Si è menzionato più volte in queste pagine del tokamak ITER, il grande progetto internazionale volto a dimostrare scientificamente e tecnologicamente che la fusione termonucleare può essere una fonte di energia pulita, non dipendente da combustibili strategici e a costo accessibile. Con l’inizio del 2014 la Comunità Europea, leader mondiale in questo campo di ricerca, inaugura una nuova modalità di azione e un nuovo programma di finanziamenti caratterizzato non tanto da un incremento complessivo di risorse quanto dalla loro finalizzazione verso obiettivi strategici specifici cui i centri di ricerca e le industrie attive nel settore contribuiranno durante il prossimo quinquennio e oltre.



Il programma, gestito dal nascente consorzio europeo Eurofusion, si articola in otto “mission” che corrispondono ad altrettanti obiettivi scientifici-tecnologici chiave emersi da una attenta analisi dei punti critici che separano le attuali conoscenze scientifiche e capacità realizzative dalla possibilità effettiva di costruire un reattore. Tali obiettivi devono essere raggiunti per rendere possibile la transizione dalla fase della ricerca di base a quella della progettazione di un reattore industriale dimostrativo (DEMO) già in grado di immettere energia elettrica in rete. Il primo obiettivo è la messa a punto del regime di operazione utile del reattore e delle tecniche di controllo necessarie a mantenerlo. Il tokamak è una macchina di grande complessità il cui funzionamento, condizionato da numerosi parametri. deve essere ottimizzato per ottenere alto guadagno di fusione e basse perdite di energia. Contemporaneamente è necessario minimizzare il rischio che si sviluppino instabilità che possono compromettere il confinamento del plasma. Il secondo obiettivo riguarda la messa a punto di tecniche che permettano di dissipare la grande quantità di energia e particelle espulse dal plasma termonucleare che andrebbero a sollecitare la parete interna del reattore.



Per evitare questo occorre fare in modo che gran parte di questa energia sia in forma di radiazione elettromagnetica che in modo naturale si distribuisce su un’ampia superficie, riducendo così a livelli accettabili il carico termico locale. Il flusso di neutroni generato dalle reazioni termonucleari tende ad rendere radioattivo il materiale strutturale del reattore e a renderlo meccanicamente fragile. Il terzo obiettivo consiste dunque nello sviluppo di materiali resistenti e, in particolare rispetto ai materiali oggi disponibili, che possano operare stabilmente ad alta temperatura, superiore ai 700 gradi C. Lo studio di questi nuovi materiali necessita dello sviluppo di sorgenti di neutroni in grado di simulare su piccola scala di volume l’energia caratteristica dei neutroni prodotti da un reattore.



Lo sviluppo della tecnologia specifica del reattore che permette la produzione in-situ di parte del suo combustibile è invece oggetto del quarto obiettivo del piano. La miscela necessaria è composta in parti uguali dal deuterio (nucleo composto da un protone ed un neutrone) che è un isotopo stabile dell’idrogeno con 0.015% di abbondanza relativa naturale e dal trizio (un protone e due neutroni). Quest’ultimo è un isotopo instabile non presente in natura con l’abbondanza necessaria e deve essere prodotto all’interno del reattore utilizzando parte del flusso di neutroni originato dalle reazioni di fusione. Buona parte della parete del reattore sarà costituita dai moduli “breeding blanket” in cui verrà assorbita l’energia dei neutroni e trasferita al liquido di raffreddamento il quale verrà poi utilizzato per azionare una turbina secondo lo schema classico delle unità di produzione di energia elettrica.

