Nel pieno della crisi ucraina, i sette paesi più potenti del mondo si sono radunati in settimana a Bruxelles. Tra i titoli principali dell’agenda l’argomento dell’energia e dell’approvvigionamento europeo del gas naturale dalla Russia, fortemente legato ai destini geopolitici di quanto accade a Kiev e in Crimea. Il Presidente americano non si è fatto sfuggire l’occasione di far passare sui media del mondo intero uno straordinario spot commerciale sulla “rivoluzione energetica” del suo Paese: “Europei, tutto il vostro il gas proviene da paesi a rischio e potreste avere dei problemi. Adesso ci possiamo pensare noi americani”.
Attenzione che non si tratta assolutamente di una smargiassata o di uno “ sbarco muscoloso” in stile stelle e strisce. Il Presidente Obama ha detto il vero quando ha affermato che negli Stati Uniti “l’energia è un tema centrale dei nostri sforzi”, aggiungendo che ciò “avrà notevole impatto sull’economia globale”. Nel nostro continente europeo invece la questione energetica è da tempo “fossilizzata” e resa tesa dalle più recenti tensioni politiche del Nord Africa e dell’Est. La Russia rifornisce il Vecchio continente per oltre un quarto del suo fabbisogno di gas. L’anno scorso, la Gazprom ha venduto ai paesi dell’Unione europea e alla Turchia gas naturale raggiungendo il record di 162 miliardi di metri cubi, di cui 86 miliardi consegnati attraverso l’Ucraina. E Gazprom ha avvertito velatamente all’inizio di questo mese che potrebbe fermare il trasporto di gas verso l’Ucraina per le fatture non pagate da quel Paese.
Nell’incontro di martedì 26 marzo si è di fatto rifiutato il ricatto: Washington e Bruxelles hanno annunciato che stanno valutando i modi per diversificare le fonti energetiche dell’Europa. “Abbiamo autorizzato l’esportazione di quantità di gas naturale quotidiano pari a quanto già l’Europa utilizza ogni giorno”, ha dichiarato Obama. Riferendosi allo “shale gas” (gas di scisto), la fonte di questo gigantesco “new deal” americano, il leader della Casa Bianca ha sostanzialmente ricordato al mondo che gli Stati Uniti “sono benedetti da queste insperate fonti di energia supplementari”, che sono state “rilanciate recentemente in parte anche grazie alle nuove tecnologie di ricerca e sfruttamento”.
È la rivoluzione del “fracking”, la “frantumazione idraulica” che, pur generando un robusto movimento di opposizione ambientalista, ha intanto restituito vigore ai sogni di indipendenza energetica negli Stati Uniti e gettato incredibilmente le basi per l’esportazione anche in Europa. In pratica la produzione di questo gas “non convenzionale” si attua iniettando sottoterra, a circa mille metri di profondità, acqua miscelata ad additivi chimici ad alta pressione per spaccare le rocce ed estrarre il gas contenuto negli anfratti. Il sottosuolo americano ne è ricchissimo e le grandi pianure del Midwest americano si sono rivelate nuova terra di conquista. Insomma, siamo nel pieno di una vera possibile rivoluzione nel campo dell’energia, con tutte le conseguenze del caso.
“La crisi in Ucraina, come le mosse di Putin, ci stanno dicendo che il re è nudo. La crisi politica è innegabilmente complicata dal fatto che l’Europa non è indipendente dal punto di vista energetico”. Queste le parole di Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, nell’intervista comparsa sul Corriere poche ore prima dell’annuncio di Obama. Al giornalista che gli chiedeva “l’America potrebbe prendere il posto di Putin come fornitore di gas?”, il grande capo del colosso italiano dell’energia rispondeva “Forse, ma non è questione né di giorni né di mesi. A differenza del petrolio che si compra un po’ ovunque, il gas ha bisogno di infrastrutture, che siano liquefattori, navi, rigassificatori. Non si tratta solo di aprire un rubinetto e chiuderne un altro”.
Per commercializzare con l’Europa ci vorrà probabilmente tempo, come dice Scaroni, ma negli Usa la rivoluzione energetica è già concreta realtà: è un avvenimento che sta abbassando clamorosamente il costo dell’energia e ha già creato in tre anni oltre due milioni di nuovi posti di lavoro. Una rivoluzione che potrebbe però concretizzarsi anche in Europa, e guarda caso proprio a cominciare dai paesi dell’est, in particolare dall’Ucraina. La produzione di shale gas negli ultimi mesi era infatti considerata da molti la chiave dell’indipendenza energetica dell’Ucraina. Il Paese, fino a qualche settimana fa, stava permettendo il sorgere di attività di esplorazione di shale gas, incentrate nella formazione di “Lublin”, che si estende sotto l’Ucraina e la Polonia. Il precedente ministro dell’Energia e dell’Industria del Carbone in Ucraina, aveva affermato a inizio febbraio che la produzione di shale gas avrebbe potuto raggiungere i 10-15 miliardi di metri cubi in 5-7 anni e che per fare ciò erano aperti a investimenti stranieri.
Ma il complesso rapporto dell’Europa dell’Est con il gas non interessa solo l’Ucraina. Già nell’estate del 2011, ad esempio, la Bulgaria era considerata in Europa uno dei “pionieri dello shale gas” insieme a Polonia e Romania, per la sua decisione di permettere alla compagnia petrolifera Chevron di iniziare le attività di esplorazione di questa risorsa non convenzionale. Poi, qualche mese dopo e all’improvviso, la Bulgaria è divenuta il secondo Paese, dopo la Francia, a proibire ogni attività di esplorazione e produzione dello shale gas che utilizzi la tecnica della fratturazione idraulica. Come quindi non dare ragione al commento di Scaroni: “Con l’Europa in ordine sparso sull’energia, non saremo mai una grande potenza”?