La questione del valore di verità della scienza e, più in generale, della conoscenza umana negli ultimi secoli è stata al centro del dibattito filosofico e non soltanto. La domanda centrale è dunque se la scienza ci dà una conoscenza vera, certa e «stabile» nel tempo.
La conoscenza scientifica è senz’altro una forma di conoscenza molto particolare, perché non si accontenta di dare un’interpretazione o una visione della realtà (come per esempio fanno le scienze umane come la sociologia, l’arte o la letteratura, la musica e anche la filosofia), ma pretende di capire come e perché in Natura accadono determinati fenomeni e come l’uomo può agire su di essi, anche da un punto di vista tecnico e tecnologico, per ottenere un beneficio per la società o per migliorarne le condizioni di vita.
La scienza – intendendo qui la scienza della Natura – insieme al progresso della tecnica e delle più diverse e avanzate tecnologie, aspira a raggiungere una conoscenza che sia vera e finché non la raggiunge e non ne ha le evidenze/prove concrete (si pensi ad esempio all’ormai celebre bosone di Higgs, «scoperto» al CERN di Ginevra a luglio 2012, confermato a marzo 2013 dopo ulteriori studi e ricerche, quasi quaranta anni dopo essere stato ipotizzato dai fisici teorici) non si può ritenere soddisfatta, perché rimane sul piano dell’incertezza, o meglio dell’ipotesi, della probabilità, e sul piano dell’indagine e della ricerca.
Non a caso, il termine greco epistéme significa etimologicamente «stare fermi e saldi» o semplicemente «stare su», e quindi qualcosa di stabile e solido, fondato, che non ha bisogno di altri sostegni esterni. Non si può dire infatti di avere scienza finché di un fenomeno non si sono comprese le cause e dunque il suo «processo», fino a poterlo ripetere e/o prevedere nel futuro.
È proprio il «metodo scientifico» che rende la scienza un sapere unico nel suo genere: una volta che ha guadagnato un risultato, che ha scoperto un nuovo elemento, tale dato dovrebbe essere, almeno generalmente, verificabile empiricamente da chiunque altro si ponga nella stessa situazione, perché il dato scientifico, per come è stato raggiunto, è di per sé oggettivo e universale; e non può essere soggettivo né di proprietà esclusiva di uno scienziato e nemmeno relativo a un singolo esperimento.
La scienza, se è tale, non è scienza di singoli casi specifici, ma mira a comprendere le ragioni e le cause di classi di fenomeni, di oggetti, di specie, eccetera, e, come sopra accennato, ha inoltre potere predittivo: ossai consente di definire la dinamica di un fenomeno in un determinato contesto e fatte salve alcune constanti e condizioni di contorno ritenute normali.
La dimensione storica della scienza
Certamente nella storia del pensiero scientifico gli scienziati hanno considerato vere alcune teorie o hanno pensato di aver trovato le leggi che regolano la Natura, ma, successivamente, quelle teorie si sono rivelate incomplete, sbagliate (almeno in parte), parziali e a volte «superficiali».
La scienza è dunque popperianamente fallibile? Anche se in qualche caso o qualche volta, nel tempo, la scienza sbagliasse, questo non ci dovrebbe scandalizzare, almeno per due ragioni: da una parte è un’attività umana, e come tale è soggetta a errori e mancanze, così come a pregiudizi o influenze da parte del contesto e dell’ambiente in cui viene elaborata e, dall’altra parte, progredisce e si sviluppa nella storia e quindi, nel tempo, comprende meglio le realtà che indaga e, tenendo fede alla sua ricerca della verità, è pronta a correggersi, se necessario anche negando quanto affermato in precedenza e andando in direzione contraria.
Senza rischiare di cadere ora in una posizione relativista, la scienza produce una conoscenza vera, ma naturalmente non «sganciandosi» dal tipo di realtà che ha studiato, dalla metodologia che ha utilizzato perché disponibile in quel momento e dallo scopo con cui «interrogava» tale fenomeno: il legame unico che sussiste tra la conoscenza scientifica e la realtà – ossia l’adeguamento, formale o meno, tra quanto la scienza ha conosciuto e come la realtà è de facto, secondo la filosofia di S. Tommaso d’Aquino – è la garanzia della sua veridicità insieme all’onestà intellettuale del ricercatore nel portare avanti l’indagine sulla realtà che, sempre, offrirà nuovi campi su cui lavorare o provocherà l’uomo con nuovi fenomeni con cui confrontarsi.
Per concludere questa breve analisi, i successi della scienza – raggiunti molte volte per mezzo dell’applicazione tecnologica da essa derivata – da una parte confermano l’intelligibilità del reale e, dall’altra, consentono di dare fiducia alle capacità cognitive dell’uomo.
L’uomo ha una sete infinita di conoscere la verità, ossia di conoscere come stanno le cose nella realtà e quindi come «veramente» sono, e la ricerca instancabilmente perché solo nella verità troverà la sua piena soddisfazione e il suo «riposo», perché conoscere la verità è il bene dell’intelletto.
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Valeria Ascheri
(Pontificia Università della Santa Croce, Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare, Roma)