In una sua recente visita alla London School of Economics, Elisabetta II, regina d’Inghilterra, ha posto ai celebri – e assai celebrati – economisti di questa istituzione universitaria una domanda diretta assai imbarazzante: come mai nessun economista ha previsto la crisi economica in cui si dibatte attualmente il mondo occidentale?
Con questa sua semplice domanda la regina d’Inghilterra non solo ha messo in crisi gli economisti della London School of Economics, ma ha messo anche il dito nella piaga, richiamando un’idea alquanto diffusa, in virtù della quale si attribuisce alla scienza la proprietà, primaria, di essere una disciplina predittiva.
Se una teoria scientifica non è in grado di fare previsioni, allora quale sarà mai la sua portata scientifica? In genere è infatti senso comune sostenere che scienza e predittività coincidano. Con la conseguenza che le teorie – o le discipline – che non sono in grado di offrirci valide predizioni non abbiano, allora, alcuna portata conoscitiva. Naturalmente tutte le predizioni scientifiche devono poi essere verificate o falsificate, ovvero devono essere sottoposte a rigorosi controlli. Ma sembra proprio che da questo punto di vista scienza e predittività facciano tutt’uno, al punto che una teoria scientifica, per essere tale, non potrebbe non possedere una specifica portata predittiva.
Tuttavia, se si volesse approfondire questo aspetto, concernente la presunta e scontata coincidenza tra scienza e predittività, perlomeno nell’ambito della tradizione di pensiero occidentale, non si potrebbe fare a meno di rimanere un poco perplessi. In primo luogo, perché proprio questa idea non era affatto scontata nel mondo antico.
Scienza e predittività
Nella scienza antica l’importanza della previsione fu infatti affermata e accentuata solo e unicamente nell’ambito delle ricerche mediche da un autore come Ippocrate [Prognostikon, I]. D’altra parte se, in secondo luogo, ci si volesse spostare in ambito moderno, dal Seicento in poi, il nostro imbarazzo complessivo non diminuirebbe, perché ci troveremmo di fronte a indicazioni alquanto diverse, spesso contrastanti e, persino, apertamente opposte. Per esempio, per Galileo Galilei, il padre riconosciuto della scienza moderna, «la cognizione di un solo effetto acquistata per le sue cause ci apre l’intelletto ad intendere ed assicurarsi d’altri effetti senza bisogno di ricorrere all’esperienza» [Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638)].
Anche David Hume (1711-1776) condivide l’impostazione galileiana, anche se, come è noto, proprio la sua innovativa disamina critica di questo problema lo indurrà a scoperchiare un problema – ancor oggi qualificato, per antonomasia, come il «problema di Hume» – che è ben lungi dall’essere stato risolto in modo persuasivo e convincente. Per Hume, infatti, «essendo costretti dalla consuetudine a trasferire il passato al futuro, in tutte le nostre inferenze, quando il passato si è manifestato del tutto regolare e uniforme, noi aspettiamo l’avvenimento con la massima sicurezza e non lasciamo posto per qualche supposizione contraria» [Inquiry Concerning Human Understanding, VI, (1748)].
In tal modo Hume solleva la questione dell’affidabilità empirista della predittività, giacché, naturalmente, nessuna esperienza del passato può mai essere invocata per supportare, avvallare o giustificare, dimostrativamente, un’esperienza futura, giacché qualunque matter of fact può sempre essere negata senza mai incorrere in alcuna contraddizione. Ma se manca allora tale fondamento empirista, su quale base potremo mai avanzare validamente delle previsioni? Auguste Comte (1798-1857), a suo modo, ha risolto il problema fornendone una versione che ha avuto gran successo ed è diventata un luogo comune, appunto quel luogo comune richiamato dalla regina inglese: «scienza, donde previsione; previsione, donde azione» [Cours de philosophie positive, 1830, I, p. 51].
