Ieri sia il Brent che il Wti statunitense hanno toccato i minimi dal maggio 2009, con il crude americano che addirittura ha visto dimezzato il suo prezzo dal giugno dello scorso anno, passando da 107,26 dollari al barile agli attuali 50,18 dollari, dopo essere sceso brevemente anche sotto quota 50 dollari, livello che non si vedeva dall’aprile sempre di sei anni fa. E questa dinamica, figlia legittima della follia keynesiana delle Banche centrali e della speculazione sui derivati più che della decisione dell’Opec di non tagliare la produzione, sta cominciando a mietere vittime e a porre le basi per possibili crisi future in paesi che credevamo lontani anni luce da possibili scenari di bolla.



Chi sta pagando a caro prezzo la situazione attuale del ciclo delle commodities è l’italiana Eni, la quale nonostante abbia consolidato la propria presenza in Croazia dopo essersi aggiudicata una licenza esplorativa nell’ambito del primo offshore Licensing Round croato (la licenza si riferisce al Blocco 9, situato nell’offshore del mare Adriatico, area in cui il colosso petrolifero italiano ha una posizione di leadership e dove opera da decenni sia sul versante italiano che su quello croato) ha visto tagliata a “sell” la raccomandazione di Citigroup legata al suo titolo.



Vediamo prima qualche dettaglio. Eni deterrà una quota del 60%, con ruolo di operatore, in partnership con Rockhopper che parteciperà per il restante 40%: l’assegnazione sarà formalizzata con la firma del contratto prevista entro aprile. In Croazia, il “cane a sei zampe” partecipa ad attività di esplorazione e produzione a partire dagli anni ‘80 e attualmente, infatti, attraverso la consociata “Eni Croatia” è operatore assieme alla croata “Ina” in due licenze di esplorazione e produzione localizzate nell’offshore dell’Adriatico, in cui detiene una partecipazione del 50%. Eni, inoltre, è anche il primo produttore internazionale di idrocarburi nel Paese, con una produzione netta nell’anno appena concluso di 1,1 milioni di metri cubi di gas al giorno e proprio lo scorso venerdì il governo croato, al fine di rendere il Paese un importante fornitore di energia della regione e attrarre investimenti, ha concesso permessi esplorativi per petrolio e gas a tre distinti gruppi, di cui uno al consorzio costituito da Eni e Medoilgas. Insomma, un bel colpo. 



Peccato che sempre a ieri a Piazza Affari il titolo abbia perso l’8,36% a quota 13,37 euro per azione (soli sette centesimi dal minimo del 2014 registrato il 15 dicembre e in fase di dimezzamento dai massimi toccati lo scorso 3 luglio a quota 20,41 euro per azione), zavorrando al ribasso il listino principale che ha chiuso a -4,92% anche sui rinnovati timori di un’scita della Grecia dall’euro, proprio a causa dell’ulteriore calo del prezzo del petrolio e della decisione di Citigroup di abbassare la raccomandazione da “neutral” a “sell” e il prezzo obiettivo da 16,50 a 13 euro a causa della persistente debolezza del prezzo del petrolio, del peso delle attività diverse da quelle di esplorazione e produzione (ovvero Gas&Power, downstream e Saipem) e dei continui disordini in Libia che rendono troppo costosa la valutazione dell’azione.

E proprio a proposito dell’instabilità in Libia, ieri la forza aerea del governo riconosciuto dalla Comunità internazionale ha confermato di avere compiuto, nel fine settimana, un attacco aereo su una petroliera nel porto di Derna, città nell’est del Paese controllata da milizie islamiste legate allo Stato islamico dell’Isis: la notizia era stata data in precedenza da una fonte delle guardie costiere greche, la quale ha parlato anche due morti dell’equipaggio della nave cisterna. Pertanto, anche se il titolo Eni ha sottoperformato i big globali del settore oil sia nel trend a un anno sia in quello a tre anni, per Citigroup si tratta di una giusta conseguenza del calo della forza degli utili del gruppo.

Gli esperti si aspettano che i prezzi del petrolio restino su minimi ciclici anche nel corso di quest’anno (62 dollari al barile la media), ma dal momento che il lato dell’offerta del mercato del petrolio ha bisogno del suo tempo per ribilanciarsi, hanno ridotto le stime sul prezzo del greggio anche oltre il 2015, vedendo il Brent a 75 dollari al barile dai 90 dollari previsti in precedenza. Di conseguenza, Citigroup ha tagliato le stime di utile per azione dei colossi petroliferi globali in media del 29% per il triennio 2015-2017 e quelle di Eni sono così passate, rispettivamente, da 0,85 a 0,42 euro, da 1,04 a 0,60 euro e da 1,55 a 0,82 euro. Tuttavia, nel 2015-2016 dovrebbe arrivare una maggiore flessibilità negli investimenti grazie al completamento di alcuni importanti progetti come quello Goliat e Kashagan, anche se il gruppo rimarrà impegnato a portare avanti gli investimenti in Mozambico.

