Non si dà l’umano senza la tecnica: non a caso, infatti, i paleo-antropologi riconoscono la presenza di Homo dal ritrovamento accanto ai resti ossei di ominidi, di «ciottoli lavorati», strumenti tecnologici utilizzati dai nostri più antichi progenitori. Ma se la natura umana è una natura tecnologica, la narrazione degli «artefatti» generati dall’uomo ci permetterà di cogliere alcuni degli elementi distintivi dell’identità umana.
In particolare la storia della produzione di cibo, dalla domesticazione delle piante agli organismi geneticamente modificati (OGM) di oggi, è la storia di una serie continua di innovazioni tecnologiche che hanno accompagnato e in gran parte permesso l’incremento demografico della specie umana.
Noi uomini moderni (Homo sapiens) siamo una specie giovanissima che fa la sua comparsa intorno a 200.000 anni fa nelle savane dell’Africa occidentale; una specie profondamente omogenea dal punto di vista evolutivo che ha iniziato il suo cammino e da lì si è diffusa in poco più di 60.000 anni in tutti i continenti del pianeta.
Per decine di migliaia di anni siamo vissuti in piccoli gruppi di nomadi dediti alla caccia e alla raccolta di frutti, semi, bacche, radici che crescevano spontaneamente. Ogni giorno si doveva uscire dai rifugi notturni alla ricerca di cibo e continuamente spostarsi per trovare nuovi territori dove trovare il cibo, anche perché le possibilità di immagazzinare le risorse alimentari erano molto scarse.
Il clima poi era molto ostile e la glaciazione (Würm) per più di 50.000 anni aveva coperto gran parte della terra di ghiacci. Circa 19.000 anni fa però la temperatura, cominciava a risalire, i ghiacci si ritiravano e ampie aree si stavano ricoprendo di vegetazione. Si aprivano nuovi territori da esplorare e nuove possibili risorse di cibo: particolarmente ricercati erano i semi delle piante erbacee perché ricchi di amido e proteine, facilmente conservabili e trasportabili.
È proprio in questo periodo (tra 12.000 e 9.000 anni fa), indipendentemente e in diverse regioni del globo, dal Vicino Oriente, alla Cina, all’America centrale e meridionale, all’Africa, che piccoli gruppi di nostri antenati da cacciatori-raccoglitori diventano agricoltori.
L’invenzione dell’agricoltura è all’origine di una grande rivoluzione, la rivoluzione neolitica: dal nomadismo si passa alla stanzialità, si ottengono più abbondanti e stabili fonti di cibo, si creano nuovi utensili, nuovi stili di vita, una nuova cultura, nasce il villaggio e inizia la storia.
Cacciatori-raccoglitori diventano agricoltori
L’inizio dell’agricoltura dipende da due fattori fondamentali: la disponibilità di piante «domesticate», cioè adatte alla coltivazione e alla preparazione del cibo e la «cultura della coltivazione».
Coltivazione e domesticazione delle piante non sono la stessa cosa: la coltivazione richiede la consapevole preparazione del terreno, la semina, l’irrigazione, l’eliminazione delle infestanti, il raccolto. È una attività che richiede quindi conoscenze e tecnologie che nell’insieme costituiscono una cultura completamente diversa da quella dei cacciatori-raccoglitori.
La domesticazione invece è il processo di scelta (selezione su base morfologica) di quei caratteri presenti, ma rari, nelle popolazioni di piante selvatiche che trasformano i «selvatici» in «domestici». Le piante selvatiche inizialmente raccolte dai nostri antenati non erano, infatti, per nulla adatte alla coltivazione.