Ma anche in questo caso se si volesse abbandonare il terreno delle affermazioni programmatiche, per entrare nei dettagli delle questioni, molti altri problemi rampollerebbero per ogni dove. Heinrich Rudolf Hertz (1857-1894), per esempio, riprende proprio questo aspetto decisivo del fare scienza e osserva: «il più diretto e in un certo senso il più importante problema che la nostra consapevole conoscenza della natura ci rende capaci di risolvere è l’anticipazione degli eventi futuri, sicché poi possiamo ordinare le nostre faccende presenti in accordo con tali anticipazioni» [Prinzipien der Mechanik (1894)].
Tuttavia, è merito di un autore come Charles Sanders Peirce (1839-1914) ricordarci la problematicità di ogni affermazione concernente la predittività del sapere scientifico. Scrive infatti l’epistemologo americano: «nell’induzione non è il fatto previsto che in qualche misura necessiti la verità dell’ipotesi o la renda probabile. Ma è il fatto che esso è stato previsto con successo e che è un campione scelto a caso di tutte le previsioni che possono essere basate sull’ipotesi e che costituiscono la verità pratica di essa» [Collected Papers, p. 6527].
Ma allora, in che rapporto stanno previsione e spiegazione? A questo proposito la tradizione dell’empirismo logico ha fornito risposte diverse, apertamente contrastanti. Per Rudolf Carnap (1891-1970), per esempio, «la natura di una previsione è la stessa, rispetto alla conferma e all’attestazione, di quella di un enunciato circa un evento presente non direttamente da noi osservato, per es., circa un processo che ora è in corso nell’interno di una macchina o un evento politico in Cina» [Testability and Meaning (1953), p. 87].
Willard Quine (1908-2000), al contrario, tornando alla lezione humeana, afferma di ritenere che lo schema concettuale della scienza costituisca uno strumento per prevedere l’esperienza futura alla luce dell’esperienza passata [From a Logical Point of View, II, 6]. Per Carl Gustav Hempel (1905-1997) esisterebbe, invece, una identità strutturale (o di simmetria) tra spiegazione e previsione, nel preciso senso «che ogni spiegazione adeguata è potenzialmente una previsione e, inversamente, ogni previsione adeguata è potenzialmente una spiegazione» [Aspects of Scientific Explanation, 1965, p. 367].
Karl Popper (1902-1994), un dichiarato e accanito anti-neopositivista (il quale, tuttavia, è strettamente legato al neopositivismo e al suo orizzonte concettuale molto più di quanto, in genere, non si voglia riconoscere), dopo aver sostenuto che tutte le scienze teoretiche (incluse anche quelle sociali) sarebbero scienze di previsione, distingue nettamente tra previsione scientifica e profezia storica: «le previsioni ordinarie della scienza sono condizionali. Esse asseriscono che certi mutamenti (per esempio della temperatura dell’acqua in un bollitoio) sarà accompagnato da altri cambiamenti (per esempio il bollire dell’acqua)» [Conjectures and Refutations, 1965, p. 339]. Il curioso esempio – di sapore crociano! – non ci deve far dimenticare come un empirista logico come Hans Reichenbach (1891-1953) usi invece il termine post-vedibilità (post-dictability) per indicare la possibilità di determinare «i dati passati in termini di osservazioni date» [Philosophic Foundations of Quantum Mechanics, 1944, p. 13].
Come si può evincere anche da queste poche ed essenziali citazioni, la confusione è, dunque, assai grande sotto il cielo epistemologico. Anche perché, dal seicentesco Discorso sul metodo di Decartes fino alla novecentesca Logica della scoperta scientifica di Popper (con tutti i vari cascami degli epigoni falsificazionisti e anche dei cd. post-neopositivisti), gli epistemologi hanno sempre discusso, e spesso litigato, sulla questione del «metodo» scientifico. Tutti i vari partecipanti a questa nobile e storica discussione hanno infatti proposto diverse e alternative interpretazioni del metodo scientifico – da quella induttivista a quella deduttivista, da quella convenzionalista a quella idoneista, da quella verificazionista a quella falsificazionista, da quella empirista a quella idealista, eccetera, eccetera – condividendo sempre, tuttavia, quella che è stata indicata come la «sindrome cartesiana» [Marcello Pera, Scienza e retorica, Laterza, Roma-Bari 1991], ovvero l’idea che la scienza possegga un metodo la cui applicazione produrrebbe, invariabilmente, conoscenza scientifica.
