I viventi sono sempre stati in qualche misura di scandalo, di inciampo nella costruzione di un edificio scientifico che racchiuda in sé tutti gli enti naturali. Due aspetti in particolare contribuiscono alla loro unicità.
Il primo è che essi hanno una profondità storica. I viventi portano in sé e sono in grado di trasmettere i contenuti di una memoria organica di eventi che si perdono in un lontanissimo passato. Anzi essi, materialmente, coincidono con questi stessi contenuti, tanto che ogni vivente, in tutte le sue componenti, può essere considerato come il risultato di una trasmissione ereditaria. Per questo le scienze biologiche non possono prescindere da una dimensione storica, lungo la quale corre un incessante tramandarsi di svariatissime forme. Chi osserva e studia i viventi si trova di fronte, in una certa misura, a innumerevoli testimonianze di fatti unici, di cui è facile sospettare l’irripetibilità, nonostante l’apparire di traiettorie comuni e forse predicibili nell’emergere storico delle forme viventi [1].
Una seconda peculiarità degli oggetti che la Biologia studia è che noi siamo uno di essi. Ognuno di noi fa esperienza immediata della condizione di vivente, tanto che alla Biologia si accompagna un privilegio unico: che, al di là di tutto ciò che mai essa potrà scoprire, e in corrispondenza con gli scenari sempre più complessi che essa potrà rivelare, noi sempre sapremo – per così dire – dall’interno, indipendentemente da ogni percorso scientifico, di che cosa si tratta. Noi non sappiamo che cos’è l’essere di una cosa inanimata allo stesso modo in cui, per esperienza diretta, sappiamo che cosa è l’essere di un vivente. Questo espone continuamente la conoscenza dei viventi costruita con gli strumenti dell’indagine scientifica a un confronto con la conoscenza, del tutto pre-scientifica, dello stato di vivente di cui ognuno di noi fa esperienza [2].



Le macromolecole biologiche

A partire dalla metà del XX secolo, l’indagine biologica cominciò a soffermarsi in modo sempre più deciso su tre classi di macromolecole biologiche – proteine, DNA e RNA – riconosciute come responsabili di tutte le strutture e funzioni biologiche e della loro ereditabilità secondo gli accenti unici di ogni diversa specie vivente. Le istruzioni ereditarie per la sintesi delle proteine sono depositate e accessibili nel DNA. Esse vengono utilizzate a questo fine grazie all’intervento di tre diversi tipi di molecole di RNA le quali, in un processo orchestrato secondo un insieme di regole universali – il codice genetico -, cooperano all’assemblaggio di proteine secondo istruzioni scritte in forma di sequenze nucleotidiche [3,4].
A partire dalla fine del XX secolo, la capacità di analizzare con sempre maggiore facilità la sequenza nucleotidica completa del DNA degli organismi, cioè il loro corredo di istruzioni genetiche, si è accompagnata a un aumento impressionante della capacità analitica anche nei confronti di RNA e proteine. Gli sviluppi post-genomici della biologia molecolare si contraddistinguono così per l’immensa mole di dati su cui si basano gli studi sperimentali; ma anche per le difficoltà riscontrate nei tentativi di far emergere nuova conoscenza da tali dati [5].
L’imponenza di questi sviluppi e, insieme, le difficoltà che essi comportano spingono a chiedersi se, per quali vie e fino a che punto la descrizione molecolare spinta all’estremo dei sistemi viventi e dei loro stati – in termini di identità, concentrazione e interazioni di proteine, DNA, RNA – possa portare a una loro rinnovata comprensione. In che misura le risposte ottenute spiegheranno l’oggetto interrogato?
E porsi queste domande non può prescindere dall’interrogarsi su come è emerso, nella storia del cammino scientifico, l’insieme di conoscenze che formano l’ossatura della Biologia moderna. In particolare: come è avvenuto che, ponendo lo sguardo sui viventi, abbiamo finito per portarlo su qualcosa di sempre più piccolo, fino a fissarlo su alcune delle specie chimiche che entrano nella loro costituzione organica, cercando di discernere in esse la rappresentazione essenziale di ciò in cui ogni vivente, in ultima analisi, consiste?
Il tentativo di rispondere a questa domanda porta a individuare alcuni passaggi fondamentali delle scienze biologiche: scoperte, intuizioni o paradigmi che hanno contribuito in modo particolare alla costruzione di una visione scientifica (e, inevitabilmente, anche non scientifica) del vivente. La messa a fuoco di tali passaggi rende evidente come, nello studio dei viventi, l’approccio predominante sia stato dettato innanzitutto da ciò che di volta in volta si riteneva essenziale dell’organismo, ricapitolativo di esso. Scorgere questa dinamica all’opera nella storia recente della Biologia permetterà, da un lato, di apprezzare in modo più pieno e consapevole una delle più straordinarie avventure della scienza dell’ultimo secolo, dall’altro potrà forse portare alla luce nuove potenziali vie di indagine che, benché talora intraviste in passato, rimangono sostanzialmente inesplorate.



