Quando si parla di genetica si immaginano tante cose ma, nonostante se ne parli molto, per diversi aspetti – e soprattutto a causa della sua complessità – rimane una scienza poco conosciuta.
L’impatto di questa branca della Biologia nella vita è ampio e le sue applicazioni riguardano i campi più svariati, da quello medico/farmaceutico a quello ambientale, industriale, agricolo e zootecnico fino ad arrivare all’utilizzo di sistemi avanzati per la rilevazione del materiale genetico nelle attività forensi.
Come biotecnologa mi sono da sempre occupata dello studio di patologie rare genetiche ed è quindi il campo medico quello che vivo quotidianamente, quello sul quale ho costruito la mia esperienza lavorativa e quello rispetto al quale riporterò gli effetti delle più recenti e innovative applicazioni della genetica.
Che cos’è la genetica? Come si è sviluppata?
Che cosa studia la genetica? La genetica fin dalle sue origini ha avuto come scopo quello di rispondere a una serie di domande sui caratteri ereditari e sui geni: come vengono trasmessi da una generazione all’altra, da cosa sono fisicamente costituiti, come funzionano.
Anche se, storicamente parlando, l’uomo ha sempre avuto a che fare e «giocato» in qualche modo con la genetica, per migliaia di anni questa attività non aveva nessuna base conoscitiva e consisteva in una selezione intuitiva di piante e animali domestici con il fine di migliorare la produzione agricola e animale.
Alcuni approcci allo studio della trasmissione dei caratteri furono tentati nel Settecento per comprendere la determinazione del colore degli occhi o la trasmissione di alcune patologie ereditarie come l’emofilia, ma i primi veri traguardi non sono arrivati prima del secolo scorso quando, grazie allo sviluppo delle prime teorie e alla possibilità di usufruire di strumenti tecnologici adeguati, la Genetica ha avuto un’evoluzione rapidissima.
Se dovessimo definire il momento in cui questa branca della scienza è nata, dovremmo tornare alla seconda metà dell’Ottocento quando il frate ceco Gregor Mendel (1822-1884), naturalista e matematico, conosciuto come il «padre della genetica classica» riuscì per primo a fare un po’ di chiarezza su quelli che sono i meccanismi di trasmissione dei caratteri ereditari; fece questo osservando per sette anni gli incroci ottenuti da migliaia di piante di pisello e valutando la modalità in cui alcuni caratteri «diversi dalla norma» (e che vennero definiti varianti o mutanti) sparivano e ricomparivano nelle progenie.
Mendel formulò le «leggi dell’ereditarietà» e fu in grado di dedurre l’esistenza dei geni senza alcuno strumento a disposizione, senza che fosse per lui possibile osservarli fisicamente e senza che si avesse alcuna informazione su cosa fossero e dove fossero localizzati.
Da questo momento in poi nuove teorie e scoperte scientifiche in campo genetico si susseguirono a ritmi serrati; ai primi del Novecento i cromosomi furono riconosciuti come i contenitori fisici dell’informazione genetica [Morgan T.H., 1910] fornendo una base scientifica alle osservazioni di Mendel. La loro struttura chimica venne compresa intorno alla metà del secolo quando Oswald T. Avery (1877-1955) identificò nel DNA la struttura chimica dell’informazione genetica, macromolecola che venne poi descritta nel 1953 da James Watson (1928-…) e Francis Crick (1916-2004) che ne riconobbero la struttura a doppia elica nella quale i due filamenti paralleli costituiti da quattro tipi diversi di nucleotidi (ognuno composto di una tra le quattro basi azotate adenina (A), guanina (G), citosina (C) e timina (T) si avvolgono tra loro con un andamento a spirale [1].
Con la scoperta del DNA si entrò nell’era della genetica molecolare; si definì il gene come singola unità ereditaria (sequenza di DNA contenente le informazioni necessarie per la produzione di una proteina o per svolgere una specifica funzione), si definì la struttura interna del gene e si postulò il «dogma centrale» della biologia molecolare secondo cui la sequenza di DNA di ogni cellula rappresenta lo stampo da cui l’informazione genetica viene prima «trascritta» in RNA e poi tradotta in proteina che ne attua la reale funzione. L’informazione genetica è la stessa in tutte le cellule dell’organismo ma viene espressa, tramite un preciso sistema di regolazione, in modo diverso e in momenti diversi nei circa 200 differenti tipi cellulari presenti nell’organismo umano.