L’immagine della scienza in Galileo
Di fronte a tale problematicità epistemologica mi pare allora opportuno e doveroso ritornare ai testi dei classici e, in particolare, ai testi di un padre riconosciuto della scienza moderna, ovvero a quelli di Galileo. Anche Galileo ha infatti avuto modo di affrontare, in diverse occasioni, il problema della natura stessa della scienza, pur sempre rifiutandosi, però, di ridurre la scienza a un «metodo».
Anzi, da questo punto di vista si può anche osservare come la sua opera metodologicamente più celebre, Il Saggiatore (1623), sia stata volutamente scritta in modo da lasciar emergere solo e unicamente la duplice polarità antinomica entro la quale sempre si costruisce il pensiero scientifico, ovvero la polarità tra le «certe dimostrazioni» e quella della «sensate esperienze».
Del resto lo stesso Galileo ci guida in questa specifica lettura della sua opera, anche in altri passi emblematici dei suoi numerosi scritti. Per esempio nella sua famosa lettera a Giovanni Battista Baliani del 7 gennaio 1639, nella quale, parlando del suo capolavoro scientifico, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, così scrive: «ma tornando al mio trattato del moto, argomento ex suppositione sopra il moto, in quella maniera diffinito; siché quando bene le conseguenze non rispondessero alli accidenti del moto naturale de’ gravi descendenti, poco a me importerebbe, siccome nulla deroga alla dimostrazione di Archimede il non trovarsi in natura alcun mobile che si muova per linee spirali. Ma in questo sono io stato, dirò così, avventurato, poiché il moto dei gravi et i suoi accidenti rispondono puntualmente alli accidenti dimostrati da me del moto da me definito».
Da questo breve passo è agevole intendere come per Galileo la scienza debba procedere prendendo le mosse da alcune congetture ipotetiche dalle quali deve ricavare, in modo rigoroso, tutte le conseguenze.
Saranno poi queste ultime che dovranno essere poste in relazione diretta, tramite la mediazione sperimentale entro la quale la tecnologia gioca un ruolo fondamentale, con il mondo dell’esperienza scientifica. Questa impostazione metodica emerge, del resto, anche nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi, tolemaico e copernicano, in cui, a mio modo di vedere, Galileo ci offre una straordinaria ricostruzione dello stesso processo concettuale in virtù del quale da tolemaico lui stesso è alla fine diventato un copernichista.
Se si accetta questa mia ipotesi occorre allora leggere il Dialogo galileiano come una «storia di un’anima», ovvero come la più straordinaria documentazione del processo concettuale che Galileo ha attraversato per abbandonare l’impostazione tradizionale e far sua la nuova prospettiva inaugurata da Copernico. In questa chiave di lettura ermeneutica del Dialogo, allora i diversi personaggi (Salviati, Simplicio e Sagredo) costituiscono, tutti insieme, la «voce» del pensiero di Galileo e anche la voce di tutti i dubbi che il Nostro ha dovuto affrontare prima di convincersi della bontà della prospettiva copernicana. Ma per abbandonare la prospettiva tradizionale occorreva anche convincersi dell’opportunità di utilizzare le matematiche per studiare il mondo fisico. Ma proprio su questo punto bisognava saper vincere la resistenza del pensiero antico che rifiutava di poter applicare il rigore matematico al mondo dell’imperfezione della realtà sublunare.