La teoria cellulare e il processo evolutivo

Nel XIX vennero proposte e progressivamente si affermarono due idee che rappresentano elementi irrinunciabili della nostra comprensione scientifica dei viventi: si tratta della teoria cellulare, formulata nel 1838-39 da Matthias J. Schleiden (1804–1881) e Theodor Schwann (1810-1882), e della teoria della discendenza comune di tutti i viventi attraverso un processo evolutivo, formulata in modo organico da Charles Darwin (1809-1882) nel 1859.

In entrambi i casi, l’attenta osservazione delle forme viventi e delle loro strutture, che poté essere spinta oltre le facoltà naturali dell’occhio grazie al microscopio, fu determinante in quanto carica dell’aspirazione a ricondurre la complessità e la molteplicità delle strutture viventi alla combinazione di unità costitutive semplici, e a dare ragione, in termini di processi naturali, di quella somiglianza nella diversità che è inevitabile cogliere per analogia fra tutte le forme di vita.
Darwin ricondusse un immenso corpus di conoscenze di ambiti tradizionalmente diversi (morfologia, zoologia, botanica, fisiologia, zootecnia, geologia, demografia) a un quadro esplicativo rigoroso e unitario della diversità delle forme viventi, proponendo una loro origine comune secondo un processo di evoluzione attraverso le ere della storia naturale. I dati su cui Darwin ebbe a riflettere derivavano innanzitutto dall’osservazione di ciò che esiste in natura, dal confronto fra le forme dei viventi e le loro parti anatomiche, dal contesto ambientale in cui queste forme si manifestano.
La centralità delle forme e delle loro analogie conduce a pensare a Johann Wolfgang Goethe (1749 – 1832) e alla morfologia che egli aveva immaginato come disciplina scientifica autonoma, una teoria della formazione e trasformazione delle nature organiche. Le leggi interne dell’organizzazione biologica sarebbero altre rispetto a quelle che regolano le forze chimico-fisiche di cui la vita fa uso: la morfologia si porrebbe come lo studio scientifico di tali leggi [6]. Questa visione, espressione di una filosofia del vivente molto lontana da quella darwiniana, non si impose nei secoli successivi. Tuttavia la sua forza, che si accrebbe nello stesso Goethe con la lettura della Critica del giudizio di Kant (che finiva col sostenere l’irriducibilità delle leggi dei viventi a quelle chimico-fisiche del mondo inorganico), non venne mai meno completamente in seguito, nella misura in cui è insopprimibile in noi il senso dell’unicità dei viventi (e quindi nostra) rispetto agli altri enti naturali. Forse per questo la morfologia goetheana, lungo più di un secolo, fu variamente recuperata (e indebitamente neutralizzata) come anticipazione del pensiero evoluzionistico.
Lo zoologo tedesco Ernst Haeckel (1834-1919), per esempio, riprese e sviluppò elementi della morfologia guardando in particolare alla teoria dell’evoluzione di Darwin, di cui fu un entusiasta sostenitore. In bellissime raccolte di tavole naturalistiche illustrate, Haeckel cerca di far emergere la natura vivente come sede di una produttività artistica originaria, attraverso esercizi di morfologia comparata che dovrebbero mostrare, in una sintesi estetica, l’operare delle leggi della trasformazione e le relazioni di discendenza fra i viventi secondo l’adattamento all’ambiente e l’ereditarietà [7].
La diversità delle forme viventi, la loro inspiegabile bellezza, sono fonte di esaltazione e, nello stesso tempo, di uno struggimento legato alla ricerca appassionata di un fondamento unitario, come testimoniato da famosi versi di Goethe (in Metamorfosi delle piante): «Simili tutte le forme, e nessuna identica all’altra./ Così allude il coro a una legge occulta, a un sacro enigma./ Oh potessi, gentile amica, svelartelo con una parola! ».
Un passo di straordinaria importanza verso la «legge occulta» a cui «allude il coro», verso l’individuazione di un fondamento unitario di tutte le forme di vita, fu la maturazione e l’elaborazione della Teoria cellulare. Va sottolineato come il concetto di cellula fosse inizialmente il frutto di una elaborazione teorica, vincolata più alle esigenze di una costruzione idealistica «a priori» della conoscenza che all’osservazione.
All’inizio del XIX secolo, nell’ambito della Naturphilosophie, si cominciò a concepire l’organismo come combinazione di monadi vitali, cellule, da cui «tutti gli organismi più grandi prendono forma o evolvono» (L. Oken, Lehrbuch der Naturphilosophie, 1809-1811). La teoria cellulare vera e propria fu costruita pochi anni dopo da Schwann, stavolta sulla base di osservazioni micro-morfologiche, ma fu anch’essa dettata dal bisogno di individuare un principio comune di tutta la diversità di strutture e specializzazione di funzioni dei diversi tessuti degli organismi.
Schwann si spinse oltre, intuendo che le trasformazioni e le interazioni cellulari sono a loro volta analizzabili in base all’analogia delle forze e dei processi che governano la natura inorganica.