Rispetto alla genetica classica, i cui risultati erano basati sull’osservazione ed eventualmente su una loro elaborazione matematica, è importante sottolineare come per la forte spinta conoscitiva del XX secolo sia stato determinante il parallelo progresso in campo tecnologico (l’utilizzo della cristallografia a raggi X per la definizione della struttura del DNA ne è un primo esempio), fattore che vedremo essere ancora più rilevante negli sviluppi più recenti.
Entrando un po’ più nel vivo di quelle che sono state le scoperte alla base di molte applicazioni attuali della genetica, nel 1971 si arrivò all’invenzione della tecnologia del DNA ricombinante (su cui si fondano le più innovative proposte terapeutiche e farmacologiche) che permette di introdurre artificialmente materiale genetico nel genoma di un secondo organismo all’interno del quale viene poi replicato ed espresso.
Un’applicazione di questa tecnologia è stata la produzione industriale di farmaci per uso umano di cui un esempio è rappresentato dall’insulina bio-sintetica, il primo farmaco prodotto con questa tecnologia all’inizio degli anni Ottanta. L’ormone, specifico per l’uomo, poteva ora essere prodotto in laboratorio in quantità illimitate. Prima dell’utilizzo di questa tecnologia l’insulina veniva estratta dal pancreas di suini e bovini, ma alcune piccole differenze nell’insulina animale rispetto a quella umana rischiavano di produrre effetti collaterali e di ridurne l’efficacia; alcune piccole modifiche ne hanno inoltre aumentato l’emivita in circolo e quindi migliorato l’effetto terapeutico.
Rimanendo sempre nel campo della genetica molecolare, alla metà degli anni Settanta si sono sviluppate due importantissime innovazioni tecnologiche che hanno cambiato radicalmente il campo della ricerca genetica permettendo nei decenni successivi una fortissima espansione degli studi sul DNA.
La prima di queste tecniche – ideata nel 1983 dal biochimico statunitense Kary Mullis (1944-…) e per la quale ottenne il Premio Nobel per la chimica nel 1993 – è la PCR (Polymerase Chain Reaction) che consiste nella possibilità di amplificare un pezzettino scelto di DNA sfruttando il meccanismo stesso di replicazione del DNA che avviene in natura, ossia la sintesi di un segmento di DNA a doppia elica partendo da uno dei due singoli frammenti [2]; in questo modo è possibile ottenere, partendo da quantità anche limitate di DNA, tante copie identiche di una precisa sequenza così da ottenerne livelli utili per il rilevamento, lo studio e l’utilizzo.
La seconda tecnica, che ha portato all’ingresso nell’era della genomica, è rappresentata dall’invenzione dei metodi per sequenziare il DNA, per stabilire cioè con precisione come sono disposte una dopo l’altra le quattro basi azotate del DNA.
Oggetto di studio della genomica è il genoma inteso come, secondo la prima definizione fornita nel 1920 da Hans Winkler (1877-1945), «l’insieme del materiale genetico di un organismo o cellula»; in particolare, il genoma umano è costituito da 3 miliardi di paia di basi (contenute nelle singole cellule del corpo umano) che, disposte in fila una dietro l’altra, costituiscono un filamento lungo circa 1,8 metri; questo filamento è in realtà suddiviso in 46 filamenti separati che prendono il nome di cromosomi.
Il sequenziamento del DNA
Sequenziare il DNA significa leggere le basi azotate (Adenina, Guanina, Citosina e Timina) che si susseguono nel filamento di DNA e che rappresentano l’informazione necessaria alla base dello sviluppo degli organismi viventi.
Il primo sistema di sequenziamento (definito metodo Sanger [3]) è stato messo a punto da Fred Sanger (1918-2013) che, oltre a vincere il Premio Nobel nel 1980, è ricordato per questa sua scoperta come il «padre della genomica». Sfruttando il metodo Sanger, nel 1977 è stato per la prima volta possibile sequenziare un intero genoma di un organismo vivente (il fago Φ-X174); si è poi proceduto a sequenziare genomi sempre più grandi fino ad arrivare alla realizzazione del più importante lavoro (sia in termini di tempo che di impegno economico) nel campo della Genetica – il Progetto Genoma Umano – che aveva come obiettivo il sequenziamento, in un arco di tempo stimato di 15 anni, dell’intero genoma umano.
