La comunissima emoji di un pollice rivolto verso l’alto può assumere la validità di una vera e propria firma. A stabilirlo è stata una particolare sentenza pronunciata in Canada nei confronti di un agricoltore che aveva ricevuto una proposta di contratto per una fornitura di cereali. I fatti risalgono al 2021 quando l’agricoltore aveva ricevuto un contratto per la consegna di 87 tonnellate di cereali nel mese di novembre. La comunicazione si concludeva con la richiesta di una conferma.



L’uomo ha risposto semplicemente con l’emoji del pollice in su, un segnale che è stato interpretato come un segno di accordo dall’azienda che intendeva commissionare la fornitura. Tuttavia, nel periodo stabilito la merce non è arrivata: i titolari dell’impresa hanno così fatto causa all’agricoltore, chiedendo i danni. L’agricoltore coinvolto in questa curiosa – ma costosa – vicenda si è difeso affermando di aver inviato il pollice in su per confermare di aver ricevuto la comunicazione, ma non per accettare la proposta di contratto per la fornitura. E così la vicenda è finita in tribunale. Il giudice della provincia canadese di Saskatchewan, T.J. Keen, ha ritenuto l’emoji come una vera e propria firma e nella sentenza ha scritto che “la Corte riconosce che non è un modo tradizionale di firmare – come traduce TgCom24 – ma in queste circostanze resta valido“.



Emoji del pollice in su vale come una firma: l’incredibile caso canadese

L’emoji del pollice in su può avere la valenza di una firma e, nel caso dell’agricoltore in questione, può costare anche molto cara: oltre 61.000 dollari canadesi, pari a circa 42.000 euro. Il giudice ha infatti ritenuto che quel segno corrispondesse alla firma di un accordo tra le due parti. Alla base di questa decisione c’è anche il fatto che l’agricoltore e l’azienda in questione avessero già avuto altri contatti. In particolare, in passato l’azienda aveva già commissionato la consegna di prodotti agricoli e l’uomo aveva sempre risposto con “yup” oppure con delle emoji.



Ecco perché quel pollice in su era stato interpretato come l’accettazione del contratto proposto, dato che in passato l’agricoltore aveva sempre consegnato la merce e dunque rispettato gli accordi. Per il giudice questa è stata la dimostrazione che tra le parti le risposte concise equivalevano a una conferma. “La Corte non può, né dovrebbe, tentare di arginare la tecnologia” ha precisato il giudice nella sentenza, spiegando che questa è “la nuova realtà” con cui i tribunali dovranno confrontarsi.