Nell’ambiente naturale le piante provvedono alla loro propagazione lasciando cadere a terra spontaneamente i semi a maturità. Se i semi restano sulla spiga o nel baccello e non cadono a terra non è possibile la successiva germinazione. Inoltre i semi devono essere dispersi nell’ambiente in modo da colonizzare aree distanti dalla pianta madre, altrimenti nella stagione successiva crescerebbero tante piantine talmente addensate una all’altra che si ostacolerebbero impedendo lo sviluppo. Infine non è detto che la stagione successiva sia una stagione favorevole alla crescita delle nuove piante: una stagione fredda o molto piovosa, o molto secca potrebbe essere fatale per la crescita.
È opportuno allora che i semi prodotti, una volta caduti a terra e dispersi nell’ambiente, non germinino tutti nello stesso tempo e magari restino dormienti fino all’anno successivo. Molto meglio una germinazione scalare, scaglionata nel tempo: se i primi semi che germinano incontrano una stagione sfavorevole non è grave, essi moriranno, ma altri semi che germinano più avanti nella stagione possono essere più fortunati e di conseguenza la sopravvivenza della pianta (e della specie) è assicurata.
Tutti questi caratteri dipendono dall’azione di specifici geni presenti nel patrimonio genetico, cioè nel DNA, di ogni pianta.
Nel frumento per esempio il gene brittle rachis fa sì che a maturità l’asse (rachide) sul quale sono inseriti i semi nella spiga si spezzi in corrispondenza di ogni seme e di conseguenza i semi cadono a terra.
Inoltre i semi possiedono sulla cima una lunga appendice zigrinata, l’arista, che ne facilita la dispersione (tutti ricordiamo i semi che si attaccano alle calze quando camminiamo in un prato) e infine ogni seme è ricoperto da tessuti più o meno duri (le glume e le glumelle) che lo proteggono dall’attacco dei predatori. Anche questi caratteri (presenza/assenza delle ariste, seme vestito/seme nudo, seme dormiente/non dormiente) sono geneticamente determinati e, quindi, di tanto in tanto vanno incontro a mutazioni spontanee che li rendono inattivi.
Queste mutazioni sono molto svantaggiose per le piante perché le privano di caratteristiche importanti per la sopravvivenza allo stato selvatico, ma d’altro canto sono molto interessanti per dei raccoglitori. Cosa c’è di meglio che trovare spighe mature con ancora i semi attaccati al rachide, semi non ricoperti da glume che possono essere subito macinati piuttosto che sbucciati uno a uno, semi che messi in terra prontamente germinano.
È qui che si instaura il «dialogo» sui generis tra uomo e natura: le mutazioni sono fatti naturali, che avvengono spontaneamente modificando i caratteri delle piante, generalmente con effetti negativi sulla pianta stessa; ma il nostro antenato, raccoglitore sistematico che esplora quotidianamente il suo territorio, le nota e ne comprende il valore.
Sono piante preziose, potrebbero facilitare di molto la raccolta del cibo e vale la pena raccogliere quei semi che non cadono dalla spiga, conservarli e seminarli nella stagione successiva e curare le piantine per vedere se questi caratteri si mantengono, cioè se la mutazione viene conservata anche nelle generazioni successive.
Si generano quindi piante «domestiche» che da una parte soddisfano i nostri desideri, ma dall’altra parte perdono la loro capacità di sopravvivere allo stato naturale: diventano cioè totalmente dipendenti dall’uomo per la loro sopravvivenza. È la cosiddetta «sindrome di domesticazione» che si ritrova fondamentalmente identica nella gran parte delle piante coltivate.
Ha inizio quindi un doppio processo: la domesticazione, cioè la scelta da parte dell’uomo di quei mutanti spontanei con caratteristiche per lui favorevoli e la coltivazione che implica la conservazione del seme, la preparazione del terreno, la raccolta, cioè un preciso progetto culturale e tecnologico.
