Secondo le stime che ormai vengono accettate in sede internazionale per regolare le politiche energetiche e ambientali, con particolare riferimento al problema del riscaldamento globale, c’è un valore soglia ritenuto punto di non ritorno per la temperatura del Pianeta: sono i fatidici 2 gradi centigradi entro i quali si dovrà contenere l’aumento della temperatura media globale entro la fine del secolo. E per avere qualche chance di raggiungere l’obiettivo, c’è un test intermedio: non si dovrà superare il tetto di 420 Giga tonnellate di CO2 da combustibili fossili da qui al 2050. È il cosiddetto carbon budget, cioè il quantitativo di emissioni di gas serra che l’umanità ha ancora a disposizione fino a quella data. 



Il problema è capire se siamo nelle condizioni di superare il test; e se non lo siamo, come fare per ristabilire la corretta situazione. Problema complicato, in quanto non si tratta solo di trovare le soluzioni tecnologiche ma di armonizzare le politiche energetiche e ambientali di Paesi che finora hanno agito in modo diverso e spesso discordante. Soprattutto le grandi potenze economiche, vecchie e nuove, che sono i principali contribuenti di quel budget.



Un interessante proposta nella direzione del pieno rispetto dei limiti or ora indicati è venuta recente da uno studio pubblicato online dalla rivista Nature Climate Change:  nell’articolo “A compromise to break the climate impasse” Marco Grasso, del dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca e J. Timmons Roberts, dello Institute for the Study of Environment and Society dellaBrown University, hanno proposto una “cura” in quattro punti per rompere lo stallo sul clima.

Due di questi punti sono di natura, per così dire, procedurale: si suggerisce cioè di limitare la discussione iniziale ai tredici Paesi MEF (Major Economies Forum) dove gli accordi potrebbero essere raggiunti più agilmente rispetto alle Nazioni Unite; e solo successivamente di riportare il compromesso raggiunto fra i membri del MEF in sede Onu dove a quel punto sarebbe più semplice estenderlo a tutti gli altri Stati.



Un altro punto è di tipo potremmo dire economico-etico e riguarda l’idea di distribuire il carbon budget fra i Paesi in base ai principi di responsabilità (calcolata sullo storico delle emissioni di CO2 dal 1990 al 2010) e ricchezza (calcolata in base al Pil pro capite).

Infine c’è la proposta principale, di natura tecnico-economiche, che consiste nel cambiare il metodo di calcolo delle emissioni di CO2 passando da un conteggio basato sulla produzione (com’è attualmente) a uno basato sul consumo, col quale cioè le emissioni vengono imputate ai paesi dove i beni e i servizi che le hanno generate vengono realmente consumati. Se così si facesse, i ricercatori valutano che da qui al 2050, ad esempio, la Cina potrebbe aumentarle del 3.6 per cento, la Russia del 2, l’India andrebbe in pari e gli Stati Uniti dovrebbero ridurle solo del 1.9 per cento. 

Ma come funziona la contabilità basata sul consumo? Attualmente la contabilità delle emissioni registra quelle effettivamente prodotte da ciascun Paese. L’idea dello studio è invece di imputare le emissioni ai Paesi dove i beni e i servizi prodotti sono realmente utilizzati e consumati: ad esempio, le tonnellate di gas serra immesse nell’atmosfera dalla Cina per produrre le auto che poi sono vendute sul mercato europeo andrebbero imputate all’Unione Europea e sottratte alla Cina.

Come ha osservato uno degli autori dello studio, Marco Grasso, un simile cambiamento della contabilità della CO2 «aiuterebbe a trovare un accordo sul clima perché i due Paesi leader sulla scena mondiale, Cina e Stati Uniti, sarebbero, rispettivamente, avvantaggiati o non eccessivamente penalizzati e quindi sarebbero invogliati a adottare un’azione internazionale concertata per abbattere le emissioni. La riduzione di emissioni del 2% entro il 2050 per gli Usa è addirittura al di sotto degli obiettivi recentemente fissati dal presidente Obama».

Il “costo” più alto in termini di riduzioni delle emissioni sarebbe sostenuto dall’Unione Europea che, con il nuovo sistema di calcolo, sarebbe costretta ad abbatterla del 7%. Ma, sempre secondo Grasso, anche l’Europa troverebbe la sua convenienza in questo compromesso: «La UE ha definitivamente perso la leadership sul clima dopo la conferenza di Copenaghen del 2009. Sopportando e sostenendo una riduzione così consistente tornerebbe a giocare un ruolo centrale nelle politiche internazionali sul clima e sulla protezione dell’ambiente».