Sembra incredibile. Anche il senso comune è completamente scomparso dall’analisi economica, sebbene ci si confronti con persone che sono state dei veri e propri protagonisti della stessa. Io sono convinto ormai che la causa di tutto sia la deflagrante trasformazione degli studiosi in consulenti. Si nasce studiosi e poi via via la cosiddetta opinione pubblica e il cosiddetto establishment riconoscono in te un interlocutore affidabile e quindi che non disturbi mai il manovratore. Ed ecco lo studioso trasformarsi in consulente.



Guardate cos’è successo a Daniel Yergin che ha recentemente pubblicato “The Quest: Energy Security and Remaking of the Modern World” ed è Vice Chairman di Ihs, una delle più importanti imprese di consulenza nel campo dell’energia. Per Yergin quello che sta capitando con la caduta del prezzo del petrolio non è altro che un evento estremamente positivo.



Ricorda anche che petrolio e gas sono commodities e che quindi sono sottoposte a cicli di ascesa e caduta dei prezzi governati dall’offerta e dalla domanda. Naturalmente non può fare a meno di notare che il crollo, per esempio, del prezzo del petrolio, che si manifestò nel 2008, col passaggio da luglio a dicembre da 145 a 33 dollari era stato provocato anche dal crollo di Lehman Brothers. Bontà sua! In questa visione prevale ancora la concezione per cui i protagonisti dell’industria energetica degli idrocarburi fossili sono ancora in forma indiscussa le grandi majors che fanno i prezzi come vogliono.



Certo, dal 1960 e poi, in misura sempre più accentuata, dopo il 1973, con la fine degli accordi di Bretton Woods e del sistema di cambi fissi attorno al dollaro, l’Opec ha via via assunto un ruolo fondamentale con il cartello effettuato dal lato dell’offerta. Questo cartello si disvelò appieno quando reagì al crollo dei prezzi dopo il 1973 provocando la più grave crisi energetica mondiale per scarsità di offerta e aumento del prezzo che sinora mai più abbiamo avuto nella storia mondiale. I giovani non ricordano le domeniche a piedi e le lunghe file di auto per far benzina ai distributori, ecc, ma oggi la situazione è profondamente diversa.

Da circa 30 anni quasi l’80% dei giacimenti di petrolio e gas su scala mondiale non solo non è più proprietà delle majors ma degli stati produttori, aderiscano o no all’Opec (come non aderisce la Russia, per esempio, che pure è tra i primi detentori mondiali di gas e di petrolio), diventati protagonisti di grandi avventure industriali, avendo creato immense imprese energetiche. Non esistono solo le più note Gazprom, Lukoil, Rosfnet, Petrobras (brasiliana, e anche il Brasile non aderisce all’Opec), ma anche imprese che non si ricordano mai e che pure hanno e son destinate ad avere un ruolo importantissimo nello sviluppo mondiale.

Ricordo Petronas, la cui torre ha cambiato lo skyline di Kuala Lumpur in Malesia e, per esempio, la Sapurakencana, uno dei più grandi operatori di tender rings, ossia di strumenti per ricercare l’oil e il gas a migliaia di metri sott’acqua o sottoterra. E come non ricordare allora ancora Pertamina, posseduta al 100% dallo Stato indonesiano, che si avvia a un colossale cambiamento politico dopo la nomina di Joko Widodo, nuovo Presidente dell’Indonesia che ha sbaragliato i clan di Suharno, militaristi e corrotti? Per non annoiare il lettore non ricordo le quattro grandi imprese energetiche cinesi che condizionano gran parte dello sviluppo economico di quell’immenso Paese che, finché rimane una dittatura sanguinaria, va sempre studiato attentamente per difendersene in futuro.

