Il sottosuolo italiano è ricco di petrolio e di gas: Basilicata e Mare Adriatico potrebbero raddoppiare la produzione e incrementare dal 10% al 20% i volumi di idrocarburi di origine nazionale, riducendo sensibilmente la dipendenza dall’estero. Così dice il recente documento ministeriale che traccia il percorso dell’energia nei prossimi decenni.
Provo a fare il punto della situazione. È ben noto che uno dei temi che incide in materia di competitività del nostro Paese è quello dell’energia. Pensiamo in particolare al prezzo elevato che cittadini e imprese pagano per carburanti, elettricità e gas. Tutto ciò si riconduce ad anomalie strutturali e vincoli che il sistema energetico italico trascina da decenni. Ma l’argomento energetico, nella sua accezione più politica e sociale, comporta anche nessi profondi con l’ambiente, il territorio e l’occupazione. Basti guardare ai recenti fatti accaduti in Sardegna, con la chiusura delle miniere di carbone del Sulcis o dell’industria di produzione dell’alluminio (che ne sarà dell’Alcoa?).
Abbandonata l’ipotesi di un ritorno al nucleare e compiuto il discutibile e onerosissimo mandato di diventare i campioni del mondo del fotovoltaico (abbiamo impegnato 100 miliardi di euro per installare quasi mezzo milione di impianti e siamo arrivati, nel 2012, sul gradino più alto al mondo), adesso chi ci guida si trova nella necessità di valutare se lasciarsi trascinare dagli eventi oppure provare a tracciare un percorso e soprattutto attuarlo.
In questo senso, già nel 2008 il Governo stabilì la necessità di dotarsi di uno strumento di pianificazione, introducendo l’obiettivo di realizzare e approvare la Strategia energetica nazionale (Sen). Dopo quattro anni, a fine legislatura, il Ministero dell’economia e quello dell’Ambiente hanno predisposto il documento: ne circola una bozza, con un centinaio di pagine sobrie e competenti, che ben illustra le finalità, indica le priorità e abbozza gli strumenti. Dal governo di tecnici, quindi, un buon prodotto tecnico.
La proposta messa sul tavolo, constatata una scarsa crescita dello scenario di fabbisogno energetico italiano dei prossimi anni, si impegna per ridare vivacità agli obiettivi di clima (gli annoiati obblighi di Kyoto e il ritornello “20-20-20” dichiarato dal parlamento di Strasburgo) e ribadisce il concetto strategico della sicurezza degli approvigionamenti. La parte più interessante della Strategia riguarda tuttavia l’individuazione delle priorità per le nuove linee di politica energetica. Il governo ne indica sette.
Si ribadisce innanzitutto la centralità di un futuro basato sulle fonti rinnovabili (sole e vento, biomasse e idroelettrico) e si ipotizza un obiettivo ambizioso, senza nascondere quanto sia complicato perché richiede elevati investimenti, con incentivi necessariamente più contenuti e con onerose ricadute economiche e gestionali sul sistema. Il documento, con una seconda priorità, riporta al centro dell’attenzione la vocazione di Paese destinato a un grande utilizzo del metano, rilanciando investimenti (terminali marini per il Gnl e caverne per lo stoccaggio) che facciano dell’Italia il nodo continentale dei grandi gasdotti (vero e proprio hub europeo del gas). Ben che vada, per i prossimi 10 anni, il gas naturale continuerà a rappresentare non meno del 60% per la produzione elettrica italiana.
Tra le priorità del Governo vale inoltre la pena sottolineare l’inevitabile e irrinunciabile inserimento degli obiettivi di efficienza energetica. Però su questa materia siamo a traino dell’Europa: molto è stato fatto (si pensi alle etichette di consumo sugli elettrodomestici o alla certificazione energetica degli edifici), ma molto si può e si deve fare e lo scenario è ancora in attesa di una maggiore chiarezza.
Ciò che però caratterizza la novità della Sen governativa sono due altre sottolineature. La prima è l’idea di rimettere mano alla governance del sistema energetico: si respira un’aria del tipo “riportiamo le principali leve decisionali al centro dello Stato”, “annulliamo il ruolo delle regioni”, “rafforziamo il dirigismo”. La riflessione di fondo, non del tutto peregrina, sembra decretare il fine corsa di un’eccessiva liberalizzazione del mercato e del decentramento alle politiche locali.
Il secondo elemento di grande impatto è infine quello descritto all’inizio. Si ritorni a cercare gas e petrolio nei nostri mari e nelle regioni del Sud, dove i giacimenti sono di dimensioni tali da giustificare importanti investimenti, pari a circa 15 miliardi, e creare oltre 20 mila posti di lavoro. Sono infatti censite riserve per oltre 250 miliardi di metri cubi di gas e 300 miliardi di tonnellate di petrolio. Il governo auspica, 50 anni dopo Mattei, di tornare a forare il sottosuolo e a coltivare giacimenti nostrani. Chissà se ce la faremo, o se vinceranno piuttosto le inevitabili manifestazioni dei “no-gas”.