[A sinistra: A destra riso selvatico che, a maturità, perde i semi; a sinistra, riso domestico che trattiene i semi sulla spiga]
E così, solo per citare le specie più importanti, in Cina tra le valli del Fiume Giallo e dello Yangtse si è domesticato il riso, la soia, la melanzana, la canapa; nell’Africa subsahariana il sorgo, il miglio e il riso africano, le arachidi, l’igname, il cotone; nella Nuova Guinea la banana, la canna da zucchero e il taro (una pianta dai tuberi commestibili); nelle Americhe il mais, i fagioli, le zucche, le patate, i pomodori, il girasole.
E nella Mezzaluna Fertile, l’area nel Medio Oriente che forma un arco che sale verso nord da Israele attraverso la Siria fino alla Turchia e poi scende verso l’Iraq e l’Iran, racchiusa dal Mar Mediterraneo a Ovest, dai monti Zagros a Est e dalla catena del Tauro a Nord che ci riguarda più da vicino; questa è la patria di origine dei cosiddetti sette fondatori: frumento, orzo, avena, piselli, fave, lenticchie, ceci che, insieme all’olivo, alla vite e al lino, sono stati alla base delle grandi civiltà antiche, i Sumeri, gli Egizi, gli Assiro-Babilonesi, i Persiani, i Greci e i Romani.
La selezione massale
«….portasene a tempi nostri d’un’altra specie in Italia, le quali si chiamano pomi d’oro.» (Pietro Mattioli, Herbarius 1544).
La regione di origine del pomodoro è nelle Ande peruviane, dove vivono specie selvatiche strettamente affini al pomodoro coltivato.
Le bacche dei pomodori selvatici sono piccole, pesano meno di un grammo e sono facilmente preda di uccelli che ne disperdono i semi. I pomodori di oggi invece sono grossi e possono pesare anche centinaia di grammi.
Questa variabilità dipende da due fattori: un fattore ambientale (casualmente la pianta più produttiva si è trovata in una zona di campo più fertile o meglio esposta al sole e viceversa per la pianta meno produttiva); un fattore genetico, cioè la maggiore produttività è dovuta alla presenza di un migliore corredo genetico.
La differenza fondamentale sta nel fatto che solo la variabilità dovuta alla componente genetica è trasmessa alla progenie per cui i semi che provengono da piante «geneticamente migliori» daranno origine a loro volta piante più vigorose e produttive. È ovvio che i nostri antenati non potevano distinguere la componente ambientale da quella genetica, ma tenendo da parte per la semina successiva i semi provenienti dalle spighe più grosse, aumentavano la probabilità che l’incremento produttivo fosse dovuto ai fattori genetici.
È stata quindi una continua selezione da parte dell’uomo per piante più vigorose, più produttive, più resistenti ai fattori avversi, selezione inconsapevole dei fondamenti biologici alla base dei caratteri selezionati, ma perfettamente razionale dal punto di vista operativo, che ha portato nel corso degli anni agli incrementi produttivi delle piante coltivate.
Un’altra rivoluzione: la genetica mendeliana
L’8 febbraio e l’8 marzo del 1865, in due sedute successive della Società di Storia Naturale di Brünn (oggi Brno, capitale della Moravia, nella repubblica Ceca), l’abate agostiniano Gregor Mendel (1822-1884) presentava i risultati dei suoi esperimenti di fecondazione artificiale sulle piante di pisello (Pisum sativum), pubblicati poi nel 1866 negli Atti della Società con il titolo Esperimenti sugli ibridi vegetali.
Sulla base dei suoi dati, Mendel formulava un’idea innovativa, quella che l’ereditarietà fosse un fenomeno «particellare», dovuto all’azione di fattori specifici (che chiama elementen e che solo successivamente saranno chiamati geni) presenti nei genitori e trasmessi come unità distinte e indipendenti che si riassortiscono di generazione in generazione secondo regole ben precise.
Un’idea azzardata per le concezioni del tempo, quando il modello generalmente accettato era quello di ereditarietà per rimescolamento di un’entità unitaria (il pangene) presente nei genitori. Della pubblicazione furono spedite in Europa 120 copie che giunsero ai maggiori biologi di allora, ma nessuno si accorse dell’importanza rivoluzionaria di questo lavoro.
