A fine luglio negli Usa la morte del 94enne petroliere texano George P. Mitchell è stata occasione per ravvivare il dibattito sulla produzione dello shale gas e sulla prospettiva, sempre più realistica, della “energy indipendence” statunitense. Era stato proprio Mitchell, una trentina di anni fa, a sdoganare il gas di scisto (shale gas) ritenuto fino ad allora una risorsa energetica, pur se abbondante, non economicamente vantaggiosa, la cui estrazione era quindi sconsigliata.
Lo shale gas, il principale tra i cosiddetti gas non convenzionali, è un gas intrappolato in accumuli di rocce argillose a profondità comprese tra 2000 e 4000 metri. Una prima differenza tra un giacimento convenzionale e uno shale sta nel tipo di roccia: il primo è costituito da rocce porose e permeabili nelle quali il gas è migrato a partire dalle rocce ricche di materia organica dove si è generato; lo shale, invece, è rimasto intrappolato nelle stesse rocce argillose dove si era formato, ma si tratta di rocce poco permeabili che quindi, una volta perforate, non lasciano fluire il gas in superficie. Un’altra differenza riguarda le dimensioni del giacimento che, nel caso dello shale gas può svilupparsi anche per centinaia di chilometri. Molto diversa è anche la produttività, che per il gas di scisto è inferiore rispetto al gas convenzionale: da un giacimento convenzionale si riesce a recuperare fino al 70% del gas contenuto, mentre dalle rocce argillose si estrae al massimo il 30% del gas intrappolato. È necessario quindi perforare un numero elevato di pozzi: negli Usa sono attive un migliaio di unità di perforazione in grado di perforare fino a 10 mila pozzi all’anno.
L’altra grande differenza riguarda le tecniche di produzione. Dopo una decina d’anni dal primo impulso dato da Mitchell, un primo passo innovativo è avvenuto con l’idea della fratturazione idraulica: una tecnica che consiste nell’iniezione nel giacimento di un fluido alta pressione che provoca nuove micro fratture nella roccia e di mettere in connessione quelle preesistenti, liberando delle vie di fuga del gas verso la superficie. il fluido impiegato, composto principalmente da acqua (si parla di 20-30.000 metri cubi di acqua per pozzo) contenente granelli di sabbia o ceramica per impedire che le fratture create si richiudano.
Una decina d’anni fa un altro deciso salto tecnologico ha aperto la strada a uno sviluppo che ormai appare inarrestabile: si iniziano le “perforazioni orizzontali”, dove la trivella viene curvata, sfruttando l’elasticità dell’acciaio, fino a portare la punta perforante in posizione (quasi) parallela alla superficie terrestre; col vantaggio di aumentare il recupero dello shale gas andando a intersecare le naturali fratture della roccia.
Il resto è cronaca. Una cronaca fatta di dati e di proiezioni: come quelle pubblicate tempo fa su World Oil and Gas Review che, sommando il gas convenzionale con quello “non convenzionale”, indicano un forte aumento della quantità a nostra disposizione per i consumi futuri fino a raggiunge i 400.000 miliardi di metri cubi, sufficiente a soddisfare l’attuale livello di consumi per più di 250 anni.
Finora sono gli Stati Uniti a sfruttare al massimo questa nuova opportunità; ma le potenzialità sembrano elevate anche per l’Europa Centrale e la Cina. Per l’Italia non se ne parla, per ragioni semplicemente geologiche; anche se potrebbero essere attivate iniziative per sfruttare indirettamente questo nuovo “idrocarburo azzurro”.
Il ricordo del lungimirante petroliere americano ha riaperto anche il dibattito su qualche problema dal quale neppure lo shale è esente; era stato lo stesso Mitchell, con la sua Foundation, a sollecitare la messa a punto di precise normative e “best practices” per regolamentare i processi estrattivi e le relative attività.
I principali punti critici nello sfruttamento dello shale gas riguardano il rischio di inquinamento delle falde acquifere connesso con le operazioni di fratturazione idraulica. I tecnici però fanno notare che i giacimenti si trovano molto al di sotto delle falde acquifere utili e anche il rischio di perdite nei pozzi è trascurabile, essendo i pozzi completamente rivestiti di cemento. Accanto al tema dell’acqua si è recentemente sviluppato un acceso dibattito sul presunto contributo dello shale gas all’effetto serra. Qualche preoccupazioni riguarda la possibile immissione di gas in atmosfera per effetto delle perdite durante le fasi iniziali della produzione; ma anche qui gli sviluppi tecnologici promettono di riuscire a ridurre tali perdite o comunque a contenerle sotto l’1% della produzione totale di un pozzo.
Su queste e altre problematiche critiche, nel contesto europeo, un riferimento autorevole può essere indicato nello studio condotto dalla AEA Technology per la DG Ambiente della CE che esamina puntualmente gli impatti e i potenziali rischi dell’hydraulic fracturing, l’efficacia della attuale normativa e indica una serie di misure e raccomandazioni per una adeguata gestione del rischio.