 

 

L’avvento della biologia molecolare

 

Questa intuizione introduce un terzo passaggio fondamentale, che maturò nei primi decenni del Novecento e sfociò nell’avvento e nell’affermarsi imperioso della Biologia molecolare.
Esso fu in realtà preparato, nei primi anni del secolo, dalla riscoperta degli studi di Gregor Mendel (1822-1884) e dalla teoria cromosomica dell’ereditarietà. La straordinaria conclusione di Mendel, resa possibile dall’applicazione di strumenti matematici allo studio dell’ereditarietà biologica, fu che ci sono elementi discreti del patrimonio ereditario, che controllano la comparsa di singoli caratteri.

Con la teoria cromosomica dell’ereditarietà le particelle ereditarie di Mendel, e con esse il principio unificatore del mondo vivente, cominciarono a essere cercati in strutture interne alla cellula, molto più piccole della cellula stessa: i cromosomi. Passaggio di enorme portata, poiché con i cromosomi ci si avvicinava sempre di più al mondo delle entità chimiche.
È molto significativo che, in questa fase cruciale, sia stata la speculazione di un fisico, Erwin Schrödinger (1887-1961) [8], ad aprire di fatto la strada a una corrente di pensiero che fece infine convergere su una molecola, su una particolare specie chimica, la ricerca di quella parola che da sola svela la legge occulta a cui allude il coro dei viventi (per riprendere l’immagine di Goethe).
Nello stesso anno 1943 Oswald Avery (1877-1955) e collaboratori fornirono la prima evidenza sperimentale che il DNA agisce come principio molecolare in grado di indurre nelle cellule cambiamenti ereditabili [9]. Il loro studio rappresentò un passaggio di straordinaria importanza: esso mostrava che è possibile trasformare un vivente, modificarne in un certo senso l’identità in modo ereditabile, semplicemente attraverso una molecola. Quello che sembra esserci di più intimo nelle cellule, ciò su cui si basa anche la generazione dei viventi e la loro evoluzione, era stato smascherato come molecola, specie chimica. Gli approcci e le tecniche tipiche della chimica e della fisica potevano ora essere usati nell’esplorazione di un territorio che si apriva vastissimo.
Era diventato possibile avvicinarsi sempre più al «segreto» della vita, alla sua essenza, semplicemente studiando una molecola e le sue proprietà. Questo è testimoniato dalle grandi scoperte degli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo relative alla struttura e meccanismo di replicazione del DNA, e alla decifrazione del codice genetico e dei meccanismi di base della biosintesi delle proteine guidata dalle istruzioni contenute nel DNA.
Nel celebre studio di James Watson (1928-… ) e Francis Crick (1916-2004) sulla struttura del DNA non c’erano organismi, esso si basava sull’interpretazione di dati cristallografici e accurata speculazione [10]. La successiva decifrazione del codice genetico, forse la più straordinaria delle scoperte in biologia, fu un lavoro essenzialmente chimico, anche se le sue implicazioni per la comprensione del fenomeno della vita sono ancora lontane dall’essere pienamente apprezzate [4].