Parte di questi moduli tuttavia saranno costituiti da litio che bombardato dai neutroni si trasforma in elio e trizio il quale, una volta estratto, fornirà il combustibile necessario al funzionamento del reattore. ITER avrà al suo interno alcuni moduli breeding blanket con lo scopo di sperimentarne le diverse tecnologie costruttive. Dal punto di vista della sicurezza nucleare un impianto di produzione a fusione è radicalmente diverso da una tradizionale centrale a fissione. Un dispositivo a fusione non si basa su processi di reazione a catena che possono sfuggire al controllo: al contrario, qualunque perdita di controllo porterebbe allo spegnimento naturale del reattore in pochi secondi. Un reattore a fusione funziona con pochi grammi di combustibile radioattivo alla volta (il trizio) che nell’ambito dell’intero ciclo non lascia mai la centrale perché in essa viene prodotto e consumato. Nell’ambito dell’intero impianto si prevede la presenza complessiva di uno o pochi kilogrammi di trizio, da confrontarsi con le tonnellate di materiale fissile di una centrale a fissione.

Infine, la fusione non produce scorie con lunghi tempi di decadimento: il materiale estratto da un reattore a fusione decommissionato potrà essere riciclato dopo un periodo di stoccaggio di cento anni da confrontarsi con le decine di migliaia di anni almeno per le scorie della fissione. Nonostante queste profonde differenze anche il sito per un reattore a fusione deve seguire tutto il complesso processo di “licensing” necessario per garantire il massimo livello di sicurezza in tutte le fasi della vita del reattore, in particolare per quanto riguarda la gestione dei materiali attivati dal flusso di neutroni e le tecnologie per l’eliminazione della contaminazione da trizio. L’oggetto del quinto obiettivo è dunque il consolidamento delle tecnologie relative alla sicurezza. Il sesto obiettivo riguarda invece la progettazione del reattore DEMO.

Questo non sarà un dispositivo per la ricerca scientifica e tecnologica ma un prototipo industriale che mira ad essere disponibile e funzionante con continuità. Ciò implica adeguate caratteristiche di affidabilità e di mantenibilità. Le singoli componenti del reattore quindi devono essere progettate non solo per assolvere al loro compito principale ma tenendo conto anche della riduzione al minimo dei tempi di manutenzione dell’intero dispositivo. Si può citare come esempio in questa linea lo sviluppo della tecnologia di manutenzione remota (cioè senza accesso umano) dei componenti interni del reattore, già esplorativamente in uso nei dispositivi di ricerca presenti.

Il settimo obiettivo concerne la valutazione del costo commerciale dell’energia elettrica da fusione e la scelta ed ottimizzazione delle soluzioni progettuali e delle tecnologie che possano incrementarne la competitività e ridurre i costi di investimento per la realizzazione di una centrale a fusione. Tra gli esempi in questa direzione si può citare lo sviluppo dei superconduttori ad alta temperatura che non richiederanno raffreddamento a temperature estreme come invece è necessario per i superconduttori odierni. Infine, l’ottavo obiettivo riguarda lo sviluppo di una tipologia di reattore alternativa al tokamak chiamata stelleratore. Nei tokamak il campo magnetico confinante è mantenuto da avvolgimenti esterni e contemporaneamente da un intenso impulso di corrente elettrica che fluisce nel plasma.

Negli stelleratori invece il campo magnetico confinante è completamente sostenuto dall’esterno tramite avvolgimenti di speciale configurazione. Sebbene la linea dei tokamak sia in questo momento più studiata e più avanzata, gli stelleratori offrono due importanti vantaggi: si tratta di dispositivi che possono funzionare in regime continuo e sono intrinsecamente meno soggetti ad instabilità. Lo stelleratore Wendelstein 7-X in completamento in Germania comincerà nel 2015 la sperimentazione e potrà dimostrare di avere proprietà di confinamento competitive con quelle del tokamak su una scala adeguata. È importante osservare che una quota significativa delle risorse previste per il prossimo quinquennio (vicino al 5%) verranno impiegate in un programma di “education & training” che sarà una opportunità concreta per i giovani che vogliono raccogliere la sfida scientifica e tecnologica dell’energia da fusione, su cui non solo l’Europa ma anche i paesi asiatici tecnologicamente avanzati stanno investendo.

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