Entro il 2030 i Paesi europei dovranno ridurre del 40% le emissioni di CO2 e investiranno nelle energie rinnovabili il cui utilizzo a quella data arriverà al 27% del totale. È quanto emerge dall’accordo raggiunto ieri in Commissione europea. “Un obiettivo particolarmente ambizioso – ha commentato il presidente José Manuel Barroso – pietra miliare verso un’economia a basse emissioni”. Anche sulle energie rinnovabili è stato un segnale importante: “Rappresenta stabilità per gli investitori, stimola l’occupazione verde e rende più sicure le nostre forniture energetiche”, ha aggiunto Barroso. Nei giorni scorsi, tuttavia, la Confindustria, attraverso Il Sole 24 Ore, aveva espresso forti preoccupazioni sull’orientamento che la Commissione si accingeva ad adottare, definendo irrealistico l’obiettivo di ridurre i gas serra del 40% entro il 2030. Oltre che ulteriormente penalizzante per le aziende italiane, già costrette a competere in condizioni svantaggiose. Come dimostrerebbe un rapporto della stessa Commissione, da cui risulta che in Europa il costo dell’elettricità è doppio di quello degli Usa e più alto del 20% di quello cinese. Sempre secondo Bruxelles, il prezzo del gas per uso industriale sarebbe invece triplo o quadruplo rispetto a Stati Uniti e Russia e più caro del 12% di quello cinese. Su questi temi abbiamo chiesto un parere a Carlo Andrea Bollino, docente di Economia all’Università di Perugia, nonché Presidente dell’AIEE, l’Associazione Italiana degli Economisti dell’Energia.



Cosa ne pensa dell’accordo raggiunto a Bruxelles sulla riduzione dei gas serra?

Da economista posso fare un bilancio generale in termini di costi-benefici. Partiamo dai benefici

Prego.

La prima considerazione da fare è che, avendo l’Europa già investito in una politica ambientale, quella del Climate Change and Energy Package del 20-20-20, è chiaro che non si poteva lasciare l’obiettivo al 2020 senza mantenere una continuità. Proprio adesso che ci stiamo arrivando, perché dal punto di vista dei tempi degli investimenti il 2020 è dopodomani. Gli investimenti in reputazione e strategia dell’Ue avevano pertanto bisogno di una continuazione. E la continuazione obbligata, dal loro punto di vista, era quella di proseguire nella stessa direzione. In più…



In più?

Che le fonti rinnovabili riducano l’effetto serra ormai è pacifico. Così come risparmio energetico ed efficienza energetica contribuiscano a creare posti di lavoro e a dare una visione di sviluppo che possiamo chiamare endogeno, di un’Europa cioè che conta sulle sue forze anziché importare materie prime. Questo è lo sforzo dal lato positivo.

Dal lato dei costi, invece?

Dal lato della critica negativa bisogna fare altre considerazioni. La prima è che dai tempi dell’impero romano, quando il grano arrivava da Cartagine, l’Europa è tributaria di materie prime da fuori. Non è mai stata autosufficiente. Esporta cervelli e intelligenze, brevetti e premi nobel, ma le materie prime è sempre andata a cercarle fuori. Basti pensare all’impero britannico dopo la scoperta dei Caraibi. Cambiare l’imprinting genetico del funzionamento di successo del continente europeo è un’impresa titanica; bisogna vedere se ce la faremo, potremmo anche non farcela.



La seconda considerazione?

Gli americani, che come Pil e livello di benessere sono davanti a noi, hanno intrapreso con lo shale gas e lo shale oil la strada del rilancio dell’energia fossile a basso costo e stanno reindustrializzando il loro sistema produttivo. Con il gas che costa meno di un terzo di quello che paga un’azienda europea è chiaro che anche in America si ricominciano a fare produzioni energivore o comunque che utilizzano energia di tipo manifatturiero. Questo pone chiaramente un problema, non dico di frattura, ma quantomeno di divergenza geopolitica rispetto alla storia passata.

Cosa intende?