Una sequenza accurata al 99,99% e pari al 99% del genoma umano è stata pubblicata nel 2003, due anni in anticipo rispetto ai tempi previsti, e ha fornito una quantità elevatissima di informazioni: è stato stabilito che il DNA umano è costituito da circa 30.000 geni e ha una lunghezza di 3.200 Mb, di cui solo l’1,5% è però di DNA codificante mentre il restante è a funzione regolatoria (determina dove, quando e in che misura i geni devono essere attivati), di collegamento o strutturale; la maggior parte dell’informazione genetica ha tuttora una funzione non nota.
Dalla genomica alla post-genomica: verso una medicina preventiva e personalizzata
Quali sono le applicazioni pratiche in campo medico dei risultati ottenuti dal Progetto Genoma?
Di questo si occupa la post-genomica e, fermo restando che la conoscenza del genoma ha conseguenze in ogni campo della biologia e non solo (le scienze forensi e alimentari ne sono un esempio), un aspetto rilevante per l’uomo è sicuramente determinato da quelle che sono state le applicazioni in campo medico, dall’identificazione e dalla diagnosi di malattie ereditarie allo sviluppo di nuovi approcci terapeutici, fino ad arrivare agli approcci più moderni della medicina che sono sempre più basati sulle caratteristiche genetiche dell’individuo.
Per meglio comprendere queste innovazioni è necessario definire il loro principale campo di applicazione, ossia quello delle malattie genetiche, la cui insorgenza è determinata da una o più anomalie a carico del patrimonio genetico. In linea generale le malattie genetiche possono essere ereditate da un genitore (e tutte le cellule dell’organismo saranno portatrici delle stesse anomalie genetiche) o svilupparsi nel corso della vita per mutazioni verificatesi accidentalmente; nel primo caso una malattia può essere definita monogenica – causata cioè da una mutazione che insorge in uno specifico gene (ne sono un esempio la fibrosi cistica e l’emofilia) – oppure multifattoriale, data cioè dal risultato di variazioni a livello di più geni e generalmente modulata dall’interazione con l’ambiente (a questo gruppo appartengono alcune delle più frequenti e problematiche malattie della società tra cui il diabete, l’asma, l’ipertensione, le patologie cardiovascolari, eccetera).
Tra le patologie a base genetica vi sono anche i tumori che vengono definiti come malattie genetiche delle cellule somatiche, causati cioè da mutazioni che sono limitate generalmente a un unico tipo cellulare; anche se la presenza di fattori predisponenti può in alcuni casi essere ereditata e quindi scritta nel DNA di tutte le cellule dell’organismo, normalmente lo sviluppo di un tumore prevede più eventi mutazionali nel corso della vita che, accumulandosi, generano la malattia.
Di fondamentale importanza per lo studio di queste patologie è l’identificazione dei geni-malattia, ossia di quei geni la cui mutazione è responsabile della loro insorgenza. Conoscere un gene-malattia significa poterlo analizzare nei soggetti malati per confermarne la diagnosi clinica, ma permette anche, una volta studiata la funzione, di capire in quale modo intervenire terapeuticamente, di sapere cioè quali bersagli andare a colpire per ripristinare un corretto funzionamento cellulare.
Prima del completamento del Progetto Genoma, per identificare un gene-malattia i tempi erano molto lunghi proprio perché non si avevano dei punti di riferimento all’interno del DNA; con la mappatura del genoma divenne nota la posizione di molti marcatori genetici distribuiti nei vari cromosomi e questo diede la possibilità, valutandone la trasmissione all’interno di una famiglia in associazione alla presenza della malattia, di localizzare la posizione sub cromosomica del gene-malattia; a questo punto, grazie a specifici software di predizione di sequenza genica era possibile identificare, nelle vicinanze del marcatore, un potenziale gene candidato che veniva poi sequenziato per la ricerca di una probabile mutazione causativa della malattia.
Questo tipo di approccio era però basato sulla disponibilità di grandi famiglie informative e sul modello di malattia monogenica che permetteva di avere un chiaro meccanismo di trasmissione all’interno della famiglia studiata, cosa che non è possibile avere per le complesse malattie multifattoriali.