Così, dalla seconda metà del XX secolo, comincia a imporsi la convinzione di avere trovato la parola che svela la legge occulta: essa è scritta in una specie chimica, una macromolecola che si presta ad essere considerata come un testo, il DNA. La diversità delle forme viventi non sarebbe altro che la manifestazione di innumerevoli possibili varianti di questo testo. «Le proprietà ereditarie di ogni organismo saranno caratterizzate da un lungo numero» scriveva nel 1954 l’astrofisico ucraino George Gamow (1904-1968), in una riflessione teorica che anticipò lo svelamento del codice genetico [11].
Secondo il «dogma centrale della biologia molecolare» formulato da Crick, le istruzioni scritte nel DNA possono essere copiate (duplicazione del DNA), o trascritte in RNA come premessa per la loro traduzione in proteine; l’RNA può fungere in certi casi anche da stampo per la sintesi di DNA; ma vi sono passaggi «proibiti» la cui scoperta farebbe vacillare l’intera base intellettuale della biologia molecolare: primo fra tutti, la copiatura delle proteine, che renderebbe possibile una eredità indipendente dal DNA [3].
Con gli sviluppi su DNA, codice genetico e «dogma centrale» si impose una visione degli organismi come attuazioni di una serie di istruzioni numeriche. D’altro canto, l’esecuzione di queste istruzioni è dovuta alle proteine, la cui esplorazione strutturale mediante la cristallografia a raggi X cominciò a portare questi oggetti chimici misteriosi al livello di qualsiasi altra molecola. Con una importante novità, tuttavia: vennero svelate forme che colpiscono fortemente per la loro eleganza, in modo analogo alle forme della natura animale e vegetale che esaltavano Haeckel. Ma le proteine rimasero in qualche modo in subordine, come esecutori, certo sorprendentemente perfetti nel loro agire, ma pur sempre esecutori di un programma che risiede, in ultima analisi, nel DNA.

 

 

La rivoluzione genomica

 

Da tale visione DNA-centrica prese le mosse, allo scoccare del millennio, la cosiddetta «rivoluzione genomica». Essa poggiava sulla speranza che la conoscenza integrale del «testo» genomico (secondo l’affermata metafora del genoma come «libro della vita») avrebbe permesso lo svelamento totale del programma della vita.
Nel 2000, il completamento di questa operazione sul genoma umano venne annunciato con grande enfasi dal Presidente americano Clinton. Negli anni di poco precedenti e in quelli successivi, fino ai giorni nostri, sono state completate le sequenze del DNA di molte centinaia di organismi. Questo tipo di attività prese il nome di genomica (inizialmente il nome di una nuova rivista, Genomics, che si faceva portatrice di «un nuovo modo di pensare la Biologia»).

