’intensità di corrente e della tensione elettrica di funzionamento.
Sebbene la ricerca ingegneristica abbia consentito di diminuire significativamente la tensione di esercizio dei moderni chip, la corrente che complessivamente circola in un numero sempre crescente di transistor procura nondimeno una produzione di calore sempre più elevata, al punto da rendere potenzialmente non operativo il dispositivo stesso.
Occorre, dunque, individuare strategie innovative per prelevare il calore in eccesso generato nel cuore di ogni chip e portarlo in zone remote, dove possa essere opportunamente dissipato senza danno.
Un’idea interessante, recentemente presentata nella letteratura scientifica e subito accolta con grande interesse, consiste nell’ipotesi di utilizzo del grafene per costruire una «pista unidirezionale di calore».
Se fosse possibile realizzare questo stratagemma, potremmo immaginare di collegare ogni chip a un dissipatore remoto mediante un tale nanonastro che a sua volta, grazie alla caratteristica di unidirezionalità, agirebbe unicamente come estrattore di calore (senza, cioè prestarsi al trasporto in direzione inversa di calore proveniente dalle regioni circostanti). Il paradigma materials by design offre gli strumenti concettuali e pratici per realizzare questa ipotesi.
Innanzitutto, è stato calcolato che la buona capacità del grafene di condurre calore viene drasticamente ridotta sottoponendo il materiale a opportuna funzionalizzazione (cioè mediante opportuna modifica chimica). In particolare, è stato predetto teoricamente che decorando il foglio atomico bidimensionale con atomi di idrogeno (in proporzione di 1:1 con gli atomi di carbonio) la conducibilità termica viene ridotta di circa un fattore mille. Quindi, il grafene naturale e la sua forma idrogenata (nota come grafano) rappresentano gli opposti casi di un buon conduttore e di un buon isolante termico. Rimane, tuttavia, inalterata l’architettura atomica di base, sempre consistente in un reticolo esagonale (si veda l’immagine precedente); è pertanto possibile ipotizzare la realizzazione di strutture ibride, formate dalle due suddette forme isomeriche.
Passando dalla predizione teorica alla realizzazione pratica, mediante l’impiego di tecniche di nanofabbricazione si può ritagliare da un foglio di grafene un nastro di lunghezza grande a piacere, ma di dimensione trasversale tale da accomodarsi agevolmente su un dispositivo nanometrico (tipicamente: il chip che dobbiamo raffreddare). Lungo tale nanonastro il calore è trasportato con grande efficienza nelle due direzioni grazie alle suddette eccellenti proprietà intrinseche del grafene. Al fine di implementare la funzione di trasporto unidirezionale necessaria basterebbe però funzionalizzare il nanonastro depositando in modo controllato atomi di idrogeno in regioni prestabilite. In questo modo si realizza una struttura ibrida grafene/grafano la cui sezione utile per il trasporto di calore viene sagomata in modo opportuno da favorire il flusso di fononi preferenzialmente lungo una sola direzione.
Nell’immagine che segue, a sinistra viene visualizzata (vista dall’alto) una possibile struttura ibrida grafene/grafano con sezione sagomata «a imbuto», mentre a destra viene riportato il calcolo teorico che predice il flusso termico (corrente di calore) al suo interno, per una specifica condizione di termalizzazione: sorgente calda a sinistra e sorgente fredda a destra. È immediato realizzare che la regione funzionalizzata con idrogeno è in buona sostanza esclusa dal trasporto termico.
A destra: rappresentazione pittorica del flusso termico (frecce nere) predetto teoricamente per la condizione di termalizzazione che vede una sorgente calda in corrispondenza della sezione maggiore del canale di flusso.
Il codice a colore rappresenta l’intensità del vettore corrente termica: in giallo i valori più elevati, in viola i valori più bassi.
La struttura rappresentata nell’immagine precedente equivale a un «diodo termico», ovvero a un dispositivo fononico raddrizzatore di corrente di calore. Stante, infatti, la speciale sagomatura adottata, invertire il segno del gradiente di temperatura (cioè il verso lungo il quale la temperatura aumenta) provoca una significativa variazione della intensità della corrente termica. Più precisamente: si dimostra che quando il «diodo termico» è termalizzato in modo tale che la sezione più ampia del canale di trasporto è collegata a una regione a bassa temperatura, allora fluisce una minore corrente di calore che nel caso visualizzato in figura.
In conclusione, dunque, sistemando un tale diodo in modo acconcio sul chip si ottiene, tramite trasporto unidirezionale, una efficiente estrazione di calore dal dispositivo elettronico (zona calda) alla regione remota di dissipazione (zona fredda).
Ancora una volta, dunque, seguendo l’approccio materials by design abbiamo sfruttato proprietà fisiche fondamentali, sviluppando alla nanoscala delle funzionalità basate su fenomeni inusuali.
Vai al sito del Simposio per le slide della Presentazione
Luciano Colombo
(Dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Cagliari)