Si dovette arrivare al 1900 prima che le conclusioni di Mendel fossero riscoperte dai botanici e fisiologi vegetali Hugo de Vries (1848-1935), Carl E. Correns (1864-1933) ed Erich von Tschermack (1871-1962) sulla base dei loro studi sulla ereditarietà dei caratteri nella Oenothera lamarckiana, nel mais e, ancora, nei piselli.
Gli esperimenti di Mendel ebbero un’importanza fondamentale per le tecnologie impiegate nel miglioramento genetico delle piante coltivate. Infatti il classico esperimento di Mendel dell’incrocio tra piante di pisello che si differenziavano per due caratteri (piselli gialli lisci x verdi rugosi) dimostrava che nella seconda generazione filiale emergevano piante che presentavano caratteri non presenti nelle linee parentali e cioè piante con piselli gialli rugosi e verdi lisci.
Si metteva così in evidenza che era possibile trasferire caratteri genetici da una pianta donatrice a una ricevente aprendo la via al miglioramento genetico non solo per selezione massale, ma anche per singoli caratteri di interesse agronomico. Da allora la pratica istintiva, seguita per millenni dai nostri antenati, di scegliere i semi delle piante più vigorose e produttive per la semina dell’anno successivo, poteva essere fondata su solide basi tecno-scientifiche. E i risultati non si fecero attendere.
Si pensi per esempio che, nei primi anni del secolo scorso, la produttività del frumento era ancora intorno a 10 quintali per ettaro e questo perché le varietà di frumento coltivate erano varietà a taglia alta, cioè piante alte più di un metro che, se fertilizzate con azoto, allettavano, cioè la pianta diventava ancora più alta e finiva per cadere a terra.
Di conseguenza, non si poteva fertilizzare più che tanto e la produttività restava bassa.
L’idea vincente fu quella di un nostro connazionale, Nazareno Strampelli (1866-1942) che incrociò una nostra varietà di frumento tenero a taglia alta con una varietà giapponese (Akakomugi) che portava geni di nanismo. Furono creati così frumenti a taglia bassa che potevano essere fertilizzati e la produttività passò subito da 10 a 14 quintali ettaro.
Frumenti a taglia alta (sinistra) e bassa (destra)
Ma c’erano altre minacce. In Messico dal 1939 al 1942 la ruggine bruna, causata dal fungo Puccinia graminis, distruggeva più di metà del raccolto annuale di frumento.
Un giovane ricercatore statunitense, Norman Borlaug (1914-2009), cominciò allora a incrociare tra loro centinaia e centinaia di varietà di frumento raccolte in tutto il mondo dal genetista russo Nikolaj Vavilov (1887-1943), cercando nella progenie varietà resistenti alla ruggine.
Fu un lavoro massacrante ma i risultati arrivarono: le nuove varietà resistenti al fungo e a taglia bassa producevano dal 20 al 40% in più delle vecchie varietà.
Le varietà di frumento e i metodi di miglioramento di Borlaug si diffusero nel mondo e lui stesso promosse il miglioramento genetico non solo in Messico, ma anche in Pakistan, India e Cina che diventarono autosufficienti nella produzione di cereali. Borlaug fu il padre della «rivoluzione verde» e per il suo contributo a debellare la fame nel mondo ricevette il premio Nobel per la pace nel 1970.
Gli organismi geneticamente modificati
Le tecnologie basate sulla ricerca di variabilità spontanea o indotta (per esempio mutazioni indotte da radiazioni o agenti chimici mutageni) e trasferimento dei caratteri utili individuati mediante incrocio hanno prodotto incrementi produttivi e miglioramenti qualitativi delle piante coltivate molto rilevanti, ma possiedono un limite intrinseco.
