Il Papa ha reso pubblica l’enciclica Dilexit Nos due giorni prima della chiusura del Sinodo dei vescovi che si è svolto in Vaticano nell’ottobre scorso. Molti hanno letto questa occasione come un potente richiamo rivolto a tutti ad attingere all’unica fonte che permette il fiorire di un vero rinnovamento della vita della Chiesa e di ogni battezzato: il cuore colmo di amore di Cristo che si offre totalmente al cuore di ciascuno di noi.
Mi colpisce questo richiamo perché proprio nell’ultima parte di questa bellissima enciclica Papa Francesco ci invita a cercare di approfondire la dimensione comunitaria, sociale e missionaria di ogni autentica devozione al Cuore di Cristo. Infatti, nello stesso momento in cui il Cuore di Cristo ci conduce al Padre, ci invia ai fratelli e ci chiama a dare la vita.
In questa ultima parte sono tante le testimonianze dei santi che il Papa cita in cui riconosciamo Gesù che parla della sua sete di essere amato, mostrandoci che il suo Cuore non è indifferente alla nostra reazione al suo desiderio. Ad esempio a santa Maria Alacoque: “Ho sete, una sete tanto ardente di essere amato dagli uomini nel Santissimo Sacramento che mi consuma. Eppure non trovo nessuno che, secondo il mio desiderio, tenti di dissetarmi corrispondendo al mio amore” (165). La richiesta di Gesù è l’amore. Quando il cuore credente lo scopre, desidera ricambiare amore per amore.
E non c’è gesto più grande che possiamo offrirgli per ricambiare amore per amore che amare i nostri fratelli. La Parola di Dio lo dice con totale chiarezza: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).
Come è ricca la storia di questo cambiamento di vita fondato sull’amore. San Bernardo, San Francesco di Sales e san Charles de Foucauld vengono ricordati come imitatori di Gesù, desiderosi di vivere come Lui, agire come Lui, sempre bisognosi di conformarsi ai sentimenti del Cuore di Cristo. Poter rispondere all’amore con l’amore.
Tutto questo ci permette di comprendere, alla luce della Parola di Dio, quale significato dobbiamo dare alla “riparazione” offerta al Cuore di Cristo, che cosa il Signore si aspetta veramente che noi ripariamo con l’aiuto della sua grazia. Qui ci sono pagine molto interessanti su san Giovanni Paolo II che ha offerto una risposta chiara per orientare noi cristiani di oggi verso uno spirito di riparazione più in sintonia con il Vangelo.
San Giovanni Paolo II ha spiegato che, offrendoci insieme al Cuore di Cristo, sulle rovine che noi lasciamo in questo mondo con il nostro peccato, siamo chiamati a costruire una nuova civiltà dell’amore. Questo vuol dire riparare come il Cuore di Cristo si aspetta da noi. In mezzo al disastro lasciato dal male, il Cuore di Cristo ha voluto avere bisogno della nostra collaborazione per ricostruire il bene e la bellezza (182).
Ma i nostri atti di amore, di servizio, di riconciliazione, per essere effettivamente riparatori, richiedono che Cristo li solleciti, li motivi, li renda possibili; e non possono essere un semplice atto di giustizia commutativa, ci chiedono di riconoscerci colpevoli e chiedere perdono. Da questo onesto riconoscimento del male arrecato al fratello, e dal sentimento profondo e sincero che l’amore è stato ferito, nasce il desiderio di riparare (187).
E qui, con la sua geniale intuizione spirituale, santa Teresa di Lisieux ha scoperto che c’è un altro modo di offrire sé stessi, in cui non è necessario saziare la giustizia divina, ma permettere all’amore infinito del Signore di diffondersi senza ostacoli. Altrimenti il rifiuto della nostra libertà non permette al Cuore di Cristo di dilatare in questo mondo le sue “ondate di infinita tenerezza” e così attraverso la propria vita raggiungere gli altri e trasformare il mondo.
San Giovanni Paolo II, oltre a parlare della dimensione sociale della devozione al Cuore di Cristo, ha fatto riferimento all’azione missionaria della Chiesa stessa, perché risponde al desiderio del Cuore di Gesù di propagare nel mondo, attraverso le membra del suo Corpo, la sua dedizione totale al Regno (206).
E san Paolo VI acutamente osservava che la missione diventa una questione d’amore, e il rischio più grande in questa missione è che si dicano e si facciano molte cose, ma non si riesca a provocare il felice incontro con l’amore di Cristo che abbraccia e che salva. La missione richiede missionari innamorati, che si lascino ancora conquistare da Cristo e che non possano fare a meno di trasmettere questo amore che ha cambiato la loro vita. Le parole dell’innamorato non disturbano, non impongono, non forzano, solamente portano gli altri a chiedersi come sia possibile un tale amore. L’innamorato semplicemente spera che gli sia permesso di raccontare questa amicizia che riempie tutta la sua vita.
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