Un punto di vista per parlare di scienza e tecnologia che possa offrire suggerimenti e indicazioni utili soprattutto a chi è impegnato in ambito educativo, è quello che mette a fuoco l’esperienza umana del fare scienza e del fare tecnologia; includendo in tale esperienza quella che dovrebbe caratterizzare anche l’insegnamento e lo studio delle discipline scientifiche.
Possiamo quindi considerare scienza e tecnologia come espressioni della persona, come momenti di un «io» in azione teso a due diversi obiettivi: nel caso della ricerca scientifica lo scopo è quello di spiegare i fenomeni naturali e la molla che muove tutta l’azione è una radicale curiosità comune, poco o tanto, a tutti; nell’attività tecnologica l’intento è l’intervento sulla realtà natura per la sua trasformazione sotto la spinta dei bisogni, secondo l’accezione più ampia possibile di questo termine.
Quello che interessa qui notare, e che costituisce un primo elemento comune ai due ambiti, è che sia nell’indagine scientifica che nell’operare tecnico l’uomo non esprime niente di meno della sua identità: è tipico dell’uomo, di tutti gli uomini, desiderare di svelare i segreti che si celano sotto l’apparenza dei fenomeni, come pure è decisamente umano tentare con ogni mezzo di rispondere alle diverse esigenze del vivere quotidiano.
Nel fare questo si manifestano tutta una serie di capacità, qualità, abilità, sensibilità, aspirazioni che contribuiscono a dare risposta all’interrogativo di sempre: chi è l’uomo. Quando parliamo di scienza e di tecnologia abbiamo a che fare non solo con le teorie, con leggi naturali, con gli strumenti e le macchine ma anche e principalmente col fenomeno umano, nell’integralità delle sue dimensioni.
Chiarita questa prospettiva comune, è opportuno introdurre subito una necessaria distinzione e diversità tra i due ambiti.
C’è una diversità di obiettivo primario, come abbiamo già accennato: in un caso la comprensione dei meccanismi che sottendono i fenomeni naturali, nell’altro la manipolazione e la trasformazione, secondo un determinato progetto, di ciò che la natura mette a disposizione.
C’è poi una diversità delle attitudini e delle dimensioni della persona che vengono espresse e che originano le diverse dinamiche di sviluppo. Nel fare scienza balzano in primo piano elementi come: il rigore dimostrativo, la preoccupazione normalizzatrice, la sistematizzazione delle conoscenze; nell’impresa tecnologica risaltano: l’operatività, la sensibilità al contesto e ai vincoli che esso pone, la preoccupazione funzionale.
Evidenziare queste differenze non significa voler introdurre una opposizione o una separazione netta tra il mondo della scienza e quello della tecnologia. Anzi, è importante notare – anche per le ricadute educative che ciò può avere – tutte le affinità nell’approccio al reale che i due ambiti presentano. Ne sottolineiamo almeno tre:



  1. La costante attenzione ai «dati» e la inesorabile dipendenza da questi anche laddove poi le conquiste dipendono da intuizioni, immaginazione e creatività: queste ultime non eliminano i dati e non ne prescindono, anzi, si esprimono a partire da essi;

  2. Il linguaggio preciso e univoco col quale vengono descritti fenomeni, processi, sistemi;



  3. Alcune procedure razionali comuni, come la misurazione, la matematizzazione, la modellizzazione, il severo controllo sperimentale.

Oltre a queste affinità, si deve registrare una continua e crescente interazione, manifestata anche storicamente.
Basti pensare al ruolo del cannocchiale nelle conquiste astronomiche di Galileo ma, parallelamente, alla spinta che l’innovazione negli strumenti ottici ha ricevuto dal programma galileiano di sviluppo di una nuova meccanica e una nuova cosmologia. Oppure si pensi alle attuali nanotecnologie, che hanno alla loro origine l’intuizione di un fisico teorico come Richard Feynmann e che, a partire dai nuovi materiali, offrono ai fisici e ai chimici nuove piste di ricerca.
In ogni caso possiamo dire che l’interazione tra i due domini è crescente e feconda: la scienza ha bisogno di tecnologie sempre più affidabili (si pensi ai grandi acceleratori di particelle o ai satelliti per l’esplorazione spaziale); dal canto suo l’innovazione tecnologica ha bisogno di una scienza sempre più libera, disinteressata, che offra suggerimenti applicativi non programmati e imprevedibili (come spesso è accaduto nella storia).