Per gli esperti, la questione chiave ruota attorno al valore del progetto da 5 miliardi di dollari in Kashagan che, secondo le stime della banca d’affari, necessita di un valore del petrolio superiore a 100 dollari al barile per consentire un tasso interno di rendimento del 10%. Infine, circa le previsioni per il quarto trimestre, Citigroup si aspetta un miglioramento in Libia e una robusta attività raffinazione a ottobre e novembre: «Un caldo inverno potrebbe poi avere un impatto dannoso sulla vendita di gas e con i prezzi spot nuovamente inferiori a quelli dei contratti, ci aspettiamo un’altra perdita nell’attività Gas&Power», ha concluso la banca d’affari.

Non so voi, ma io vedo all’orizzonte un bell’attacco speculativo, perché purtroppo – come ci mostra il grafico a fondo pagina – siamo in piena disgiunzione tra titoli del comparto energetico e prezzo del petrolio, una dinamica che certamente non finirà bene. Fossi il governo starei molto attento alle attenzioni su Eni, già colpita dagli scandali corruttivi di Saipem e dalla decisione russa di bloccare il progetto South Stream e ora vittima di un taglio sul prezzo di raccomandazione del titolo decisamente drastico.

Qualcuno potrebbe essere tentato di fare l’affare del secolo a prezzo di saldo, visto che se continuano le chiusure di posizioni long al Nymex sui futures petroliferi, il mercato potrebbe davvero autoalimentare la certezza che il floor del prezzo non sia ancora stato toccato, dando credibilità a ipotesi estreme come quelle del ministro saudita per l’Energia che ha detto come il suo Paese non intenda fare budget sull’oro nero, il cui prezzo può tranquillamente anche andare a 25 dollari al barile se le forze del mercato lo spingono verso quel minimo. E attenzione, non so se avete visto il film “Un’ottima annata”, dove Russell Crowe interpreta il ruolo di un finanziere senza scrupoli che un bel mattino decide di buggerare il mercato immettendo ordini salvo poi vendere quando tutti gli altri si erano messi a inseguirlo sui margini, ma potrebbe anche essere una strategia quella in atto: ovvero, faccio credere che il calo proseguirà ancora a lungo, metto tensioni su tutto il comparto petrolifero e dei futures sulle materie prime, ma opero altrove, ovvero su opzioni call in attesa del rimbalzo. Il quale, vi assicuro, in un mondo finanziarizzato e in preda a distorsioni a questi livelli può avvenire anche senza alcun miglioramento reale delle condizioni macro o geopolitiche.

 

Queste ultime, poi, sappiamo benissimo che possono essere tranquillamente indotte, grazie all’Isis che sembra lavorare alacremente più sul fronte geofinanziario che su quello politico-religioso o grazie a dati miracolosi elaborati da qualche ministero o Dipartimento in vena di creatività statistica. Inviterei quindi anche le opposizioni a fare il loro lavoro, tra l’altro, visto che il Falcon di Stato che ha portato a Courmayeur il primo ministro e la sua famiglia è costato 9mila euro, perdere o vedere pesantemente ridimensionato il ruolo di Eni – come quello di Finmeccanica – costerebbe il futuro del Paese.

Ma come vi ho detto, questa dinamica non sta colpendo soltanto il comparto energetico, bensì sta generando i prodromi di una crisi in stile subprime in un Paese che tutti noi credevamo immune da certe follie: il Canada. A differenza degli Stati Uniti, in particolare di Stati come la California, il Canada infatti non ha mai vissuto il suo ciclo di “boom&bust” sul mercato immobiliare, non ha mai avuto una correzione dei corsi e infatti i cittadini continuano a indebitarsi enormemente per comprare casa, come dimostra il primo grafico fondo pagina.

C’è però un’enorme differenza tra Usa e Canada: certamente la concessione di mutui subprime a clienti incapaci di onorare le scadenze è stata la dinamo, ma una dinamo tutta finanziaria, ovvero la gente si vedeva pignorata la casa, ma questo anche perché l’americano medio era dipendente da immobili e il mercato si era contratto in maniera molto aggressiva, mentre il Canada invece è dipendente anch’esso da immobili ma anche dal petrolio, il quale si sta schiantando a livello di prezzo. Nei mercati Usa ci fu un punto di flessione quando il debito dei cittadini superò il loro reddito, si parlò di crisi di liquidità ma era di fatto una crisi di solvibilità: come dimostrato prima, al picco gli Usa raggiunsero una ratio debito/reddito del 120%, il Canada è già ora sopra il 160%.

