Tra le venti azioni programmatiche messe a fuoco dal Governo quale obiettivo su cui concentrare sforzi e impegno nella ripresa post-feriale, oltre che per mantenere in equilibrio i conti pubblici e ridurre il debito complessivo delle nostre finanze, anche «per aggredire i principali fattori di debolezza strutturale dell’economia italiana», figura e non poteva mancare l’introduzione di una nuova disciplina (l’ennesima ma indifferibile) sui servizi pubblici locali.



La necessità di un intervento legislativo anche per tale materia, sottolineata in occasione della riunione del Consiglio dei ministri di venerdì 24 agosto, trae origine dai contenuti di una recente sentenza della Corte costituzionale (la numero 199/12) che, sul finire del mese di luglio, ha posto nel nulla il provvedimento – invero un poco rabberciato – con cui il legislatore aveva inteso colmare, nel pieno della scorsa estate, alla situazione di (apparente e comunque parziale) vuoto normativo venutosi a creare per effetto dell’esito della consultazione referendaria del 12 e 13 giugno 2011.



Con tale pronuncia la Consulta, decidendo sui ricorsi promossi da sei regioni, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 del dl 138/11, cioè della norma, rubricata come «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall’Unione europea», con cui era stata dettata la nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica in luogo dell’articolo 23-bis del dl 112/08, abrogato a seguito del referendum che, per quanto presentato dai promotori, non senza un certo populismo di facciata, come finalizzato solamente alla salvaguardia dell’“acqua pubblica”, si appuntava, in realtà, avverso l’intera regolamentazione dei servizi di interesse economico generale, recata, come detto, dal richiamato articolo 23-bis.



L’intento referendario era infatti quello – al di là di quanto riportato dalla vulgata giornalistica – di «escludere l’applicazione delle norme contenute nell’articolo 23-bis che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico)» (sentenza numero 24/2011) e di consentire, per conseguenza, l’applicazione diretta della normativa comunitaria conferente.

Abrogato l’articolo 23-bis per decisione della schiacciante maggioranza della popolazione italiana, il Governo allora in carica, consapevole di non poter lasciar sguarnito di disciplina un settore tanto delicato per l’economica nazionale, quale quello dei servizi pubblici locali, corse frettolosamente ai ripari, partorendo, a distanza di meno di un mese dalla pubblicazione del decreto dichiarativo dell’esito referendario, una nuova norma (l’articolo 4 del dl 138/11) che, oltre a essere contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto operante una drastica riduzione delle ipotesi di affidamento in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, risultava anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell’abrogato articolo 23-bis e del relativo regolamento attuativo contenuto nel dpr 168/10: con esclusione, però, dal relativo ambito di applicazione, del settore del servizio idrico integrato, così erroneamente assumendosi, da parte del nostro “scaltro” legislatore, di giocare la carta che avrebbe chiuso la partita (e soddisfatti gli effettivi, ultimi intenti del movimento di opinione che aveva portato all’indizione del referendum).

Ha però osservato la Corte costituzionale che «tenuto conto del fatto che l’intento abrogativo espresso con il referendum riguardava “pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica” (sentenza numero 24/2011) ai quali era rivolto l’articolo 23-bis, non può ritenersi che l’esclusione del servizio idrico integrato dal novero dei servizi pubblici locali ai quali una simile disciplina si applica risponda alla volontà espressa attraverso la consultazione popolare, con la conseguenza che la norma oggi all’esame costituisce, sostanzialmente, la reintroduzione della disciplina abrogata con il referendum del 12 e 13 giugno 2011», il che si pone in una condizione di irrimediabile contrasto con il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’articolo 75 della Costituzione, secondo quanto già riconosciuto, in numerosi precedenti, dalla giurisprudenza costituzionale.

In definitiva, la Corte ha ritenuto che l’impugnata disposizione avesse violato il c.d. “vincolo referendario”, che si giustifica alla luce di un’interpretazione unitaria della trama costituzionale e in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta delineati dalla nostra Carta, al solo fine di impedire che dell’esito della consultazione popolare possa venire vanificato l’effetto utile, senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da motivare una simile conclusione.

