Intervento tenuto al Convegno annuale 2015 dell’Associazione Universitas University, dal titolo:
Nella nostra ricerca, cos’è la verità? Come possiamo esserne certi? Ci può essere vera conoscenza senza affezione?

Mi soffermerò su tre concetti.
Il primo è che la nostra vita non è organizzata in modo che il problema della verità possa venire alla luce; è più orientata all’apparenza che alla verità.
Il secondo è che la verità non sta nelle cose, ma nel loro significato.
Il terzo è che per recuperare il significato dell’oggetto è necessaria la comunità. Cercherò di verificare questi concetti, o almeno taluno di essi, nella società, nella politica, nella giustizia.



Nella società

Possiamo riscontrare alcune caratteristiche consolidate.

La tendenza alla verticalizzazione
Esistono legami verticali invece che legami orizzontali; la dissoluzione della comunità fa venire meno lo scambio libero di riflessioni che porta alla verità.

Ricchezza di informazioni, ma povertà di conoscenza
La verità esige conoscenza: essere più informati non vuol dire necessariamente sapere di più; sapere non equivale a comprendere; comprendere non equivale ad avere capacità di giudizio. Senza capacità di giudizio è difficile conoscere il significato dei fatti.



Società vittima di una velocità compulsiva, frenetica
Questo tipo di velocità impedisce la ricerca della verità che richiede invece capacità di giudizio e quindi capacità di fermarsi. Il flusso incessante delle informazioni che provengono da ogni parte del mondo rende difficile distinguere la verità dalla menzogna e fa invecchiare rapidamente le notizie.
La veloce obsolescenza di qualsiasi informazione è accentuata dall’accelerazione della vita e dalla compressione del tempo generata dalla rete: un insieme di fattori che conferisce un valore crescente all’istantaneità, rendendo insignificante il passato, generando perdita di senso della realtà e indifferenza al falso.



Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni
La cornice teorica alla sopravvenuta indifferenza per il principio di realtà è stata fornita dalla filosofia del postmoderno che ci ha fatto vivere circa trent’anni di pensiero debole, di decostruzione della realtà, di primato della regola per la quale «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», di tendenziale annullamento dei confini tra verità e menzogna.

La tendenza alla semplificazione
È la trappola della banalizzazione: la spettacolarizzazione come sottoprodotto della semplificazione.

La tendenza all’autodenigrazione
All’indomani della morte di Enrico Berlinguer (1984), i giudizi di due dei maggiori giornalisti della nostra epoca, Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca, sembravano riprendere questa chiave interpretativa della nazione italiana.
Eugenio Scalfari intitolò il suo fondo «straniero in patria» e Giorgio Bocca definì il segretario comunista «anti-italiano». I francesi lo avrebbero chiamato un grande francese e i tedeschi, un grande tedesco. Perché non definirlo un grande italiano? Perché un uomo di quella dirittura morale non poteva essere definito cittadino della sua patria?
Qualche anno dopo, nel 1998, il titolo elogiativo di «anti-italiano» spettò a un commissario tecnico della nazionale di calcio, Cesare Maldini, dopo una inattesa e importante vittoria calcistica. Giorgio Bocca tenne per molti anni su l’Espresso una pungente rubrica che si chiamava L’Antitaliano. La rubrica è stata ereditata, con lo stesso titolo, da Roberto Saviano.
Il filone si è rianimato nell’autunno 2013 quando un grande quotidiano, commentando la prestazione cinematografica di un attore comico, Checco Zalone, che impersona nel film Sole a catinelle una figura spregevole di italiano, ha intitolato: L’arcitaliano. E il cerchio si chiude; dall’anti-italiano all’arci-italiano, sempre sul crinale della denigrazione di sé.
Quelle forme di autodenigrazione che si sostanziano nell’anti-italianità positiva e nell’arci-italianità negativa costituiscono espressione di un cinico complesso di superiorità che a volte sfocia nel furbesco tentativo di non confondersi con i difetti della nazione, di dichiararsi estraneo al mondo prevalente, fatto di sotterfugi e abusi, per sentirsi parte del mondo minoritario degli onesti, o per lo meno del mondo degli estranei.
L’autodenigrazione ha effetti consolatori e deresponsabilizzanti perché tenta di allontanare da sé il sospetto di essere parte dell’Italia che non funziona e cioè dell’Italia prevalente; ci si presenta come parte di una ristretta cerchia di virtuosi che non si riconoscono nelle volgarità degli altri.