Dalla scoperta dell’America i due lati dell’Atlantico hanno sempre marciato su una stessa visione di sviluppo che è culturale, etica, tutto sommato religiosa, industriale, di benessere, civiltà, ecc. Pertanto se continuiamo a pagare l’energia tre volte tanto, ovvio che avremo una divergenza di andamento economico. È una novità che potrebbe essere costosa per il continente europeo. Sarà la storia a dirci quale sarà la soluzione giusta.

 

Da studioso che idea si è fatto?

Ripeto, siccome il problema è intertemporale, quindi dinamico, è come chiedere se è meglio l’uovo oggi o la gallina domani. Se uno è impaziente dovrebbe dire: lasciamo perdere le fonti rinnovabili e prendiamoci l’energia a basso costo, troviamo il modo di importare il gas americano e continuiamo con il modello di sviluppo passato.

 

Se uno invece è paziente cosa fa?

Dice: non voglio consumare benessere oggi, voglio tirare la cinghia e investire in un futuro migliore. Così avrà una gallina domani, che sarà questa meraviglia delle fonti rinnovabili, molto più costose ma molto meno inquinanti, nel 2030, 2040. Sono due prospettive diverse, inconciliabili, non è che una sia preferibile all’altra, dipende dall’ipotesi di base.

 

L’anno scorso però gli investimenti nelle rinnovabili sono crollati un po’ dappertutto. Si salva solo il Giappone.

È stato un problema contingente: con la crisi, infatti, non avevamo più soldi per pagare gli incentivi. Ma questo è un problema di breve periodo. La politica “alta” dell’Unione europea prevede che le fonti rinnovabili diventino autosufficienti senza incentivi. Diventino cioè il nuovo paradigma energetico. A quel punto gli investimenti dovranno essere fatti in vista dei fabbisogni energetici, non soltanto perché c’è un incentivo che li rende convenienti. È un problema sistemico. Gli incentivi della Ue, se mi consente, erano un po’ come le rotelline che si mettono alle biciclette dei bambini perché non cadono quando sono piccoli. Poi quando crescono si tolgono e il bambino continua a pedalare da solo.

 

Lei è ottimista sul successo delle rinnovabili?

I presupposti per farcela ci sono; non stiamo andando in una direzione impossibile. Potrebbe, questo sì, essere più costosa rispetto a quella intrapresa dagli americani. Che accanto all’utilizzo delle fonti fossili stanno studiando anche la carbon sequestration o altre forme di intervento per ovviare ai problemi dell’inquinamento. Sono due strade diverse.

 

Per Confindustria gli obiettivi dell’Ue sulla riduzione delle emissioni di gas serra rischiano di penalizzare ulteriormente le imprese italiane, già costrette a competere in condizioni svantaggiose per via dell’alto costo dell’energia. Sbaglia o fa notare un problema vero?  

Se posso fare il “Pierino” rispetto a Confindustria aggiungerei una cosa. Se prima avevamo paura del basso costo del lavoro di Cina India e dei paesi emergenti, rispetto ai quali potevamo reagire con la tecnologia sofisticata, il design e l’innovazione che, pur utilizzando manodopera più costosa rendeva i nostri prodotti sempre diversamente competitivi nella fascia alta sul mercato mondiale, oggi, con l’energia a basso costo in America non abbiamo più il vantaggio del fattore lavoro; il nostro operatore non è più qualificato di quello cinese, non abbiamo il vantaggio di tecnologie o ingegneri che avevamo con i paesi emergenti. Competiamo con l’America che ha laboratori e ingegneri dello stesso livello dei nostri, lo stesso costo del lavoro. È l’energia che gli costa di meno.

 

È difficile competere anche con la Cina che non ha tutte queste preoccupazioni sull’inquinamento.

Sì, ma la Cina ci sbaraglia con il costo del lavoro. Non è sul problema dell’energia che la Cina ci fa concorrenza, ce la fa già sul lavoro. E noi come abbiamo reagito alla concorrenza della Cina sul basso costo del lavoro?

 

Lo dica lei.

Facendo prodotti di qualità, avendo noi una manodopera di maggiore qualità. Se invece dobbiamo competere con la stessa qualità di manodopera, come quella degli americani, ma la cui l’energia costa meno, potrebbe essere un problema più grave.

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