Lo sviluppo delle tecnologie per il “moderno” sfruttamento energetico delle maree, delle correnti e del moto ondoso dei mari è una delle punte di diamante della ricerca nel campo delle energie rinnovabili, ma anche uno degli ultimi settori, dopo decenni di tentativi ed investimenti, per il quale si intravede il possibile raggiungimento della maturità. Abbiamo volutamente virgolettato l’aggettivo “moderno” per ricordare che l’idea di sfruttare le maree è tutt’altro che nuova; già nel medioevo erano infatti in uso, in località favorevoli lungo le coste di vari paesi atlantici, mulini che sfruttavano il montare delle marea e piccoli sbarramenti, per riempire dei bacini dai cui l’acqua ridefluiva verso il mare al calare della marea, facendo girare ruote idrauliche adatte ai dislivelli, fino a qualche metro, che si riusciva così a creare.
Questa idea era stata ripresa già nella prima metà del secolo scorso; ad esempio il grande sbarramento sull’estuario del fiume Rance, in Normandia, terminato dopo lunghe peripezie nel 1966, ha per molti anni costituito il più grande impianto idroelettrico a maree esistente (potenza massima di ben 240 MW, superati di poco solo nel 2011 nell’analogo grande impianto Sudcoreano del Sihava Lake).
Le crisi energetiche degli anni ’70 rinnovarono fortemente l’interesse allo sfruttamento dei vari “moti” dei mari, portando alla ribalta molte nuove idee per lo sviluppo di macchinari e impianti di concezione completamente nuova, in genere di taglia molto più piccola, e adatti a una installazione più diffusa, meno invasiva ed in luoghi molto meno “unici” di quelli dei due impianti citati. Ma per varie ragioni – principalmente perché questi macchinari devono poter funzionare il più possibile senza manutenzione, in ambienti ostili, isolati, soggetti a forte corrosione e spazzati periodicamente da tempeste e mareggiate – il loro sviluppo si è dimostrato assai più difficile, costoso e problematico del previsto e i fallimenti sono stati numerosi.
Così a più di quarant’anni dall’inizio degli sforzi di ricerca in questo campo non desta troppa meraviglia che la società di consulenza londinese Bloomberg New Energy Finance abbia recentemente stimato che entro il 2020 entreranno in funzione nel mondo “solamente” 22 impianti di taglia superiore ad 1 MW per la produzione di energia dalle maree e 17 per lo sfruttamento del moto ondoso. Si tratta certamente di numeri piuttosto modesti rispetto alla abbondanza a cui ci hanno abituato, anche nel nostro paese, altre tecnologie per l’utilizzo di energia rinnovabile, quali eolico e fotovoltaico; che da un lato confermano un trend positivo, ma dall’altro dimostrano che i mari si sono davvero rivelati un osso duro da sfruttare per tecnici e ingegneri.
Gli sforzi non si sono peraltro mai arrestati, sostenuti in particolare dalla convinzione che alcune peculiarità dei “moti marini” possano fornire indubbi vantaggio, o interessanti complementi ad altre forme di energia rinnovabile; in effetti le correnti di marea hanno una ciclicità cronometrica lungo il giorno e le stagioni e non sono aleatorie come venti e insolazione (questo è un notevole vantaggio dal punto di vista dei gestori delle reti elettriche), così come i moti ondosi possono essere intensi anche in assenza di venti locali, in quanto le onde arrivano spesso da lontano. Come conseguenza, negli ultimi anni diverse start-up che lavoravano in questo campo sono state acquistate dai grossi gruppi energetici mondiali, segno che la maturità tecnologica delle loro idee ha finalmente cominciato a raggiungere gli obbiettivi promessi.