Insomma, non solo i canadesi sono un popolo molto indebitato, ma questo debito è per la gran parte legato alla casa, mentre una larga parte dell’economia del Paese è legata al petrolio. Ed ecco l’interconnessione e il punto di criticità: una percentuale molto ampia del petrolio canadese è ad alti costi di estrazione, ad esempio quello che viene pompato dalle sabbie bituminose necessita del prezzo a 80 dollari al barile per garantire un profitto e siccome con il prezzo attuale investire in questa attività significa perdere soldi, non stupisce che – come ci mostra il secondo grafico – molti impianti petroliferi del Paese stiano chiudendo. Questo si traduce, molto semplicemente, in meno posti di lavoro e quindi meno denaro disponibile, proprio quel denaro che per la struttura stessa dell’economia canadese va a fluire in larga parte nel mercato immobiliare, un mercato che già oggi vede i prezzi medi delle case molto al di sopra dei redditi di chi le acquista, come ci mostra il terzo grafico.

Questo anche perché il Canada ha beneficiato di parecchi anni di boom delle commodities a livello globale, una dinamica che ha portato all’indebitamento dei suoi cittadini che implicitamente avevano fiducia cieca nel mercato immobiliare e nel traino economico del prezzo del petrolio: ora, si ritrovano ultra-indebitati, con valori immobiliari inflazionati e con il petrolio a picco in area 50 dollari al barile. Un combinato che potrebbe innescare una correzione nel mercato real estate capace di portare il cosiddetto “short-term pain”, ovvero guai di breve termine se per caso il petrolio non dovesse risalire e in tempi nemmeno troppo dilatati ad almeno 75-80 dollari al barile.

 

 

 

Stiamo per vedere una nuova crisi subprime, questa volta sotto la bandiera con la foglia d’acero? Non è detto, non è automatico ma la miccia è pronta per essere accesa. E attenzione, perché il contagio sembra partito come vi dico da settimane e i primi a pagare pegno sono i Paesi emergenti, visto che le perdite sul loro distressed debt a dicembre sono state le peggiori dall’inizio della crisi finanziaria globale: l’indice Bank of America Emerging Markets Corporate Plus ha perso il mese scorso il 13,4%, il dato peggiore dall’ottobre 2008, proprio a causa del tonfo del prezzo del petrolio che ha colpito duramente la Russia e del rafforzamento del dollaro.

Il calo annualizzato è del 19,7%, il peggiore da sei anni a questa parte, mentre le securities distressed ad alto rendimento negli Usa hanno patito un calo del’8%. La tempesta perfetta sembra veramente in arrivo con il suo combinato di deflazione indotta, fine del ciclo economico dell’espansione artificiale garantita dalle banche centrali e pressioni del mercato verso una correzione netta dei corsi, soprattutto quelli azionari, un argomento di cui parleremo diffusamente domani. Vi preannuncio solo una cosa, vista l’incursione nel range dei 40 dollari fatta brevemente ieri dal Wti statunitense: con il prezzo a 40 dollari al barile, le dinamiche di accoppiamento delle varie asset class in direzione ribassista potrebbe portare il rendimento del Treasury a dieci anni all’1% circa dall’attuale 2,05% e l’indice S&P’s 500 potrebbe conoscere una correzione tale da piombare dagli attuali 2029 punti in area 1150. Attenzione, forse è giunta l’ora di allacciare le cinture di sicurezza,

 

P.S.: Allarme rosso, il tasso di inflazione in Germania a dicembre è salito solo dello 0,2% anno su anno contro le previsioni, già risicate dello 0,3%, il dato più basso dall’ottobre del 2009. Il Dax a Francoforte ha perso in poche ore tutti i guadagni incamerati dall’ultima riunione del Fomc della Fed, chiudendo a -2,99% e i dati dei vari Lander facevano immediatamente voltare lo sguardo verso Francoforte, direzione Bce: Nord Reno-Westfalia +0,1% a dicembre dal +0,7% di novembre, Baviera +0,3% dal +0,8%, Baden Wuerttemberg +0,1% da +0,5%, Sassonia +0,5% da +0,7%, Assia 0,0% da +0,5% e Brandeburgo +0,3% da +0,7%. Qe in vista già il 22 gennaio? Se così fosse, prepariamoci alla replica – in versione tragica – del 2008.