Essendo queste patologie causate dalla concomitanza di più fattori, sia di tipo genetico sia di tipo ambientale, ed essendo coinvolti fattori genetici predisponenti o protettivi che possono cioè aumentare o ridurre il rischio di sviluppare la patologia, il loro studio è sempre stato piuttosto difficoltoso; trovare geni-malattia per queste patologie era fino a qualche anno fa un’impresa impossibile mentre oggi, sempre grazie al sequenziamento del genoma, è stato possibile implementarne enormemente la conoscenza identificando geni e mutazioni che ne causano la predisposizione.
Su quale strategia si basano questi studi? Dai risultati del Progetto Genoma è emerso come in ogni individuo della nostra specie la sequenza del DNA sia al 99,9% identica alla sequenza di qualsiasi altro essere umano. Questo significa che, a livello generale, anche se tra individui diversi i geni sono quasi identici ci sono alcune basi o sequenze del DNA che sono variabili e che possono quindi essere diverse da persona a persona senza che vi sia alcun effetto sulle funzioni globali dell’organismo.
Queste piccole differenze individuali, che consistono nel cambiamento di singole basi all’interno degli oltre 3 miliardi di basi che compongono il nostro genoma, prendono il nome di «polimorfismi» – Single Nucleotide Polymorphism, SNP – e nel genoma umano ne sono stati fino a oggi riscontrati circa 2,2 milioni, uno ogni 1500 basi circa. La cosa interessante è che ogni persona avrà un profilo specifico di queste basi che la rende individualmente diversa da ogni altra rendendo il DNA la nuova impronta digitale.
È importante sottolineare che non tutti i polimorfismi causano gravi implicazioni per la salute: la maggior parte di essi non ha alcun effetto, altri modificano solo lievemente la proteina che codifica il gene in cui si trovano (alcune variazioni producono per esempio diverse altezze, un particolare colore degli occhi o la capacità di piegare la lingua) mentre altri possono invece rappresentare dei veri e propri fattori predisponenti lo sviluppo di una malattia (non sono causa di malattie, ma possono determinare una propensione individuale a contrarle) o possono causare una risposta anomala a un farmaco.
La scoperta di queste varianti ha quindi fatto sì che la ricerca genetica si interessasse a un loro utilizzo per lo studio delle malattie complesse, creando strumenti tecnologici adeguati che potessero permetterne una rapida identificazione con l’obiettivo di determinarne specifiche combinazioni che possono aumentare il rischio di sviluppare queste patologie.
Qual è l’importanza di una medicina preventiva basata su una valutazione del rischio antecedente l’esordio dei sintomi? A questo proposito è fondamentale ricordare che, per questo gruppo di patologie, stiamo parlando di «rischio» e non di certezza di sviluppare la malattia la cui insorgenza, come abbiamo detto, sarà infatti determinata da tutta una serie di fattori concomitanti dove spesso lo stile di vita del soggetto assume un ruolo fondamentale. La possibilità di effettuare una diagnosi precoce e tempestiva può quindi dare la possibilità di mettere in atto tutta una serie di comportamenti «protettivi» che avranno come effetto quello di ostacolare o quanto meno ritardare la comparsa della patologia, evitare l’insorgenza di complicazioni e ottimizzare l’assistenza al paziente.
Per fare un esempio pratico di come la presenza di un certo polimorfismo possa influenzare la comparsa di una certa malattia riporto brevemente il caso dell’Apolipoproteina E, un gene associato allo sviluppo dell’Alzheimer.
Questa proteina plasmatica ha come funzione quella di legarsi ai grassi nell’organismo per formare le lipoproteine responsabili del trasporto del colesterolo nel sangue. Il gene per questa proteina contiene al suo interno due polimorfismi la cui combinazione porta alla formazione di tre diverse possibili proteine che possiamo definire E2, E3 ed E4; quello che è stato visto è che gli individui con almeno una copia della forma E4 (che sia ereditata dal padre o dalla madre) avranno un’elevata probabilità di sviluppare l’Alzheimer, mentre gli individui con la forma E2 avranno una minore probabilità di sviluppare la malattia [4].