 

Un’immagine riduttiva

 

Contribuiscono a generare un’immagine inadeguata e riduttiva della tecnologia molti riferimenti e atteggiamenti presenti anche nelle scuole (e non limitati agli insegnanti di materie tecniche). Evidenziamo i più diffusi. A partire dalla tendenza a presentare la tecnologia (anche nei suoi sviluppi indesiderati) come «inevitabile» e quasi automatica applicazione della scienza.
Una posizione che, in una sua versione estrema ed emblematica di una certa concezione che ha dominato il secolo scorso ma permane in background anche oggi, era così sintetizzata nello slogan che dominava l’Expo di Chicago del 1933: «La scienza scopre, l’industria applica, l’uomo si adegua».
Criticando questa impostazione e immaginando una tecnologia per il XXI secolo centrata sull’uomo, lo studioso americano Donald Norman nel suo Le cose che ci fanno intelligenti (Feltrinelli, 1993) propone una diversa scansione dei tre punti del motto di Chicago: «L’uomo propone, la scienza studia, la tecnologia si adegua».
Questo adeguarsi non ha nulla di negativo e non dovrebbe suonare come svalutazione della tecnologia; anzi, se inteso bene, come espressione di intelligente realismo, può aiutare a recuperare un altro aspetto della tecnologia normalmente ignorato o sottovalutato e cioè la sua dimensione culturale, rintracciabile in tutto ciò che c’è di umano e umanizzante nel «fare» tecnologico (abilità, ingegnosità, praticità, progettualità, …) e che non è unicamente riconducibile alle scienze e non ne deriva in modo meccanico e semplicistico.
Altre riduzioni nell’approccio alla tecnologia derivano dal fatto stesso di non mettere in risalto le distinzioni e le affinità prima indicate; oppure dalla tendenza a motivare lo studio e a (illudersi di) suscitare interesse per la conoscenza scientifica unicamente in vista delle sue applicazioni.
Si tratta invece di tenere presenti tutti gli aspetti del problema e di considerare la persona secondo l’ampiezza di tutte le sue dimensioni: allora non sarà difficile proporre la conoscenza scientifica come un’esperienza che ha valore per se stessa, prima delle possibili applicazioni, come espressione della tensione alla verità che anima ogni uomo; nello stesso tempo si potrà sottolineare come la prospettiva di possibili applicazioni utili ed efficaci non sia trascurabile né lasci indifferenti gli stessi scienziati. Anche qui la storia è ricca di testimonianze e di documentazione.
Nella stessa prospettiva che considera l’unità della persona non sarà superfluo sottolineare come anche nelle scienze più teoriche non ci sia il pensiero «puro», avulso dalla materialità e dalla strumentalità.
Come pure nell’atto tecnico non c’è la manualità solo «manuale», ma è sempre un intrecciarsi di azioni e riflessioni, di operatività e pensiero razionale, in un susseguirsi di feedback tra i diversi aspetti.
È facile immaginare quali importanti riflessi ciò possa avere a livello educativo e addirittura sul piano didattico.

 

 

L’emergere della tecnoscienza

 

Il quadro fin qui delineato, pur restando valido nei suoi criteri e principi di base, deve tenere in seria considerazione il fatto che il panorama scientifico-tecnologico sta cambiando da non molti anni e con grande celerità.
Sono apparse e si sono imposte sulla scena, sia della ricerca sia di quelle che finora venivano chiamate applicazioni, nuovi campi che è difficile inquadrare secondo gli schemi tradizionali delle «discipline»: parliamo delle biotecnologie, delle nanotecnologie, della robotica, della intelligenza artificiale, della neurolinguistica e altre ancora. Tutte sono caratterizzate dal fatto che presentano un elevato contenuto di ricerca scientifica, ma tutto subordinato fin dall’inizio alla possibilità di realizzare nuovi artefatti e sistemi o di modificare quelli esistenti.
È l’emergere di quella che molti identificano come tecnoscienza, dove spesso sfuma il confine tra ricerca a scopo puramente conoscitivo e intervento trasformatore e manipolatore. La facile distinzione, concettualmente ancora valida, nella pratica risulta di difficile applicabilità e spesso la situazione si presenta confusa, fluida; il che del resto rispecchia una tendenza tipica del contesto culturale attuale frammentario e minimalista.