Con grande irruenza negli anni successivi i suffissi «–oma» e «-omica» dilagarono, secondo un vago criterio di analogia, venendo utilizzati per indicare approcci, spesso basati su metodiche riconducibili alla chimica analitica, volti soprattutto alla compilazione di inventari di macromolecole (DNA, proteine, RNA, ma anche lipidi; da cui «proteomica», «trascrittomica», «lipidomica», eccetera), e di interazioni fra macromolecole («interattomica»).
Il proliferare delle «–omiche», che interessa anche il momento presente, rappresenta l’esito di un processo di riduzione degli organismi all’insieme delle loro molecole, concomitante con una eclissi quasi totale della forma come elemento determinante degli organismi, e quindi della morfologia come fonte di vera conoscenza su di essi. Ma, d’altro canto, la frenesia analitico-compilativa sottrae autorevolezza alla stessa biologia molecolare meccanicistica: questa infatti, focalizzandosi sulle singole macromolecole biologiche per scoprire come funzionano, tende a venire negativamente connotata come riduzionistica [5]. Quindi da un lato viene meno l’interesse per l’organismo quale esso si manifesta nel mondo, dall’altro per i meccanismi molecolari da cui esso dipende. Che cosa rimane? La biologia delle «-omiche» tende di fatto a diventare una branca specializzata della chimica analitica [a].
È dubbio che partendo da informazioni su tutte le specie molecolari di una cellula, sulle loro concentrazioni, sulle loro interazioni, si possa costruire un modello in grado di descrivere la cellula stessa. La messa a punto di approcci e strumenti concettuali che permettano di ricondurre i dati «-omici» a una nuova e più piena comprensione dei sistemi viventi informa di sé una tendenza emergente della biologia contemporanea, la cosiddetta systems biology, che beneficia di enormi investimenti, ma di cui non è facile reperire definizioni rigorose e univoche in termini di scopi e metodologie. Da un lato essa si pone come un approccio anti-riduzionistico, pur basandosi largamente su misure quantitative multiple in parallelo di componenti molecolari delle cellule. Dall’altro essa si pone come approccio incentrato sulle proprietà d’insieme del sistema biologico, ma allora tende a rendersi riconoscibile come una disciplina stabilita da secoli, la Fisiologia [12].
La carenza di fondo che lascia ancora prevalere una disorientata, per quanto tecnologicamente impressionante, frammentazione specialistica in Biologia, sembra riguardare i fondamenti teorici della Biologia stessa. Perché i dati innumerevoli delle «-omiche» possano essere convertiti in conoscenza – ha notato recentemente il premio Nobel Sidney Brenner (1927- … ) – «la Biologia ha urgente bisogno di una base teorica che la unifichi» [5].

 

 

Nuove vie di indagine

 

Si tratta di una affermazione che può apparire sconveniente, dopo un secolo di trionfi, ma che è salutare non trattare con sufficienza. Per questo credo che sia utile, rispetto al quadro attuale, individuare vie di indagine – alcune già tracciate, altre solo intraviste- che potrebbero restituire alla Biologia uno spessore che essa sembra aver perso, nella misura in cui si è appiattita sul dualismo genotipo-fenotipo e sull’idea di una riconducibilità dei viventi a inventari ragionati di molecole e interazioni. Tali vie vengono qui solo accennate in modo schematico.
La Biochimica e la Biologia molecolare «classiche», concentrandosi sulle proprietà strutturali e funzionali di singole macromolecole biologiche con approcci chimico-fisici, e sui meccanismi di funzionamento dei macchinari multiproteici che operano in ogni cellula, continueranno ad ampliare con grande efficacia (e proprio in virtù dell’assetto riduzionistico che le contraddistingue) le nostre conoscenze, anche a fini applicativi.
In linea con la semplice constatazione che ogni cellula non prende forma da un DNA, ma innanzitutto da un’altra cellula, l’eredità biologica non passa solo attraverso il DNA. È ormai indubbio che proteine e complessi multiproteici possono controllare tratti ereditari, anche mediante processi («eretici» rispetto al dogma centrale, e largamente inesplorati) di copiatura da proteina a proteina, come mostrato nel caso delle proteine prioniche [13,14]. Altre proteine, che controllano le caratteristiche cellulari agendo come fattori di regolazione dell’espressione del genoma, mantengono in questo modo anche la propria stessa espressione e, tramandate a una cellula figlia, inducono in essa le stesse caratteristiche della cellula madre, per molte generazioni [15]. La portata di questi fatti, che esemplificano in modo particolarmente stringente la cosiddetta eredità epigenetica [b], è immensa, anche rispetto ai meccanismi dell’evoluzione; essa, tuttavia, deve ancora essere adeguatamente apprezzata.
La ricerca teorica non gode generalmente di molto credito in ambito biologico. Il chiarimento di aspetti centrali della Biologia mediante approcci non sperimentali basati sulla matematica e la geometria, o l’introduzione di nuovi paradigmi che consentirebbero un più pieno riconoscimento delle peculiarità dei viventi, stentano ad essere adeguatamente apprezzati [4,16,17].

