La potenza è tutto? Non proprio. Nel caso delle batterie, per esempio, oltre alla potenza, quello che serve quasi sempre è una lunga durata, cioè immagazzinare alte quantità di energia che vengano rilasciate in tempi non troppo brevi. Da profani si potrebbe pensare che lo sviluppo tecnologico nella microelettronica, dove la potenza di calcolo associata a un processore è cresciuta esponenzialmente già subito dopo il suo inizio, alla fine degli anni 60 del secolo scorso, possa aver aiutato un analogo sviluppo nella creazione di batterie sempre più performanti, sia in potenza che in energia immagazzinata. Purtroppo non è così. Chi costruisce batterie sa che – a causa del livello tecnologico finora raggiunto – in qualche modo è posto sempre di fronte a una scelta: o la batteria fornisce molta potenza (ma si esaurisce in fretta), o fornisce energia per molto tempo (ma non consente di compiere lavori che richiedano grande potenza). I due fattori, dunque, sono in competizione. 



Oggi però anche su questo settore la ricerca sta compiendo sforzi notevoli. Le ultime news arrivano dagli Stati Uniti. Un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign, diretto da William King professore di meccanica e ingegneria, sembra abbia trovato il modo di rendere possibile il connubio potenza-durata, aprendo nuovi interessantissimi orizzonti per svariati campi di applicazione. James Pikul, dottorando e primo autore dello studio pubblicato sul numero di aprile di Nature Communications, è ben cosciente di quanto possa essere rivoluzionaria la tecnologia che stanno sviluppando: «Se vuoi alte energie, non puoi avere grande potenza, se vuoi grande potenza non hai alte energie. Ma per applicazioni molto interessanti, soprattutto quelle legate alle moderne tecnologie, hai veramente bisogno di entrambe. Questo è quello che le nostre batterie hanno iniziato a fare. Ci stiamo veramente spingendo in un’area del design spaziale dell’energy storage che non è disponibile con le tecnologie attuali». Il trucco con il quale il gruppo sta riuscendo nell’impresa riguarda essenzialmente un aspetto, cioè la forma geometrica della batteria a livello microscopico: è questo ciò che consente alle batterie di raggiungere le alte performance; anche il modo con cui i componenti sono assemblati è però importante, perché ciò permette la realizzazione  su larga scala del nuovo prodotto.



Le batterie, come si sa, sono composte da un anodo (polo negativo) e un catodo (polo positivo) e questo resta vero anche a dimensioni nanoscopiche. Il gruppo si è diviso in due: da un lato il lavoro di sviluppo di Paul Braun ha creato un catodo che si ricarica in tempi rapidissimi, dall’altro King e Pikul hanno sviluppato il corrispondente anodo e un sistema innovativo per integrare i due componenti a scale microscopiche, ottenendo la batteria con performance superiori.

Quello che si può già fare è molto interessante: sensori o radio che trasmettono 30 volte più lontano o strumenti 30 volte più piccoli. Ma non solo: le batterie si ricaricano anche molto più in fretta, fino a 1000 volte più velocemente rispetto alle altre tecnologie in competizione. Si può perciò iniziare a sognare novi traguardi: telefoni cellulari sottili come carte di credito che si ricaricano in mezzo secondo potrebbero essere una concreta possibilità, e nuovi passi avanti potrebbero essere fatti anche da altre applicazioni nel campo biomedico, nelle tecnologie laser, nella sensoristica… 



Il motivo è semplice e King lo spiega bene: «Ogni tipo di dispositivo elettronico è limitato dalle dimensioni delle batterie… fino ad adesso! Basti considerare gli strumenti medici personali e gli impianti, nei quali le batterie assomigliano a enormi mattoni, e sono tuttavia connesse a minuscoli strumenti e piccoli cavi. Ora anche la batteria può essere piccola». 

«Possiamo sognare a occhi aperti − aggiunge Pikul − è una nuova tecnologia abilitante, non un mero miglioramento di tecnologie precedenti. Rompe il normale paradigma delle risorse energetiche. Ci permetterà di fare cose differenti e nuove». L’entusiasmo è più che giustificato: il nostro mondo ha bisogno di strumenti che immagazzinano energia. L’auto elettrica, per fare un esempio, potrebbe diventare molto più pratica e ricaricarsi in meno tempo di quanto serva per riempire un serbatoio di carburante, l’energia catturata dal sole potrebbe essere immagazzinata con incredibile maggiore facilità e molti strumenti che adesso vengono alimentati dalla rete elettrica potrebbero essere messi in funzione da queste super batterie, senza la spina. Insomma: una rivoluzione potrebbe nascondersi dietro l’angolo.

Ovviamente lo studio è all’inizio, anche se il prototipo è funzionante, come spiega King: «abbiamo passato la dimostrazione in laboratorio e stiamo lavorando con i sistemi di integrazione»

Quando potremo avere questo tipo di novità fra le mani? Anche su questo la sicurezza di King fa ben sperare: “Probabilmente in due anni. E la prima applicazione sarà quella di rimpiazzare i supercondensatori nelle radio e nell’elettronica personale (come i tablet, gli smartphone ecc., ndr)». Il lavoro da fare, ora, è quello di ottimizzare i costi di produzione limitandoli il più possibile e forse da qui a pochi anni vedremo il frutto di questi sforzi, che promettono un vero cambiamento radicale nella produzione dell’elettronica e in vaste aree applicative. Un po’ come successe tanti anni fa, con l’invenzione del transistor, creato da William Shockley, Walter Brattain e John Bardeen, invenzione per la quale vinsero il premio Nobel per la Fisica nel 1956. Bardeen vinse poi un secondo Premio Nobel per la Fisica (unico nella storia) nel 1972 per la teoria BCS sulla superconduttività. La notizia è curiosa, in quanto questo mostro sacro della fisica e dell’elettronica insegnava nella stessa Urbana-Champaign University di King, Pikul e Braun. Che non sia solo una coincidenza?