Quel che qui interessa portare all’attenzione è il fatto che la tecnoscienza tende a invadere tutto il contesto e a modificare sia il fare scienza sia la pratica tecnologica. Sia la scienza che la tecnologia rischiano di perdere alcuni aspetti qualificanti e umanamente significativi.
La scienza rischia di veder attenuarsi la finalità puramente conoscitiva sotto la pressione degli obiettivi applicativi.
La tecnologia vede facilmente sottovalutato il suo proprium, quell’espressione dell’umano cui si è fatto cenno in precedenza.
Si ripropone il dilemma tipico di tutti i momenti di grande cambiamento: siamo davanti a nuove impensabili opportunità o prevalgono i fattori di preoccupazione e di rischio? E, come spesso accade, bisogna ammettere che ci sono entrambi.

 

 

Sta cambiando il rapporto uomo-macchina

 

Dopo più di due secoli di «macchinismo» e dopo le diverse ondate, per usare il termine del futurologo Alvin Toffler (1928-…), tecnologiche (meccanica, elettrica, elettronica, informatica) siamo in un momento di profondo cambiamento nel rapporto uomo-macchina.
Un cambiamento in qualche misura profetizzato da Norbert Wiener (1894-1964), il padre della cibernetica che nel 1950 scriveva: «La macchina è egualmente applicabile a un lavoro di carattere direttivo come al lavoro più pesante e meno qualificato»; e ancora: «Da questa fase in poi ogni attività potrà essere meccanizzata». Una profezia che abbiamo visto avverarsi progressivamente, rafforzando in tutti l’impressione che sia proprio possibile una totale automatizzazione delle attività; tutto sembra poter essere automatizzato: in fabbrica, nei servizi, nel tempo libero.
Fattore chiave di tutto ciò è il software e prima ancora la capacità di tradurre in algoritmi anche complessi dei processi un tempo ritenuti competenza esclusiva dell’uomo; dove si vede una disciplina astratta e speculativa come la matematica cooperare strettamente, fino a diventare indistinguibile, con le punte avanzate dell’hi-tech.
Colpisce per la sua attualità e per le sue implicazioni un’espressione di Wiener che, parlando della progressiva automatizzazione affermava che tutto può essere affidato a «macchine automatiche che sostituiscono il giudizio». Una previsione che va di pari passo con un’altra profezia, forse involontaria, avanzata, quarant’anni prima, dal matematico Alfred N. Whitehead (1861-1947) che aveva dichiarato: «La civiltà progredisce a mano a mano che si va estendendo il numero di attività importanti che riusciamo a compiere senza pensarci».
In effetti i moderni sistemi di automazione tendono a trasformarci da attori in osservatori, in semplici controllori dell’operato delle macchine; col rischio che tale azione di controllo diventi una routine alimentando oltre misura la nostra fiducia nella possibilità delle macchine di fare a meno dell’uomo. Tanto da far dire allo storico della tecnica George Dyson (1953-…): «E se il costo delle macchine pensanti fossero individui che non pensano?».
Questo interrogativo ci porta a uno degli argomenti più dibattuti attualmente circa il rapporto tra l’uomo e la macchina. Data la pervasività delle tecnologie più avanzate e l’intensità di utilizzo da parte di tutti e non solo degli specialisti, diventa importante analizzare gli effetti di retroazione (feedback) della tecnologia sulla persona.
L’importanza e il ruolo di uno strumento non è solo per ciò che produce per noi, come osserva Nicholas Carr (1959-…) ne La gabbia di vetro (Raffaello Cortina, 2014), ma per ciò che produce in noi. C’è un feedback dallo strumento verso la persona e ciò è inevitabile visto che l’uomo è per natura “tecnologico”, inevitabilmente portato a interagire col mondo mediante strumenti.
È stato sempre così ma con le tecnoscienze gli effetti sono molteplici e amplificati. Uno di questi effetti, che ha particolare rilevanza sul piano educativo, è quello che il sociologo Robert Sennett (1943-…) denunciava nel suo L’uomo artigiano (Feltrinelli, 2008): si sta consumando «il divorzio tra la mano e la testa».

