Si aprono nuove prospettive nella ricerca sulla fusione nucleare dopo un articolo recentemente pubblicato su Nature Communications da un team di ricercatori del Politecnico di Losanna (Svizzera), nel quale si dimostra come uno dei principali problemi dei reattori a fusione, la loro instabilità, possa essere risolto con l’impiego di tecniche finora inesplorate e più convenienti di quelle utilizzate tradizionalmente. Questo risultato rappresenta un importante passo verso la creazione di centrali capaci di generare elettricità sfruttando la fusione nucleare, la reazione alla base della produzione di energia nel cuore delle stelle.
Il processo di fusione avviene quando due nuclei di atomi simili all’idrogeno vengono uniti (fusi) liberando grandi quantità di energia secondo la famosa legge E=mc2 scoperta da Einstein. Per poter generare un numero sufficiente di reazioni di fusione, da non confondere con la fissione sulla quale si basano le centrali nucleari odierne, i gas utilizzati nei reattori devono essere riscaldati fino a centinaia di milioni di gradi. A queste temperature la materia si trasforma in una miscela dove i nuclei e gli elettroni che compongono gli atomi presenti in natura sono separati: il cosiddetto plasma.
Tali plasmi sono però altamente instabili a queste temperature e in alcuni casi possono oscillare fortemente e in maniera spesso imprevedibile, rendendo necessaria l’attivazione di sistemi di protezione che “spengono” il plasma per prevenire danni al reattore. Gli sforzi della comunità scientifica si stanno dunque concentrando su come ovviare a questo problema e ottimizzare la performance di Iter, un reattore in costruzione a Cadarache (Francia), il cui principale obiettivo è di generare un quantitativo di energia almeno dieci volte superiore a quello utilizzato per far funzionare la macchina stessa, chiamata tokamak.
Questo ambizioso traguardo sembra essere più vicino dopo la pubblicazione su Nature Communications dei risultati del gruppo guidato da Jonathan Graves. I ricercatori hanno messo alla prova una teoria da loro sviluppata secondo la quale il riscaldamento dei plasmi e il loro controllo può essere effettuato contemporaneamente. Uno di questi metodi, ad esempio, si basa sull’iniezione di onde elettromagnetiche che vengono assorbite dal plasma riscaldandolo, secondo un processo simile a quello che avviene nei forni a microonde.
La teoria proposta dai ricercatori dimostra che cambiando la direzione di propagazione di tali onde, le particelle che compongono il plasma tendono a muoversi lungo una direzione preferenziale. Questa direzione può essere modificata per controllare in maniera prevedibile l’evoluzione delle pericolose oscillazioni del plasma senza comprometterne il riscaldamento fino alle alte temperature richieste per innescare i tanto desiderati processi di fusione.
Le teorie del gruppo elvetico hanno trovato riscontro in una serie di esperimenti condotti al Joint european torus (Jet) di Culham (UK), il più grande tokamak funzionante al mondo. Il gruppo di ricercatori ha applicato la “ricetta” teorica a questo tokamak, che di fatto rappresenta una versione più piccola di Iter, e hanno osservato un comportamento del tutto in accordo con le previsioni. Ulteriori conferme sono poi arrivate da simulazioni numeriche dell’esperimento, che hanno consolidato la teoria alla base di questi studi.
La conseguenza più importante di questi risultati è la possibilità di utilizzare il nuovo metodo di stabilizzazione al posto di quelli tradizionali che, seppur testati in anni di ricerche e particolarmente affidabili, non sono favorevoli dal punto di vista energetico. Infatti, i sistemi di controllo impiegati prima di questa scoperta richiedono grandi quantitativi di energia per funzionare, diminuendo di conseguenza la performance del reattore.
Una volta affinata, la tecnica sviluppata dal gruppo di Graves, nel quale annoveriamo due ricercatori italiani, permetterà di rimpiazzare almeno parzialmente i sistemi di controllo tradizionali aumentando così il rendimento del tokamak. Grazie alla recente pubblicazione, i sostenitori della fusione hanno un argomento in più per motivare l’interesse in queste centrali che, vista anche l’assenza di scorie radioattive a lungo termine, rappresentano un’alternativa futura alle tecniche odierne di produzione di energia.