Soprattutto allontana dal ceto intellettuale l’idea che ci sia anche una sua responsabilità in questa divisione tra popolo e Stato nutrita di profonda reciproca sfiducia.
Se Berlinguer fosse stato ricordato come italiano, espressione di un onesto modo di essere italiano (non anti-italiano), sarebbe scattata l’altra domanda: «Perché tu, che sei parte dell’establishment come lui, non sei come lui?» costringendo a imbarazzanti giustificazioni. L’autodenigrazione, invece, previene questa domanda, ed è perciò non solo destabilizzante, ma anche conservatrice, perché impedisce un processo di rinnovamento, giustifica il rimbrotto, l’esecrazione, l’invettiva, conferma la divisività come aristocratica separazione tra minoranza illuminata e tutti gli altri.
Questo atteggiamento insieme elitario e auto-denigratorio è l’ultima deleteria propaggine della più antica forma di divisione italiana, quella orizzontale fra paese legale e paese reale, élite e popolo, tra modernità delle classi dirigenti e arretratezza della società.

 

 

Nella politica

 

Verità e democrazia: la verità è indispensabile per la democrazia
Le democrazie si reggono sul principio di affidamento e cioè sulla ragionevole presunzione che l’apparenza corrisponda alla realtà. Il diritto dei cittadini a scegliere e a cambiare i propri governanti; la controllabilità del potere politico da parte dell’opinione pubblica, la competizione tra i partiti per ottenere il consenso necessario per governare, presuppongono che i cittadini possano contare sulla corrispondenza al vero di quanto viene detto e fatto dai responsabili politici.

 

La menzogna è stata un potente motore della storia politica dell’umanità
Il potere temporale dei papi si è giustificato per secoli con il falso della Donazione di Costantino. I Protocolli di Sion sono stati presi a pretesto di innumerevoli persecuzioni contro gli ebrei, dai pogrom sino alla Shoah, e ancora oggi vengono citati come fonte veridica nello statuto di Hamas.
La Turchia condiziona le proprie relazioni internazionali alla non contestazione, da parte dei partner, del negazionismo turco sul genocidio degli Armeni.
Gli Stati Uniti entrarono in guerra contro la Germania di Hitler, contribuendo in modo decisivo alla sconfitta del nazismo, grazie a una menzogna di Roosevelt che inventò un attacco dei sommergibili tedeschi a un cacciatorpediniere americano.
Grandi regimi politici che hanno condizionato la storia del mondo, come quello nazista e quello sovietico, si sono retti su un uso permanente e strategico della menzogna.
La guerra in Iraq è stata decisa sul presupposto, falso, che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa.
La crisi finanziaria dei nostri tempi, secondo le interpretazioni più accreditate, è nata dalla disponibilità delle banche d’investimento a trattare alcuni titoli (le cosiddette MBS, Mortgage-Backed Securities) come «liquidi» e poco rischiosi, ben sapendo che non lo erano. Tuttavia in alcuni casi nascondere in tutto o in parte la verità, o mascherarla con una menzogna, risponde alle stesse ragioni di fondo della responsabilità politica; risponde cioè all’esigenza di tutelare gli interessi fondamentali della comunità nazionale.
È la ragion di Stato che può imporre all’uomo di governo di tenere un comportamento menzognero proprio per la salvaguardia di quei valori e di quegli interessi per i quali egli riveste una specifica responsabilità pubblica.
Nessuno potrebbe biasimare l’uomo di governo che in tempo di guerra nasconda alcune verità o comunichi alcune menzogne per salvaguardare gli interessi nazionali. Il nemico, in caso di guerra, non ha diritto alla verità, come chiunque la userebbe per arrecare danni ingiusti. Nessuno potrebbe biasimare Roosevelt per aver simulato una provocazione del sommergibile tedesco.
Nella quotidianità la menzogna politica inganna il cittadino sullo stato delle cose e quindi gli impedisce di esercitare efficacemente i suoi diritti politici. La menzogna è necessaria alla tirannide come la verità è necessaria alla democrazia.
Il politico che mente ai propri cittadini per acquisirne il consenso, altera surrettiziamente le regole della competizione politica e colpisce la democrazia, perché i cittadini diventano strumenti per il suo potere.
L’entità del danno cresce in relazione al potere esercitato dal politico mentitore. Quando le sue funzioni sono elevate e il malcostume della menzogna è diffuso, le democrazie rischiano di diventare lo schermo di regimi corrotti e dispotici.

 

Un antidoto: l’intolleranza dell’opinione pubblica
Il principale antidoto a questo stato di cose è l’intolleranza dell’opinione pubblica alla menzogna. I cittadini devono essere consapevoli dei danni del mentire politico e, se tengono alla democrazia, devono esigere lealtà e pretendere affidabilità.

