“Wireless è bello”: è uno degli slogan che si sta imponendo nel mondo hi-tech che è ormai quello di tutti i giorni. Ma sarebbe ancor più bello se non ci fosse il problema dell’alimentazione. Se con i dispositivi wireless ci siamo liberati dalla schiavitù dei cavi, rischiamo di ricadere nella altrettanto scomoda dipendenza dai sistemi di ricarica. C’è però qualche prospettiva all’orizzonte, che potrebbe dischiudere interessanti scenari applicativi. Se ne è occupato recentemente il gruppo specialistico Wireless Industriale di Anie Automazione (Associazione Italiana Automazione e Misura), al quale partecipano i principali fornitori di tecnologia ed esperti del settore, che ne ha riassunto gli elementi principali in un articolo sulla rivista specializzata Automazione e Strumentazione.



Considerando l’ambito delle telecomunicazioni, dove principalmente si sta diffondendo la tecnologia “senza fili”, per dispositivo wireless si deve intendere un’apparecchiatura elettronica in grado di comunicare senza l’uso di cavi utilizzando onde radio a bassa potenza, rispettando le stringenti normative europee in materia (in Italia è possibile trasmettere segnali non superiori a 100 mW per i 2,4 GHz). Nell’industria tali apparati possono essere collegati a dei dispositivi come sensori di livello, di temperatura, aerostati; oppure possono pilotare valvole, segnalatori luminosi, piccoli attuatori e così via.



Il documento di Anie riporta alcuni esempi “reali” di sistemi che da anni funzionano regolarmente in questa modalità. Come nel caso del trattamento delle acque reflue, dove uno strumento posizionato a bordo vasca trasmette un segnale analogico alla sala controllo a circa 80 metri di distanza; il dispositivo viene alimentato da un pannello fotovoltaico accoppiato a una batteria tampone, mentre quello in sala controllo è collegato alla rete elettrica. Ci sono esempi nella building automation, per monitorare il livello dell’acqua di alcune vasche in uno showroom. I dispositivi che rilevano il livello delle vasche sono alimentati tramite batterie al litio che vengono sostituite annualmente nel periodo della manutenzione ordinaria. Il dispositivo Master che raccoglie tutti i segnali e li trasmette via seriale ad un PC, è alimentato con rete elettrica.



Altro caso è quello degli impianti di compostaggio, nei quali una centralina meteo, ubicata su un lato del perimetro del sito, tiene costantemente monitorata l’intensità del vento. Un segnale wireless viene inviato alla sala controllo posta a centinaia di metri di distanza. Anche qui, in mancanza di rete elettrica, la soluzione vincente è quella che prevede un pannello solare e una batteria tampone. E ancora, per monitorare la temperatura delle pulegge che movimentano le funivie di un impianto di risalita c’è un trasmettitore wireless che ruota insieme alla puleggia. Qui, per alimentare sia il trasmettitore che la sonda di temperatura, la batteria al litio risulta essere l’unica soluzione possibile, anche in considerazione della particolarità dell’applicazione e delle gravose condizioni meteorologiche tipiche della montagna.

Gli esempi potrebbero continuare: in miniere e cave, raffinerie, fonderie, nel settore aerospaziale, nell’automotive, nell’industria chimica, negli impianti di depurazione, in vari ambienti gravosi e in quelli con condizioni climatiche estreme: in ogni caso si pone il problema di trovare le soluzioni di alimentazione più adeguate. Come si vede dagli esempi, le fonti con cui solitamente si fornisce energia elettrica ai dispositivi wireless sono tre: «la più “immediata” e “facile” è la corrente di rete, dove disponibile, tramite un semplice alimentatore. Dove invece non esiste una presa di rete, si utilizzano batterie a lunga durata oppure, quando le condizioni ambientali lo consentono, pannelli fotovoltaici collegati a batterie ricaricabili».

Attualmente le batterie che più si prestano allo scopo sono le Lithium-Thionyl Chloride, in grado di operare in range di temperature comprese tra -55 e +85 °C, e con capacità nominali prossime ai 20 Ah per batterie di tipo “D” (61,5 mm con diametro di 34,2 mm). «Conoscendo questi dati, le specifiche del dispositivo wireless e il tipo di lavoro che dovrà fare, è facile calcolare, anche se approssimativamente, per quanto tempo il dispositivo wireless possa funzionare senza necessità di manutenzione. Addirittura, se il segnale o il dato da trasmettere non richiedono un monitoraggio continuo (ad esempio la temperatura di un ambiente che può variare di pochi gradi in diverse ore), si può decidere di inviare l’informazione con frequenza definita, magari anche di ore, ed allungare ulteriormente la vita della batteria del dispositivo».

I tecnici di Anie fanno osservare che se invece si prendono in considerazione i moderni sistemi composti da pannelli fotovoltaici e accumulatori, è «teoricamente possibile rendere autonomi sistemi di isole automatizzate addirittura per decenni». Tanta è l’importanza che stanno assumendo questi sistemi che alcune grosse aziende internazionali del mercato consumer hanno fondato un consorzio, denominato A4WP (Alliance For Wireless Power) con l’obiettivo di creare diverse fonti da cui poter ricaricare dispositivi wireless come smartphone, tablet e simili.. La ricarica dovrà essere standard per ogni dispositivo e regolata da specifiche ben definite; «Il traguardo finale sarà quello di poter ricaricare le batterie di dispositivi portatili in luoghi diversi, semplicemente appoggiandoli ad una superficie e senza dover sempre ricorrere all’uso di un caricabatterie».

Ma A4WP è solo uno dei tanti progetti che perseguono lo stesso obiettivo della ricarica wireless. La ricarica wireless, conosciuta anche con la dicitura tecnica “ricarica induttiva”, è una tecnologia che consente di ricaricare dispositivi elettrici tramite campi elettromagnetici generati da un secondo dispositivo, per l’appunto una base di ricarica wireless. Le fonti di ricarica potranno anche essere integrate in oggetti d’arredo e si potranno ricaricare cellulari, computer e altri dispositivi mobili semplicemente “appoggiandoli” su una superficie compatibile: un tavolo, un banco da lavoro e così via.

C’è infine la grande speranza riposta in quella che orai si sta diffondendo con la denominazione di Energy Harvesting (se ne è già accennato in queste pagine). «Si tratta di recuperare tutta l’energia presente in piccole quantità e in varie forme nell’ambiente che ci circonda, di accumularla e immagazzinarla per successivi riutilizzi». Sviluppi tecnici avanzati hanno aumentato l’efficienza dei dispositivi nel catturare l’energia ambientale e nel trasformarla in energia elettrica. Inoltre, i progressi nella tecnologia dei microprocessori hanno aumentato l’efficienza energetica, riducendo sensibilmente i consumi. In combinazione, questi miglioramenti tecnologici hanno suscitato interesse nella comunità ingegneristica per sviluppare sempre più applicazioni che ricorrono a questo metodo.

Tra le fonti energetiche più comuni di Energy Harvesting il documento Anie cita:

Energia meccanica da vibrazioni, da stress meccanici e di deformazione o del movimento di veicoli e persone;

Energia termica dispersa da forni, stufe, o attraverso gas di scarico caldi e calore prodotto da motori e da fonti di attrito;

Energia fotovoltaica, catturata dalla luce del Sole o dalla luce artificiale tramite fotocellule, fotodiodi, o pannelli solari;

Energia elettromagnetica, da induttori, bobine e trasformatori;

Energia da fenomeni naturali , come il vento, i flussi d’acqua, le correnti marine e i gradienti termici e di pressione.