Non a caso proprio su questo punto decisivo nella seconda giornata del Dialogo si legge l’obiezione fondamentale, avanzata dalla tradizione aristotelica, che viene così riassunta dalla voce copernichista «Salviati – Adunque, tuttavolta che in concreto voi applicate una sfera materiale ad un piano materiale, voi applicate una sfera non perfetta a un piano non perfetto; e questi dite che non si toccano in un punto. Ma io vi dico che anco in astratto una sfera immateriale, che non sia perfetta, può toccare un piano immateriale, che non sia piano perfetto, non in un punto, ma con parte della sua superficie; talché sin qui quello che accade in concreto, accade nell’istesso modo in astratto: e sarebbe ben nuova cosa che i computi e le ragioni fatte in numeri astratti non rispondessero poi alle monete d’oro e d’argento e alle mercanzie in concreto» [Opere, ed. naz,, VII, 233].
Ma Galileo sa benissimo che questa non è la vera risposta all’obiezione decisiva di Simplico. Tant’è vero che subito dopo aggiunge: «Ma sapete, signor Simplicio, quel che accade? Si come a voler che i calcoli tornino sopra i zuccheri, le sete e le lane, bisogna che il computista faccia le sue tare di casse, invoglie ed altre bagaglie, così, quando il filosofo geometra vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che diffalchi gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici. Gli errori dunque non consistono né nell’astratto né nel concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel calcolatore, che non sa pare i conti giusti» [VII, 234, i corsivi sono miei].
Come si vede in questa paradossale risposta galileiana il «filosofo geometra» (ovvero lo scienziato inteso come autentico filosofo della natura) deve saper «riconoscere in concreto gli effetti» precedentemente «dimostrati in astratto» e per conseguire questo risultato lo scienziato deve dunque saper «diffalcare» «gli impedimenti della materia».
Come è agevole constatare da questo passo galileiano riemergono, nuovamente, i differenti momenti che contraddistinguono il modo di procedere dello scienziato: la sua capacità di saper pensare, congetturalmente, in modo originale e innovativo; la sua capacità di saper dedurre, in modo necessario, le conseguenze delle sue premesse ipotetiche; la capacità di saper «diffalcare» gli impedimenti della materia, tramite l’intreccio, creativo, tra apparato teorico e verifica sperimentale mediata dalla tecnologia sperimentale. Il che poi spiega perché lo stesso Galileo, nella terza giornata del Dialogo, possa poi scrivere di non poter trovare «[…] termine all’ammirazion mia, come abbia possuto in Aristarco e nel Copernico far la ragione tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona della loro credulità» [VII, 355; per un approfondimento sia comunque lecito rinviare a F. Minazzi, Galileo «filosofo geometra», Rusconi, Milano 1994].
Naturalmente con questa impostazione Galileo non ha risposto completamente all’obiezione aristotelica – la quale, in fondo, imputa al metodo della fisica-matematica di non riuscire a risolvere il problema delle morfologie del mondo della nostra esperienza comune.
Tuttavia, Galileo sapeva anche che con la matematica di cui poteva allora effettivamente disporre, non era in grado di affrontare il problema delle morfologie ed era quindi obbligato a introdurre una celebre distinzione strategica – sia pur avanzata unicamente sul piano operazionale, senza gravarla di alcuna valenza metafisica (quella cui, invece, si appellerà la tradizione filosofica post-galileiana inaugurata da un empirista come John Locke, 1632-1704) – ovvero la distinzione tra «qualità primarie» (quelle matematizzabili) e «qualità secondarie» (quelle non matematizzabili).
Esattamente entro questa precisa distinzione la tradizione aristotelica dispone ancora di parecchie frecce nella sua faretra per rimproverare alla svolta galileiana di non essere in grado di fornirci un’immagine sufficientemente ricca e articolata dell’infinita ricchezza del nostro mondo sensibile.
In fondo la distinzione galileiana tra le due differenti qualità, quelle primarie e quelle secondarie, costituisce la sua approvazione (implicita) di questo rilievo critico. Anche se è poi vero che Galileo non dubita affatto che, prima o poi, anche questo cruciale problema delle morfologie potrà infine essere risolto scientificamente.