È il caso per esempio della Marine Current Turbines (MCT), che nel 2012 è stata acquisita dal colosso tedesco Siemens. Come si intuisce dal nome, questa società inglese, con sede a Bristol, sviluppa turbine marine in grado di sfruttare le correnti naturali o le correnti di marea che caratterizzano molte località costiere oceaniche. Si tratta di flussi d’acqua spesso di enormi dimensioni e portate, ma di piccole velocità, che non possono essere sfruttate con le usuali turbine idrauliche e che hanno quindi richiesto lo sviluppo di apposite macchine. Quelle installate, già dal 2008, dalla MCT nello stretto canale di collegamento col mare della baia di Strongford Lough, a sud di Belfast, hanno solamente due pale e assomigliano molto, a prima vista, a un generatore eolico; ma l’acqua ha una densità circa 850 volte maggiore dell’aria, per cui la forte corrente di marea (velocità 3-4 m/sec) che si genera due volte al giorno a Strongford produce una forza equivalente a quella di un vento da più di 500 km/h, che fa ruotare la turbina, di diametro assai minore (circa 16 m) di una equivalente macchina eolica, alla velocità di 15 giri al minuto, generando 1,2 MW di energia elettrica.
Per la precisione queste turbine vengono installate a coppie, su due bracci che sporgono lateralmente da una robusta torre metallica infissa nel fondale marino. I due bracci possono salire e scendere, mediante apposite guide, lungo la torre, in modo tale che le turbine possano, al bisogno, emergere dall’acqua. Dal punto di vista della manutenzione i vantaggi di una simile configurazione costruttiva, per quanto non semplicissima, sono facilmente intuibili: ogni operazione può avvenire fuori dall’acqua, senza l’uso di sommozzatori od altre attrezzature subacquee.
Inoltre le torri di sostegno delle turbine hanno un ingombro limitato, quindi un impatto spaziale, ecologico e visivo limitato; la loro installazione è quindi enormemente meno invasiva di impianti tipo quello di Rance, che implicano la costruzione di una vera e propria diga, che costituisce un intralcio fisso per la navigazione e turba inesorabilmente i flussi di marea e l’ambiente naturale. La MCT ha in programma l’installazione entro il 2016 di una versione evoluta delle sue turbine (con diametro aumentato a 20 m, potenza di 2 MW e tre pale invece di due, in modo da attenuare i problemi di vibrazioni) in due località del Regno Unito, una nel Galles e una in Scozia.
Un’altra società che ha sviluppato turbine marine è la Ocean Renewable Power Company (ORPC), fondata nel 2004 nello stato americano del Maine. Anche le macchine di questa società assomigliano in qualche modo alle turbine eoliche, ma in questo caso a quelle del tipo cosiddetto a “frullino”. Costruite in buona parte in materiali compositi, sono concepite per essere installate mediante strutture di sostegno fissate al fondo marino, oppure per essere sospese a strutture galleggianti, ancorate al fondo. Le turbine della ORPC sono progettate per funzionare non solo in presenza di correnti marine e di marea, ma anche nella corrente di grandi fiumi, per esempio nei loro estuari.
La installazione sperimentale più significativa finora realizzata da questa società si trova nella baia di Fundy, situata fra le coste del Maine e quelle della regione canadese del New Brunswick, caratterizzata da forti moti di marea. Qui opera anche un’altra società, la irlandese Open Hydro, che ha sviluppato un altro tipo ancora di turbina, caratterizzato da una configurazione multipala, simile, potremmo dire, a quelle dei tipici mulini a vento usati nei pozzi d’acqua del Far West americano.
A Fundy è stata effettuata una lunga campagna di prova, volta a raccogliere dati non solo sul comportamento delle macchine, ma anche sul loro impatto sull’ambiente marino. In effetti benché come abbiamo accennato il loro impatto spaziale e visivo possa essere considerato modesto, non si avevano molti dati sui loro possibili effetti negativi sulla fauna marina; in particolare, in analogia con quanto si temeva per gli uccelli con le turbine eoliche, che esse possano, col loro moto e col loro rumore, disorientare e colpire branchi di pesci od addirittura foche o cetacei. I dati finora raccolti sembrano indicare che la fauna locale si adatta alla loro presenza e impara rapidamente ad evitarne il pericolo.
Qualche biologo marino non è peraltro ancora soddisfatto dei dati raccolti e sostiene che se essi possono essere confortanti per la singola macchina sperimentale, non sappiamo che cosa potrebbe succedere installandole in gran numero nello stesso luogo, come previsto per il futuro. Saranno probabilmente quesiti a cui solo il diffondersi di questa nuova tecnologia potrà rispondere.