Bere, lavarsi e cucinare costa. Ma non tanto quanto dovrebbe. Se così non fosse, buona parte d’Italia non si troverebbe senza rete fognaria, senza acqua potabile e con acquedotti colabrodo. Comunque vada, così non si può andare avanti. Anche, e soprattutto, per evitare salate procedure d’infrazione europee. L’Authority dell’Energia, cui sono state attribuite le competenze sull’acqua, ha calcolato che, da qui ai prossimi anni serviranno 65 miliardi di investimenti per evitare che il sistema collassi. Chi paga? Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Carlo Stagnaro, direttore Ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni. «Che sarebbero serviti 65 miliardi era cosa nota. Tale cifra consentirebbe la riparazione e la manutenzione delle infrastrutture. E porrebbe rimedio alla situazione di quel 15% di popolazione che non dispone di fognatura e di quel 30% che non ha sistemi di depurazione». Situazione legata a colpe precise: «Si è prodotta, negli anni, una cattiva gestione politica derivante, a sua volta, dal fatto che le tariffe dell’acqua sono sempre state decise, sostanzialmente, dai sindaci. I quali, per convenienza elettorale, le hanno sempre mantenute basse nell’unico modo possibile: evitando di effettuare investimenti. Per cui, laddove l’acqua necessitava di essere potabilizzata, ha continuato a uscire dal rubinetto in palese violazione delle norme europee». Resta da capire come se ne esce. «Tanto per cominciare, emergerà, a breve, quanto sia stata pretestuosa la campagna referendaria contro la cosiddetta privatizzazione dell’acqua. I promotori, infatti, avevano invitato a votare sostenendo che così facendo le tariffe non sarebbero aumentate. Si è visto che è vero il contrario». Una prima soluzione consisterebbe quindi nel dar vita alle “famigerate” privatizzazioni. «Che poi, non si tradurrebbe di certo nella vendita dell’acqua in sé, che resterebbe di proprietà pubblica, quanto nell’affidamento della gestione dei servizi a operatori esterni. Detto questo, la privatizzazione, totale o parziale, è altamente auspicabile, dato che introdurrebbe criteri di efficienza nella gestione delle aziende idriche. Ricordiamo che, a oggi, non è una pratica vietate. Il referendum, infatti, rimuove l’obbligo ma non la possibilità. D’altro canto, dobbiamo pur sempre rispettare le normative europee relative alla depurazione delle acque».
Contestualmente, le regole che determinano il comportamento del gestore del servizio e le modalità con cui fissare le tariffe stanno venendo riscritte: «Si tratta di regole decise dall’authority, analoghe a quelle che regolano le tariffe per le reti elettriche e del gas. Il principio di fondo prevede che l’operatore sia remunerato attraverso le tariffe man mano che effettua investimenti, e non sulla promessa che investirà. Tali investimenti, inoltre, saranno remunerati in funzione delle condizioni del mercato, o dell’approvvigionamento al credito mentre, prima, erano remunerati a tassi fissi».
C’è da sperare che il previsto aumento delle bollette rimanga socialmente sostenibile. «Direi di sì perché, mediamente, le tariffe sono estremamente basse. Oltretutto, l’autorità introdurrà una tariffa sociale, prevedendo che le fasce reddituali più alte paghino un po’ di più per finanziare un ribasso di quelle più basse».
(Paolo Nessi)