Insomma, se i margini delle grandi companies occidentali cadono per il crollo del prezzo e le nostre industrie possono giovarsi di questo crollo del prezzo dell’energia, o almeno così appare a prima vista, bisogna ricordare almeno due cose. La prima è che oggi abbiamo addirittura superato il tetto realistico della sostituzione dell’oil e del gas in Occidente e dunque mi pare impossibile fare di più, se non con le catastrofi che abbiamo prodotto sussidiando a manetta le fonti alternative, spalmando i sussidi sulle bollette dei consumatori e ponendo le basi di una corruzione diffusa assai più grave di quella che si attribuisce comunemente al petrolio e al gas. Naturalmente, fino a quando non avverrà una nuova rivoluzione tecnologica in questo campo.

In secondo luogo, e questo è molto più importante, il crollo dei prezzi è ora frutto dell’inizio della stagnazione secolare da deflazione e quindi tale crollo ha un effetto ancor più depressivo sui consumi di quanto si creda, minacciando fortemente gli stessi investimenti. Non ci vuole poi molto per capire, inoltre, che con le compagnie non occidentali che ho ricordato prima, e potrei anche aggiungervi Pdvsa, venezuelana e cruciale per la situazione economica sudamericana e per Cuba, ci troveremo dinanzi a una situazione in cui paesi che hanno bisogno di tutto, a cominciare dalle infrastrutture, si troveranno minacciati da quello che è il sistema sanguigno delle infrastrutture. Ovvero gli investimenti che le imprese energetiche possono fare in quei paesi.

Non parliamo poi della guerra civile islamica accompagnata dalla caduta del prezzo del petrolio e del gas che ha scatenato nell’Opec uno scontro furioso tra sauditi e iraniani. Gli Stati del Golfo vogliono continuare a far crollare i prezzi. Con il petrolio che costa circa 3 dollari al barile per estrazione si può ben scendere sotto nel trade-off tra prezzo energetico e risorse statali per il sostegno del welfare. Cosa che altri paesi non del Golfo, dal Sudamerica all’Asia all’Africa, non possono certo permettersi. Ma soprattutto non possono farlo gli iraniani che sono i primi nemici del Golfo, come ci raccontano ogni giorno le decapitazioni dell’Isis e l’attacco ad Assad in Siria.

Naturalmente gli Stati del Golfo in questo modo minacciano anche lo shale gas e lo shale oil degli Usa che, com’è noto, potrebbero far diventare quel continente autosufficiente energeticamente. I sauditi sanno bene, però, che lavorano nel settore piccole compagnie indipendenti che per tirar su quello che un normale pozzo fa in un giorno debbono impiantarne circa un centinaio e che, a differenza dei pozzi normali che una volta piantati è come aprire il rubinetto del lavandino e veder uscire il petrolio per diversi anni, quei minuscoli pozzettini durano ben poco e debbono essere rinnovati periodicamente. Tutto è molto costoso e tutto dipende dal credito che queste piccole compagnie ottengono dalle banche e dalla fiducia del private equity. Ben si comprende allora perché, se il prezzo scende, tutto il castello dell’oil boom Usa può andare a farsi benedire con conseguenze strategiche evidenti anche allo stesso Yergin.

Guardate un po’ che razza di problemi può suscitare la caduta del prezzo del petrolio. Senza considerare che se scende troppo, ossia scende ancora, dato che non tutti sono sauditi, l’ondata di investimenti che i vari emiri hanno riversato in Occidente (grattacieli, moda, compagnie aeree, vedi Alitalia, ecc.), possono finire o quanto meno rallentare, con ulteriori effetti deflattivi. Insomma, la medaglia ha sempre due rovesci, basta scegliere quello giusto. Che è quello mediano, che gli specialisti più ragionevoli fissano intorno ai 90/100 dollari al barile e che non mortificherebbe nessuno, i temibili e coraggiosi russi compresi. Dico coraggiosi perché l’abbandono di South Stream è un evento epocale forse più grande del crollo del greggio, per il ruolo che in futuro questa decisione affiderà all’Africa, non solo verso l’Europa, ma soprattutto verso i suoi mercati interni e quelli asiatici.