Possiamo comprenderlo con un esempio concreto. Oggi in Italia coltiviamo diverse varietà di mele (si pensi alle mele Golden, Fuji, Morgan eccetera) ma tutte queste varietà sono soggette all’attacco di un fungo, la Venturia inaequalis, causa della «ticchiolatura del melo».
Ticchiolatura del melo
È possibile prevenire l’attacco o con fungicidi o mediante trasferimento di un gene che rende la pianta resistente all’attacco del fungo.
Un gene di resistenza è presente nel melo selvatico, Malus floribunda, e quindi incrociando il melo selvatico con le varietà attuali, è possibile trasferire il gene di resistenza nei meli oggi coltivati.
Tuttavia è facile intuire che con l’incrocio non si trasferisce solo il gene di resistenza, ma anche l’intero set di geni del Malus floribunda, generando quindi un ibrido di nessun valore commerciale che andrà re-incrociato più e più volte con la varietà originale per riottenere una varietà il più possibile simile a quella iniziale, procedura che richiede molti anni.
Il problema è superabile se fosse possibile trasferire nelle varietà di melo attuali solo il gene di resistenza alla Venturia inaequalis e non l’intero genoma di Malus floribunda: ciò è possibile con le tecniche del DNA ricombinante che sono all’origine dei cosiddetti organismi geneticamente modificati (OGM).
Come si producono le piante OGM
Tutti sappiamo che i geni sono costituiti da segmenti di DNA e quindi il primo passo da compiere è isolare quel particolare segmento che corrisponde al gene che vogliamo trasferire. Il compito non è semplice anche perché, restando all’esempio sopra riportato, il patrimonio genetico del melo è costituito da 57.000 geni e quello che conferisce la resistenza alla Venturia inaequalis è uno solo. Non è questo il luogo dove descrivere come si arriva in laboratorio a isolare il segmento di DNA di interesse ma, una volta ottenuto, questo deve essere inserito nel genoma della pianta ricevente. Il metodo comunemente usato è quello di sfruttare un batterio presente in natura, l’Agrobacterium tumefaciens.
Questo batterio, è capace di penetrare nelle cellule di una pianta e inserire stabilmente nel DNA della cellula ospite una parte del suo DNA presente all’interno del batterio in forma circolare, chiamato plasmide Ti, in grado di indurre nella pianta la formazione di una «galla», una proliferazione tumorale visibile sulla superficie della pianta.
Il plasmide Ti quindi è un vettore genetico naturale che, se privato delle funzioni che inducono la galla, può essere utilizzato per trasferire alle cellule della pianta ospite il gene che si intende trasferire, una volta che il segmento di DNA corrispondente è inserito nel DNA plasmidico.
Si dovrà poi procedere a selezionare le cellule trasformate, da queste rigenerare la pianta intera e verificare se il carattere portato dal gene è correttamente espresso.
Cos’è allora una pianta OGM? Seguendo l’indicazione della UE, è un organismo che contiene una modificazione genetica ottenuta mediante l’impiego delle tecniche di ricombinazione del DNA che comportano la formazione di nuovo materiale genetico mediante inserimento in un vettore (plasmide, virus, micro-iniezione, eccetera) di DNA prodotto all’esterno dell’organismo stesso.
Come si vede non viene considerata la modificazione genetica che si vuole produrre e di conseguenza il valore agronomico del carattere che si intende introdurre nella pianta, ma il modo con il quale si vuole produrre la modificazione.
L’autorizzazione alla coltivazione di piante OGM è subordinata al parere positivo, espresso sulla base di valutazione delle modalità di produzione, tossicità, allergenicità, rischi ambientali, eccetera, di Enti Governativi.
La Commissione Europea dà comunque ai singoli stati membri la possibilità di opting out, cioè di non coltivare piante OGM per le quali la commissione ha espresso parere positivo. L’Italia, insieme ad altri 19 paesi UE, ha esercitato il 2 ottobre 2015 l’opting out per 8 piante OGM per le quali si erano espresse favorevolmente l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare e la Commissione europea.