L’immagine einsteiniana della scienza
Il 7 maggio 1952 Albert Einstein, scrivendo a un amico e sodale del loro ristrettissimo cenacolo costituente l’Akademie Olympia, Maurice Solovine (1875-1958), ebbe modo di precisare la sua immagine della scienza, tracciando il seguente disegno che consente di meglio comprendere la sua precisa visione epistemologica del pensiero scientifico:
La linea orizzontale E indica il mondo del Lebenswelt, ovvero il mondo delle esperienze ordinarie e immediate. Ognuno di noi appartiene a questo mondo. Meglio ancora: ognuno di noi è un momento di questo mondo, giacché ogni uomo possiede una sua propria storia individuale.
Il polo A rappresenta il polo degli assiomi da cui si possono trarre, per rigorosa deduzione matematica, le conseguenze S, S’, S’’… Sn. Per passare da E ad A non esiste alcun percorso logico, giacché il ramo di parabola che conduce ad A «fluttua» sopra la linea E senza tuttavia aver alcun punto di contatto diretto con il mondo delle esperienze immediate. Quel suo «fluttuare» indica il carattere intuitivo, creativo e anche di fantasia con cui può nascere un percorso di pensiero che ci induce a elaborare gli assioni A.
Di contro anche le conseguenze S, S’, S’’… Sn, ricavate per via matematica, rigorosamente deduttiva e cogente, devono essere, a loro volta, poste in relazione con il livello E e sono effettivamente messe in relazione con le E tramite una verifica basata sull’esperienza sperimentale. La linea tratteggiata sottolinea come questa verifica e questa stessa procedura di verifica, per dirla con le stesse parole di Einstein, «appartiene essa stessa alla sfera extralogica (intuitiva), non essendo di natura logica la relazione tra i concetti che intervengono negli enunciati e le esperienze immediate.
Questa relazione tra gli S e le E è tuttavia (pragmaticamente) molto meno incerta di quella che sussiste tra gli A e le E (per esempio il concetto di cane e le corrispondenti esperienze immediate). Se una tale corrispondenza, pur restando inaccessibile alla logica, non potesse essere stabilita con un elevato grado di certezza, tutto l’armamentario logico non avrebbe alcun valore ai fini della «comprensione» della realtà (per esempio, la teologia). L’aspetto essenziale è qui il legame, eternamente problematico, fra il mondo delle idee e ciò che può essere sperimentato (l’esperienza sensibile)».
Rispetto a questo disegno einsteiniano e alla sua spiegazione si possono svolgere alcune osservazioni.
In primo luogo, non è privo di significato che Einstein, per illustrare la sua immagine della scienza, abbia avvertito la necessità di ricorrere a un disegno, proprio perché la rappresentazione grafica consente di meglio «visualizzare» la complessità della sua immagine concettuale del procedere scientifico.
In secondo luogo, è agevole comprendere come questo schema individui due polarità opposte: quella degli assiomi A, che fa riferimento al livello del pensiero astratto e quella delle esperienze immediate E, che fa invece riferimento al mondo del vissuto quotidiano, in cui tutti gli uomini sono sempre necessariamente inseriti (anche i premi Nobel, of course!).
Questa polarità tra astratto e concreto, tra assiomi convenzionali e piano dell’esperienza concreta e immediata, ci riporta, naturalmente, alla polarità galileiana tra il piano delle «certe dimostrazioni» e delle «sensate esperienze».
Inoltre, in terzo luogo, anche nello schema einsteiniano figura tutta la problematicità intrinseca del collegamento sperimentale che può eventualmente instaurarsi tra la serie delle conclusioni S, S’, S’’… Sn e il piano del Lebenswelt.
Ancora una volta, come peraltro già accadeva anche nella riflessione galileiana, questo strategico nesso problematico è assicurato proprio dalla dimensione tecnologica, per mezzo della quale i nostri costrutti teorici – nei quali certamente si delinea anche una componente predittiva – vengono posti in relazione con il piano sperimentale che consente un controllo dell’intera teoria. Giustamente anche Einstein sottolinea, però, come questo nesso sia sempre altamente problematico e aperto a molteplici revisioni ed approfondimenti.
