Nel 2010 i campi petroliferi di Eagle Ford, a due passi dalla città fantasma di Helena, profondo Texas, garantivano 15 mila barili al giorno di greggio. Ma da allora gli investimenti nello shale gas di Conoco Philips hanno fatto balzare la produzione a 835 mila barili al giorno. È grazie a pozzi come questo, tra il North Dakota e il profondo Midwest, che la produzione americana di greggio e gas è balzata in testa alle classifiche mondiali, con un aumento del 60% dal 2008. Una rivoluzione che, tra gli altri effetti, ha consentito al Pil americano di crescere di poco più di due punti percentuali all’anno. Insomma, senza il fracking, cioè il processo di estrazione del greggio dalle sabbie e dalle rocce, la crescita americana (+1,9% a fine 2014, secondo le ultime stime) sarebbe addirittura negativa con effetti devastanti per Barack Obama.
La scelta del presidente Usa ha prodotto effetti importanti un po’ per tutti. Compresa l’Italia che, grazie alla determinazione del presidente Usa nel difendere il fracking dalle proteste degli ambientalisti, ha ricavato tempo prezioso per ripensare la sua strategia energetica, da sempre distinta da una politica estera aggressiva combinata con l’autolesionismo delle scelte interne. Ringraziamo lo stellone. Senza l’effetto indiretto dello shale gas, che non solo ha azzerato l’import gas & oil degli Stati Uniti ma sta dando origine a un flusso di esportazioni verso l’Europa, le condizioni del mercato dell’energia sarebbero assai più precarie, con un costo terribile per un Paese come il nostro, che accusa un tasso di dipendenza dall’estero per l’energia pari all’80,8%, contro una media europea del 54,3%.
Grazie alla formidabile ripresa della produzione Usa, l’esplosione delle crisi geopolitiche che hanno investito buona parte dei paesi Opec non ha prodotto effetti drammatici sui prezzi. Ma non c’è da stare allegri, a giudicare dai focolai di crisi. Le previsioni dell’Aie, l’agenzia internazionale dell’energia, a gennaio puntavano sul boom della produzione irachena, garantita dai nuovi investimenti. Al contrario, l’avanzata dell’Isil islamica ha fatto saltare le stime di pochi mesi fa. Intanto la situazione libica, se possibile, peggiora. Né si può stare tranquilli se si guarda al Venezuela o all’Iran. Per non parlare della Nigeria, ostaggio di Boko Haram.
A questo si aggiunge l’incognita Russia, il grande fornitore d’Oriente, un asse storico che è sempre più stretto dal punto di vista finanziario e strategico (basti vedere l’ingresso di Rosneft sia in Saras che nella stessa Pirelli), ma che presenta non pochi inconvenienti sotto i cieli dell’embargo, come dimostra il grande imbarazzo italiano di fronte agli sviluppi della crisi ucraina, che hanno provocato il no di 11 paesi su 28 alla prospettiva di un rappresentante italiano per la politica estera Ue. Infine, l’ultima pennellata negativa: Kashagan, il giacimento kazako in cui l’Eni ha profuso enormi sforzi da 15 anni in qua, non entrerà in funzione prima del 2016.
È in questa cornice che va inserito il grande abbraccio tra Roma e Pechino sulla via del gas, moderna riedizione della via della seta. La Cassa depositi e prestiti ha appena siglato un accordo a 360 gradi con China Development Bank. Pechino sarà il partner strategico di Cdp Reti, ovvero di Snam e Terna, le infrastrutture su cui corrono l’energia e il gas di casa nostra. Nelle prossime settimane, una volta che il Parlamento avrà rivisto la legge sull’Opa rendendo più facile la cessione di quote di Eni ed Enel senza compromettere il ruolo di leadership del Tesoro, la banca centrale cinese aumenterà la sua partecipazione nei due big di casa nostra, assumendo un peso strategico, non solo finanziario.
Si va delineando, insomma, un asse inedito: Eni, che sta concentrando i suoi sforzi nell’Africa nera, ha scelto Pechino, grande protagonista nel Continente nero, come partner forte per crescere nelle acque dell’Angola, del Mozambico o del Ghana. Non è difficile prevedere un ruolo analogo per Enel: da una parte Enel Green Power controlla tecnologie preziose per il futuro energetico della Cina; dall’altra il gruppo italiano, forte delle partecipate latino americane di Endesa, può offrire non poche occasioni di collaborazione con i big di Pechino, primi partner di Brasile e Argentina.
Vista da Pechino, l’alleanza con l’Italia ha effetti strategici e finanziari. Gli assets italiani promettono di esser un buon investimento: un po’ perché sottovalutati rispetto ad altri paesi, molto perché i banchieri di Pechino vogliono anticipare la probabile svalutazione del renmimbi, cui punta il premier Ji Xingping. Sul piano strategico, gli acquisti in Italia, poi, avanzano in parallelo con le trattative per trasformare il Pireo nella base avanzata ideale per il made in China in Europa.
In una situazione economica “fredda”, in cui le statistiche continuano a segnalare variazioni negative per il Pil nostrano (il Fmi ha tagliato giusto ieri le stime di crescita per il 2014 dallo 0,6% allo 0,3%), l’energia è uno dei driver più efficaci del made in Italy. Non a caso Matteo Renzi ha lanciato il suo progetto (un punto di Pil in più entro mille giorni grazie all’export) dopo il viaggio in Africa e alla vigilia della missione cinese del ministro Pier Carlo Padoan. Eppure c’è chi contesta: l’Italia del “nimby” (mai nel mio giardino) è la stessa della “Costituzione più bella del mondo” che non va toccata. Perciò, no al Tap, il gasdotto dal Caspio alla Puglia che permetterebbe di ridurre la dipendenza dalla Russia. No alla perforazione dell’Adriatico, avviata da Croazia, Grecia e Montenegro. No alle perforazioni in Sicilia. E no anche alla ristrutturazione, senza costi per l’occupazione, per il petrolchimico di Gela.
Una sorta di ricreazione perenne, per un Paese che potrebbe ricavare 20 miliardi di royalties dai giacimenti in Basilicata se venissero meno i vincoli degli amministratori locali. Una sorta di ricreazione perenne, prolungata da Obama che ha detto sì a un fracking che mai e poi mai le anime verdi nostrane accetterebbero dalle nostre parti: i pozzi di Eagle Ford guardiamoli via iPad. Tanto per capire che ci sono società in grado di uscire dalla crisi. E società bloccate dove a comandare “c’è chi dice no”.