I sistemi politici devono dotarsi di strumenti in grado di smascherare la menzogna. Una democrazia priva degli strumenti per combattere la menzogna rimane vittima di se stessa, com’è accaduto a Weimar: libera stampa, opposizione consapevole del proprio ruolo costituzionale, magistratura indipendente.
Occorre sfuggire al rischio di una verità storica asseverata da un’autorità politica, vedi la questione del negazionismo.
Occorre distinguere tra manifestazione di un’opinione e asserzione di un fatto (vedi la Costituzione tedesca del 1994); se un insegnante spiegasse che fu la Polonia a invadere la Germania o che il Sole gira attorno alla Terra potrebbe continuare a insegnare?

 

 

Nella giustizia

 

Bisogna sgombrare il campo da un equivoco: il processo penale come luogo dove si cerca la verità; in realtà si accerta la responsabilità: auctoritas non veritas facit processum.
Il giudice deve ricostruire un fatto che non conosce e che a volte nessuno dei soggetti del processo conosce.
Nel corso del dibattimento penale si fronteggiano sette portatori di verità diverse: la verità del pubblico ministero; la verità dell’imputato; la verità del difensore; la verità del testimone; la verità dei mass media; la verità dell’opinione pubblica; la verità del giudice.
In sintesi le caratteristiche che accompagnano il processo sono: il processo come luogo della ignoranza; la differenza tra verità processuale e verità materiale; la decadenza dalle prove; la prova illecita; la prescrizione; la verità probabile.

 

 

Una conseguenza: la prevalenza del verosimile sul vero

 

La verità storica attestata nel processo va intesa sempre come verisimiglianza o plausibilità di un racconto sostenuto da prove. Tutto ciò ha fornito un potente impulso al verosimile, una delle grandi insidie del nostro tempo.
Il verosimile ha uno statuto di nobiltà nella letteratura, nella cinematografia e nella storia dell’arte, ma in politica, come nella vita di ogni giorno, non è il vero: è solo ciò che ci appare probabile alla luce di un nostro parametro di valutazione. Nelle ultime settimane 2011 su molti quotidiani europei si è letto di una telefonata della Cancelliera Merkel al Presidente Napolitano per chiedere di porre fine al governo Berlusconi. La notizia era un falso e tutti smentirono.
Tuttavia il verosimile, più gradevole rispetto alle asprezze della realtà, più manipolabile e più diffuso sui mezzi di comunicazione, dai reality televisivi ai retroscena dei quotidiani, condiziona in modo rilevante le nostre vite. A volte si tratta di puri e semplici falsi, altre volte di interpretazioni presentate come fatti, o di ipotesi presentate come realtà.
Attraverso il falso simile al vero si stimolano scelte politiche, si creano stili di vita e orientamenti di pensiero, si allontana l’opinione pubblica dalla realtà. Il verosimile sta alla vita come un quadro sta all’oggetto dipinto.
Il verosimile è un probabile; ma nella pubblica opinione ha conquistato uno statuto che lo assimila alla verità. Il suo essere simile al vero lo fa apparire meno offensivo eppure, come una menzogna ben detta, il verosimile è pericoloso proprio perché apparentemente attendibile.
Diventa difficile tracciare una linea netta tra chi mente e chi dice il vero; la menzogna tende a perdere il carattere infamante e il politico mentitore trova un ambiente favorevole. La democrazia costituzionale rischia di essere sostituita da una democrazia ombra, fondata sull’apparenza e non sulla verità, sul sospetto e non sull’affidamento, sulla malafede e non sulla fiducia.
Un tempo i luoghi della finzione erano nettamente distinti dai luoghi della realtà: il cinema, il teatro, il luna park, le fiere, la finzione copiava il reale. Ora sempre più spesso il reale copia la finzione.
Tutto questo vuol dire che nel nostro tempo siamo indifferenti alla verità? No, ma prevale una idea «effettuale» della verità: accertamento dei fatti senza cura per il loro significato, accettazione acritica dei dati economici. Vogliamo conoscere il reale stato delle cose, ma non ci occupiamo del loro significato.

 

 

Cercare la verità significa cercare il significato dei fatti

 

Invece occorre non accontentarsi dei fatti, ma andare al loro significato. Purtroppo c’è una crisi non del desiderio di verità, ma del desiderio di significato.
La ricerca del significato comporta un incontro tra la verità delle scienze umanistiche e la verità delle scienze naturali: entrambe guardano al significato.
La verità si cerca attraverso lo scambio con gli altri. Ne segue la necessità di ricostruire legami orizzontali e comunità di senso: La verità, la ricerca di senso, è frutto di uno sforzo individuale, in cui si gioca il valore della persona.
È essenziale questa ricerca di ciò che dà un senso alla vita e che permette che la vita abbia un senso.

 

 

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Luciano Violante
(Presidente Emerito della Camera dei Deputati)

 

 

 

 

 

© Rivista Emmeciquadro

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