Ora, a strettissimo rigore, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 4 del dl 138/11, non genera un vero e proprio “vuoto normativo”, almeno con riferimento alle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali, posto che, come rilevato in altra occasione dalla stessa Corte costituzionale, si assiste a una riespansione della normativa comunitaria che, sul punto, tratta come modelli alternativi di gestione dei ss.pp.ll. l’affidamento: a) a società privata selezionata con gara; b) a società mista con partner privato sempre selezionato con procedura ad evidenza pubblica; c) a società pubbliche rispondenti allo schema organizzativo c.d. in house.

In questa prospettiva, almeno fino a un nuovo intervento del legislatore (quello annunciato dal Governo), e nella supplenza (transitoriamente) fornita dal diritto comunitario, la possibilità di dar corso ad affidamenti in house non risulta assoggettata alle penalizzazioni contemplate, prima, dall’articolo 23-bis e, poi, addirittura aggravate dall’articolo 4 (che ha ridotto da 900mila a 200mila euro all’anno il valore massimo dell’affidamento in house di ciascun determinato servizio).

Ancora per poco? Difficile a dirsi. Ciò che risulta evidente è che il legislatore si trova, in questa nuova opera di normazione, tra l’incudine e il martello: da un lato sa di non poter surrettiziamente reintrodurre norme plasmate sugli originari contenuti dell’articolo 23-bis e, nello specifico, di non poter fissare limiti economici all’affidamento di ss.pp.ll. secondo la logica “in house”; dall’altro non può non avvertire esigenze di coerenza sistematica, dal momento che il decreto sulla spending review (dl 95/12) contiene una norma (articolo 4, comma 8) che, per tutte le società pubbliche diverse da quelle erogatrici di pubblici servizi, limita la possibilità di affidamenti in house entro il limite dei 200mila euro annui (lo stesso limite che, come detto, il legislatore non potrebbe nuovamente introdurre per le società erogatrici di pubblici servizi, dopo la sentenza 199/12, se non correndo il rischio di esporsi alle medesime censure accolte con tale sentenza… che poi tutto questo risponda a canoni di eguaglianza e razionalità, è tutt’altro discorso).

L’annunciato intervento legislativo è nondimeno necessario, perché l’articolo 4, dl 138/11, dichiarato incostituzionale dalla Corte, contiene, come già prima conteneva l’articolo 23-bis, dl 112/08, abrogato ad esito del referendum, una disciplina relativa al c.d. regime transitorio: regolamentava cioè la scadenza anticipata degli affidamenti posti in essere in spregio delle regole al tempo vigenti (ad es. senza gara o a favore di un soggetto che non soddisfi le condizioni per l’in house).

Anche in questo caso, il compito che attende il legislatore non è semplice, essendo preso in mezzo, per così dire, da una duplice esigenza: quella di non poter riproporre una regolamentazione “a ricalco” della norma abrogata, da un lato, e quella di dover comunque approntare una disciplina sul punto per evitare che, ad approfittare della situazione, siano i soliti “furbetti” (espressione, questa, che per quanto sconsigliata dal premier Monti, qui appare quanto mai appropriata): infatti, allo stato, in assenza di una disciplina sulla scadenza anticipata degli affidamenti “fuori regola”, gli unici a trarne giovamento sarebbero proprio quei soggetti che hanno beneficiato di concessioni senza gara le quali, se non verrà diversamente disposto, potranno conservare la propria efficacia fino alla naturale scadenza.

Vedremo come il Governo si muoverà in questa delicata fase di transizione: il compito che l’attende è delicato, essendovi comunque la necessità di salvare un impianto di liberalizzazione che la norma dichiarata incostituzionale si era provata a concepire, fissando regole pregnanti dirette a normare un procedimento, di competenza dei singoli enti locali, teso a verificare, di volta in volta, l’esistenza o non delle condizioni per liberalizzare un’attività di pubblico servizio e subordinando la conservazione di diritti di esclusiva all’esito di tale approfondimento istruttorio; in una con la necessità di delimitare ambiti ottimali di erogazione dei servizi, atti a consentire il conseguimento di adeguate economie di scala e di differenziazione per massimizzare l’efficienza del servizio, il che rappresenta ormai un obiettivo imprescindibile stante il delicato stato in cui versa la nostra economia.

(Danilo Tassan Mazzocco)