Quello che era un punto di forza nell’operare dell’artigiano, e cioè il continuo rimando tra la manipolazione dell’oggetto e la riflessione razionale su quanto si sta facendo, tende a venir meno, realizzando la profezia di Whitehead e impoverendo sia le capacità operative sia il quadro teorico che sostiene anche le più normali attività quotidiane.
Lo strumento quindi, se usato senza la consapevolezza della sua retroazione sul soggetto, può diventare un limite alla creatività, perché diseduca alcune funzionalità tipicamente umane. Il citato libro di Carr riporta più esempi di professionisti che vedono la loro professionalità sminuita e le loro abilità ridotte nonostante, e forse a causa del, l’utilizzo massiccio di pur sofisticate e potenti tecnologie.
Inoltre, le enormi potenzialità degli strumenti oggi disponibili a tutti, induce facilmente a ritenere che tutto dipenda solo dagli strumenti; ci porta a riversare sullo strumento tutta l’aspettativa di realizzazione di una determinata opera, sia essa la costruzione di un manufatto o una qualsiasi più complessa attività.
Un esempio, per stare al mondo della scuola, è l’aspettativa delle quale sono sovraccaricati i nuovi strumenti informatici a supporto della didattica: tutta l’enfasi viene posta sullo strumento (ad esempio il tablet), dimenticando che esso è solo una delle componenti di una più complessa e ricca relazione interpersonale e che è nella intensità e significatività di tale relazione che si gioca tutta l’efficacia educativa.

 

 

I mezzi e i fini

 

Quando si sollevano osservazioni critiche e problematiche circa l’impiego delle tecnologie, la reazione più frequente è espressa da considerazioni di questo tipo: «Sono solo strumenti, dipende da come vengono usati». È una affermazioni condivisibile, che ha una sua logicità e quasi una sua ovvietà. Ma è insufficiente per rispondere ai problemi posti dall’avanzata delle tecnoscienze.
Il fatto è che gli strumenti che abbiamo oggi a disposizione tendono a non essere più «solo strumenti» ma ad avvicinarsi al dominio dei fini. Il computer tende ad essere uno strumento per tutti gli scopi; salta la corrispondenza tra strumento e scopo e, dice ancora Carr, «l’automazione sconnette i mezzi dai fini».
C’è una generale confusione tra mezzi e fini; il mezzo spesso diventa il fine: accade così che si «naviga» per navigare, non per trovare, si mandano continuamente messaggi anche se non si ha nulla realmente da comunicare…
Invece, proprio perché parliamo di «strumenti per», il loro impiego richiederebbe non solo la conoscenza delle procedure d’uso e delle normative che lo regolano, ma soprattutto la chiarezza circa i fini.
Solo che, come alcuni attenti osservatori hanno fatto notare, l’uomo contemporaneo è ricco di mezzi e povero di fini: «Mentre l’uomo è diventato abilissimo nei suoi calcoli finché è in gioco la scelta dei mezzi, la sua scelta dei fini è diventata priva di intelligenza» (Max Horkheimer, Eclisse della ragione, Einaudi 1972); o ancora: «Oggi, il vero pericolo per l’uomo è nell’uomo… nello squilibrio sempre più inquietante tra la sua potenza che aumenta, e la sua saggezza che regredisce…» (Jerome Lejeune, Il messaggio della vita, Cantagalli 2002).
Allora il problema degli strumenti tecnologici non è solo nel «come vengono usati», o «come viene regolamentato il loro uso», bensì in «chi» li usa, nell’identità del soggetto, nella sua visione del mondo e della vita.
Non si tratta perciò di demonizzare la tecnologia, ma di accorgersi che l’attuale contesto tecnologico avanzato ripropone in modo nuovo gli interrogativi sull’uomo, sui suoi desideri, sui criteri del suo operare nella realtà. Invitando a stabilire ciò che la macchina può fare al posto dell’uomo, la tecnologia ha sempre sfidato l’uomo a pensare a ciò che nella sua vita è importante, a chiedersi cosa significhi essere umano: ora, nell’era della tecnoscienza la domanda assume uno spessore particolare.
Prima che una questione di etica, come solitamente vengono affrontati questi temi, è questione di antropologia; e ciò chiama in causa gli educatori in modo particolarmente provocante.
Siamo rimandati alle domande: chi sono io? come affronto le relazioni che intessono le mie giornate? come vivo l’unità della persona nella frammentarietà e dispersività del panorama ipertecnologico attuale?

 

 

Vai al sito del Simposio per le slide della Presentazione

 

Vai al PDF di questo articolo

 

 

Mario Gargantini
(Direttore della rivista Emmeciquadro e membro del Direttivo dell’Associazione Euresis)

 

 

 

 

 

© Rivista Emmeciquadrio