Alcune conclusioni epistemologiche
Naturalmente lo schema einsteiniano può essere variamente complicato e articolato (come è stato del resto proposto da qualche interprete). Ma non è ora il caso di seguire queste, pur opportune, «integrazioni», perché è semmai meglio concentrarsi nel suo valore epistemologico intrinseco.
Un valore intrinseco che ci fa scorgere, in primis, la perfetta congruenza concettuale tra l’immagine galileiana e quella einsteiniana del procedere scientifico. Inoltre, come già accadeva anche per l’immagine galileiana della scienza, anche quella delineata da Einstein, ci consente di comprendere, a colpo d’occhio, la dimensione concettuale del procedere scientifico.
La scienza si instaura infatti entro quel delicato spazio concettuale che si delinea tra la polarità degli assiomi e quella della verifica sperimentale. Entro questa polarità si costruisce, appunto, l’intreccio critico specifico e concettuale di ogni singola disciplina scientifica. Proprio questo piano concettuale – specifico del procedere scientifico – viene in tal modo posto in piena evidenza, andando decisamente contro tutti i riduttivismi (basterebbe pensare a quello, classico, proprio della tradizione dell’empirismo, che, in tutte le sue differenti varianti – antica, medievale, moderna e contemporanea – ha sempre inseguito il sogno, irrealizzabile, di poter ricondurre, senza residui, il piano del pensiero al piano dell’esperienza).
Al contrario, lo straordinario disegno epistemologico einsteiniano ci ricorda – visivamente! – come questo riduzionismo dogmatico non possa mai essere realizzato, proprio perché cancella e oblitera unilateralmente la componente concettuale del pensiero scientifico. Quest’ultimo non è mai riducibile alle esperienze – sia pure quelle sperimentali – proprio perché nasce, invece, dal particolare intreccio critico che instaura, in ogni specifica disciplina, tra il piano del pensiero astratto e quello del Lebenswelt criticamente saggiato attraverso uno specifico apparato sperimentale che pone in essere una determinata procedura di verificazione o falsificazione delle conseguenze dei differenti apparati teorici.
Last but not least, lo schema einsteiniano pone in chiara evidenza come il punto di contatto tra un complesso apparato teorico, mediato dalla dimensione tecnologica, e il piano dell’esperienza sperimentale non ci consenta mai di fornirci una conoscenza «esaustiva» del mondo, perché, al contrario, ci consente solo di cogliere qualche «filo di verità» del mondo stesso. Proprio perché ogni teoria scientifica – come anche ogni apparato sperimentale e tecnologico – finiscono per delineare i confini precisi di una determinata «ontologia regionale» (per rubare una calzante espressione a Edmund Husserl, 1859-1938), mediante la quale costruiamo l’oggettività della conoscenza che può essere instaurata entro un determinato ambito disciplinare. Ma quest’ultimo non esaurisce affatto tutte le possibili e differenti conoscenze oggettive che l’uomo può elaborare al fine di approfondire costantemente la sua immagine conoscitiva del mondo.
In questo modo le considerazioni di Galileo e di Einstein ci aiutano a meglio comprendere come non esista affatto «un metodo» della scienza. Semmai sembra essere vero proprio il contrario: all’interno di ogni specifico e differente campo disciplinare lo studioso che vuol mettere capo a una determinata conoscenza oggettiva (scientifica) del mondo è sempre costretto a forgiarsi autonomamente le proprie categorie concettuali, i propri linguaggi, i propri criteri di verificazione e di falsificazione, le proprie vie sperimentali, eccetera, onde riuscire effettivamente a costruire una disciplina e delle teorie in grado di approfondire, in quel determinato campo di indagine, la nostra conoscenza del mondo.
Il che, come è agevole comprendere, ci deve allora indurre a ripensare anche alla tradizionale immagine del sapere, avendo la capacità di riformulare i rapporti che si possono instaurare tra le differenti aree disciplinari, abbandonando ogni chiusura dogmatica e anche la presunzione che possano davvero esistere discipline dotate di una presunta «superiorità» rispetto ad altri ambiti della conoscenza umana.
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Fabio Minazzi
(Università degli Studi dell’Insubria)