La comparsa o meno della malattia non sarà poi automatica ma, oltre a dipendere da altri polimorfismi genetici, dipenderà in larga misura anche dallo stile di vita del soggetto; l’Apolipoproteina E per esempio può influenzare il modo in cui il nostro corpo utilizzerà diversi tipi di cibo, motivo per cui gli effetti negativi del gene dipenderanno anche da quello che sarà lo stile di vita del soggetto.
Un secondo ruolo dei polimorfismi in ambito medico è relativo a un loro coinvolgimento nella diversa reazione che molti individui hanno relativamente all’assunzione di uno stesso farmaco. Molti studi hanno messo in relazione le diverse risposte soggettive ai farmaci con la presenza di una particolare combinazione di polimorfismi di cui gli individui sono portatori; studi di correlazione tra il profilo specifico di determinati polimorfismi e la risposta a un farmaco permettono quindi di organizzare i pazienti in gruppi pre-selezionati rispetto al trattamento farmacologico in modo da ottimizzarne la resa, evitare trattamenti inutili e limitando l’incidenza di effetti collaterali [5].
Questo tipo di approccio basato sugli effetti della costituzione genetica dell’individuo sulla risposta terapeutica (che prende il nome di farmacogenetica) rappresenta un primo esempio di medicina personalizzata, un nuovo concetto di medicina «su misura» che permette di disegnare l’assistenza medica e il trattamento su quelle che sono le caratteristiche individuali della persona.
Gli sviluppi più recenti: il sequenziamento di nuova generazione. Quali nuove possibilità/prospettive?
Il grande spazio che ha acquisito la Genetica in medicina fa sì che abbia assunto un ruolo centrale il suo principale strumento d’azione: il test genetico, inteso come un insieme di analisi condotte sul DNA finalizzate a individuare o a escludere alterazioni verosimilmente associate a malattie genetiche. Un test genetico può avere diversi scopi: può essere diagnostico (conferma cioè la diagnosi clinica), presintomatico (per patologie a esordio tardivo), predittivo (per determinare la suscettibilità a una patologia), farmacogenetico (per determinare la risposta individuale ai farmaci) o medico-legale (ne è un esempio il test di paternità) e si basa generalmente su un prelievo di sangue dal quale viene estratto il DNA del soggetto e sul quale si procede a un sequenziamento dei geni di interesse.
L’utilizzo del test genetico sia in ambito diagnostico sia di ricerca è stato poi ulteriormente influenzato da una recente rivoluzione tecnologica che ha avuto e avrà nei prossimi anni un ulteriore forte impatto su quella che è la pratica clinica, il «sequenziamento di nuova generazione».
Questo nuovo approccio è basato sul sequenziamento multiplo e simultaneo di più regioni del DNA e di più pazienti contemporaneamente con la possibilità di produrre un volume enorme di dati a costi estremamente più bassi e in tempi estremamente più rapidi del metodo Sanger.
Questo si traduce nella possibilità di poter sequenziare in un unico esperimento un numero elevatissimo di sequenze; in termini pratici, rispetto alla diagnosi di un paziente, si passa dall’analizzare un gene per volta ad analizzare gruppi di geni selezionati (fino ad arrivare a centinaia) per i quali si prevede un’implicazione nel causare una determinata malattia permettendo di arrivare alla diagnosi in tempi molto brevi.
L’ultima frontiera nelle tecniche di sequenziamento massivo prevede inoltre la possibilità di sequenziare in un’unica reazione tutto il genoma dell’individuo o, alternativamente, solo i tratti del genoma che codificano proteine (che è, come visto, meno del 2% del totale); questa tecnica, che prende il nome di Whole Exome Sequencing ha un’importante applicazione clinica nella ricerca della causa genetica per i casi clinici di cui non si conosce il gene responsabile e per i quali, non essendo noto il meccanismo patologico, non esistono approcci terapeutici.
Sequenziare l’esoma significa leggere, per uno stesso paziente, tutti i 30.000 geni esistenti; confrontando i risultati ottenuti con il DNA dei genitori (se sani) risulta possibile filtrare tutte la varianti a significato dubbio e studiare solo quelle che diversificano il soggetto malato dai genitori sani.