Eppure i contributi teorici si sono sempre rivelati di grande influenza in occasione dei passaggi fondamentali della storia della Biologia moderna. Occorrerebbe non dimenticare che quanto meno un aspetto è accessibile all’intervento sperimentale, tanto meno esso contribuirà a dettare la rappresentazione del vivente che la biologia sperimentale ne dà, indipendentemente dalla sua rilevanza. L’iniziale riconoscimento di tali aspetti per via non sperimentale può essere inaspettatamente fecondo.
Similmente, nonostante alcuni contributi della riflessione filosofica sul vivente, come per esempio la biologia filosofica di Hans Jonas (1903-1993) [18], siano di straordinaria rilevanza, il loro impatto su ciò che degli esseri viventi si studia e si insegna è nullo o marginale.
La persistente tentazione di considerare gli organismi come macchine, la cui comprensione e spiegazione ultime non potrebbero essere che meccanicistiche, ignora un fatto eminente di cui ognuno è testimone, nonostante esso sfugga a ogni ricostruzione scientifica: quel darsi della realtà attraverso la nostra vita che permette di cogliere noi, e quindi ogni vivente, come espressione, a diversi gradi, di una interiorità ignorando la quale anche la più elementare forma di vita diventerebbe incomprensibile perché irriconoscibile [b].

 

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Giorgio Dieci
(Università degli Studi di Parma)

 

 

Note

  1. Rispetto all’eclissi dell’organismo, è emblematica la recente spedizione oceanografica, esplicitamente ispirata a quella del Challenger, dello yacht Sorcerer II, che ha percorso i mari di tutto il mondo raccogliendo campioni delle comunità microbiche marine al solo fine di sequenziarne in modo massivo il DNA. In approcci di questo tipo, definiti «metagenomici», gli organismi sono innanzitutto rappresentati dalle loro sequenze di DNA (e dalle dedotte sequenze proteiche)
  2. Per una recente trattazione generale dell’epigenetica in una prospettiva storica, cf. Soave, C. Le novità nella biologia. Nascita e prospettive dell’epigenetica, Emmeciquadro n° 50, Settembre 2013.

 

 

Indicazioni bibliografiche

  1. Conway Morris, S. (2009) The predictability of evolution: glimpses into a post-Darwinian world, Die Naturwissenschaften 96, 1313-1337
  2. Dieci, G. (2013) The elusive life. Incisiveness and insufficiency of mechanistic biology, Euresis J 4, 57-73
  3. Crick, F. (1970) Central dogma of molecular biology, Nature 227, 561-563
  4. Barbieri, M. (2008) Biosemiotics: a new understanding of life, Die Naturwissenschaften 95, 577-599
  5. Brenner, S. (2010) Sequences and consequences, Philosophical transactions of the Royal Society of London. Series B, Biological sciences 365, 207-212
  6. Lenoir, T. (1987) The Eternal Laws of Form: Morphotypes and the Conditions of Existence in Goethe’s Biological Thought, Boston Studies in the Philosophy of Science 97, 17-28
  7. Canadelli, E. (2006) Icone organiche. Estetica della natura in Karl Blossfeldt ed Ernst Haeckel, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni (MI)
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  10. Watson, J. D., and Crick, F. H. C. (1953) A structure for deoxyribose nucleic acid, Nature 171, 737-738.
  11. Gamow, G. (1954) Possible relation between deoxyribonucleic acid and protein structures. Nature 173, 318
  12. Noble, D. (2008) Claude Bernard, the first systems biologist, and the future of physiology, Experimental physiology 93, 16-26
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  15. Ptashne, M. (2013) Epigenetics: core misconcept, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America 110, 7101-7103
  16. Meinhardt, H. (2006) From observations to paradigms; the importance of theories and models. An interview with Hans Meinhardt by Richard Gordon and Lev Beloussov, The International journal of developmental biology 50, 103-111
  17. Zaniboni, M. (2008) D’Arcy Thompson, Hans Meinhardt, Art Winfree: Tre fisiologi geometri, Didattica delle Scienze 258, 5-11.
  18. Jonas, H. (1999) Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, Einaudi, Torino.

 

 

 

 

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