Se è vietata la coltivazione degli OGM, non è vietata però l’importazione: in Italia l’80% della soia utilizzata per alimentazione animale è soia OGM di importazione, come anche il 20% del mais. Attualmente, circa 170 milioni di ettari dei 1.500 milioni di terreno arabile al mondo sono coltivati con piante OGM resistenti a erbicidi e insetti, in particolare soia, mais, cotone e colza e i maggiori produttori sono Stati Uniti, Canada, Brasile, Argentina e India.
Considerazioni conclusive
Tutte le piante che da diecimila anni coltiviamo sono il frutto di modificazioni genetiche spontanee o indotte dall’uomo, modificazioni favorevoli all’uomo e alle sue esigenze, ma sfavorevoli alla sopravvivenza della pianta abbandonata a se stessa.
La selezione operata dall’uomo per millenni ha permesso di mantenere queste mutazioni, ma questo significa che le piante coltivate non esisterebbero se l’uomo non le avesse «create» e mantenute: la maggior parte di esse si estinguerebbe in pochi anni se l’uomo non continuasse a prendersene cura. In altre parole tutte le piante coltivate non sono «naturali» nel senso che, lasciate abbandonate in natura, verrebbero spazzate via dalla selezione naturale.
Durante i secoli molti sono stati i modi per ottenere le modificazioni genetiche: mutazioni spontanee, mutazioni indotte da agenti mutageni, selezione massale o mediante appositi incroci per caratteri di resistenza ai patogeni, agli stress ambientali e per aumento della produttività e qualità nutrizionale e, per ultimo, mediante le tecniche dell’ingegneria genetica tratteggiate nel paragrafo precedente. I 10.000 anni che ci separano dall’invenzione dell’agricoltura sono stati quindi un susseguirsi continuo di innovazioni, scoperte, progressi che hanno fatto aumentare in modo insperato la produzione di cibo.
Ci sono stati anche arretramenti, sconfitte, persino catastrofi provocate dall’uomo. Ma la consapevolezza di questi errori non può tradursi in rinuncia all’operatività: è proprio nella natura dell’uomo l’agire, la creatività per rispondere ai bisogni che man mano si presentano e cercare con la tecnologia di risolverli. E le sfide di oggi quali sono?
Il 10% delle terre emerse del globo è coltivato e per la metà con cereali. Nella restante parte sono concentrate le altre colture: patate, leguminose, piante da olio e zucchero, da fibra, frutteti, ortaggi. Tutte queste colture possono nutrire 7 miliardi di persone e ci sarebbe cibo per tutti, ma non tutti possono mangiare perché c’è chi ha troppo e chi troppo poco.
Le previsioni poi dicono che la popolazione mondiale crescerà di 2 miliardi nei prossimi 20 anni: ci sarà cibo per tutti tenendo conto che si dovrà produrre di più con meno terra da arare, meno fertilizzanti, meno acqua per irrigare, meno diserbanti e pesticidi, meno scarto e rifiuti, miglior valore nutrizionale, migliori abitudini alimentari e migliore distribuzione delle risorse?
Sono problemi enormi cui dovremo far fronte utilizzando tutte le tecnologie a nostra disposizione, quelle tradizionali, ma anche la ricerca di nuove fonti alimentari e le nuove tecnologie basate sull’ingegneria genetica che permette di dotare le piante coltivate di caratteri utili con maggior precisione e tempi ridotti, senza dimenticare poi le politiche sociali, economiche e soprattutto l’educazione.
Ma la tecnoscienza, senza una nuova cultura non individualistica e non consumistica, da sola non potrà essere la soluzione.
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Carlo Soave (già Ordinario di Fisiologia vegetale presso l’Università degli Studi di Milano)© Rivista Emmeciquadro