Questo approccio, che ha fino ad ora portato all’individuazione del gene-malattia in circa il 25% dei casi studiati, ha l’enorme vantaggio di permettere il raggiungimento dei risultati in tempi molto brevi. L’effetto dirompente che avrà questa tecnologia per la lettura del DNA è evidente se consideriamo il forte calo che ha avuto in pochi anni il costo per sequenziare un genoma, passando dai 100.000.000 di dollari spesi nel 2001 per il Progetto Genoma ai 1000 euro necessari oggi per effettuare un’analisi.
Per fare invece un esempio pratico sul modo in cui l’avvento di queste nuove tecnologie ha modificato le conoscenze molecolari basti pensare che, rispetto al 2004, quando erano noti solo 2 geni correlati al tumore polmonare, oggi se ne conoscono 10 in più [6], si ha la possibilità di diagnosticare la malattia in modo più preciso e si hanno molte più basi biologiche su cui costruire nuove terapie.
Per concludere
Considerando le nuove possibilità appena descritte, che sono solo alcune di tutte quelle a oggi disponibili, risulta evidente come l’approccio della medicina rispetto allo studio delle malattie e al paziente stia cambiando e come l’individualità genetica del paziente stia assumendo sempre di più un ruolo preponderante nella pratica clinica.
Con la rivoluzione genomica la medicina sta cambiando drasticamente la sua attività e in particolare il suo approccio diagnostico-terapeutico: prima del 2000 le diagnosi e le terapie erano le stesse per tutti e la definizione stessa di malattia era tradizionalmente associata alla sintomatologia clinica; oggi la medicina sta diventando sempre più personalizzata, le malattie sono caratterizzate a livello molecolare (pazienti con tumori in organi differenti vengono curati con lo stesso farmaco, perché caratterizzati dalla stessa mutazione), il ruolo del test genetico nella diagnosi assume un ruolo fondamentale e i trattamenti farmacologici stanno diventando personalizzati (pazienti con una stessa malattia vengono trattati con farmaci diversi perché in presenza di alterazioni genetiche che ne determinano un’efficacia diversa) [7].
I vantaggi nell’utilizzo della nuova tecnologia per la medicina e per l’uomo sono evidenti ma l’aumento della domanda di test genetici, a causa della complessità delle informazioni che generano, rende indispensabile accompagnare il paziente verso una comprensione, che sia il più esaustiva possibile, di quelli che sono il significato e le implicazioni dei risultati ottenuti, illustrando anche preventivamente tutti i benefici e i limiti del test a cui si sottopone; è necessario monitorare la qualità dei test offerti, la qualità dell’informazione fornita e affidarne la trasmissione a specialisti che, dando alle persone spiegazioni chiare e complete, daranno al dato genetico il giusto valore e ne permetteranno un corretto utilizzo.
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Elena Pedrini
(Istituto Ortopedico Rizzoli, Bologna)
Indicazioni Bibliografiche
Molecular structure of nucleic acids: a structure for deoxyribose nucleic acid. J.D. Watson and F.H.C. Crick. Published in Nature, number 4356 April 25, 1953. Watson J.D., Crick F.H. Nature, 1974 Apr 26; 248(5451):765. No abstract available.
Target amplification for DNA analysis by the polymerase chain reaction. Mullis K.B. Ann. Biol. Clin. (Paris), 1990; 48(8):579-82.
DNA sequencing with chain-terminating inhibitors. 1977. Sanger F., Nicklen S., Coulson A.R., Biotechnology, 1992; 24:104-8. No abstract available.
Alzheimer disease: APOE*ε4-associated increase in AD risk linked to phospholipid dysregulation. Malkki. H Nat, Rev Neurol. 2015 Nov; 11(11): 610, doi: 10.1038/nrneurol.2015.180. Epub 2015 Sep 29.
Pharmacogenetics and the practice of medicine, Roses A.D. Nature, 2000 Jun 15; 405(6788): 857-65.
Chipping away at the lung cancer genome, Pao W., Hutchinson K.E. Nat Med. 2012 Mar. 6; 18(3): 349-5, doi: 10.1038/nm.2697.
Human genetics: international projects and personalized medicine, Apellaniz-Ruiz M., Gallego C., Ruiz-Pinto S., Carracedo A., Rodríguez-Antona C.. Drug Metabol Personal Ther.2015 Nov 18. pii: /j/dmdi.ahead-of-print/dmpt-2015-0032/dmpt-2015-0032.xml. doi: 10.1515/dmpt-2015-0032. [Epub ahead of print]
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