Oggi ripartiamo da dove ci eravamo fermati ieri, ovvero dal petrolio e dall’ipotesi che dietro il crollo del prezzo del barile ci sia altro rispetto al disequilibrio tra domanda e offerta globale. Ricorderete come vi ho dimostrato che la Cina abbia ridotto il suo import di petrolio dell’11% annualizzato lo scorso mese di maggio, sintomo per tutti gli analisti del fatto che abbia completato il re-stocking delle sue riserve strategiche, sfruttando il prezzo di favore sul mercato. Contestualmente, però, il prezzo di Wti e Brent saliva: come mai? 



Per capire le dinamiche in atto e avanzare qualche tesi occorre entrare un po’ nello specifico e nell’attualità di queste ore. Ricorderete come parecchi mesi fa vi parlai della fine del concetto di “petrodollaro”, ovvero il sistema in base al quale i paesi esportatori di fatto riciclavano i dollari che ricevevano per le forniture comprando assets denominati in biglietti verdi, aumentando la forza finanziaria della moneta di riserva globale e spingendo al rialzo il prezzo degli assets (tra cui le equities), dando vita a ulteriori acquisti e quindi a un loop virtuoso (soprattutto per chi, come gli Usa, detiene assets in dollari e quei dollari li stampa). Ricorderete come vi dissi che lo scorso anno, proprio a causa del crollo del prezzo, per la prima volta da 18 anni a questa parte, i Paesi produttori non solo non riciclarono dollari nel sistema finanziario, ma, anzi ne drenarono, come ci mostra il grafico a fondo pagina. Stando a stime di Goldman Sachs, il nuovo equilibrio petrolifero dettato dai prezzi al ribasso potrebbe sostanziarsi nel drenaggio da parte delle nazioni produttrici di qualcosa come 24 miliardi di dollari al mese, insomma circa 900 miliardi in totale entro il 2018. 



Al riguardo, Bank of America scrisse in un report che «la fine della catena di riciclaggio del petrodollaro andrà a impattare su tutto, dalla geopolitica russa alla liquidità dei mercati di capitale globali alla domanda di beni rifugio come i Treasuries, fino alle tensioni sociali nelle nazioni in via di sviluppo e la exit strategy della Fed». Tenete bene a mente quest’ultima frase. 

Alla luce di questa nuova realtà, Cina, Russia ma anche gli altri Paesi appartenenti ai cosiddetti Brics hanno cercato sempre con maggiore forza di distanziarsi dal cosiddetto mondo denominato in dollari attraverso accordi bilaterali che portassero al superamento del concetto stesso di “petrodollaro” e si basassero su pagamenti in valuta locale. Lo scorso novembre furono proprio Cina e Russia (ma anche l’Iran) a rendere noto che le transazioni per le forniture di petrolio sarebbero state compiute in yuan e rubli e il mondo sembrò sottostimare la portata di questa scelta. La quale, da ieri, è confermato essere realtà. 



Gazprom, terzo produttore russo di petrolio, ha infatti confermato che da inizio anno tutte le forniture verso Pechino sono state compiute i renmibi, un chiaro segnale di come le idiote e suicide sanzioni imposte contro Mosca da Usa e Ue abbiano spinto sempre più aziende russe ad aumentare l’utilizzo commerciale della divisa cinese. E attenzione, perché interpellato dal Financial Times un portavoce del gigante russo ha parlato chiaramente di «strategia di smarcamento dal dollaro in ossequio alla politica estera lanciata del Cremlino di ruolo da pivot verso l’Asia». E tanto per far capire quanto siano idioti i politici europei che ancora al G7 in Baviera dello scorso weekend hanno perso l’occasione di dire a Obama che le sanzioni se vuole le metta lui, visto che l’Europa sta perdendo una quantità di soldi spaventosa, l’amministratore delegato di Gazprom Neft, Alexander Dyukov, ha reso noto come dallo scorso aprile l’azienda abbia fatto in modo di assicurare verso il 95% dei suoi clienti che le transazioni di pagamento avvenissero in euro e non in dollari. Ma noi, geni, mettiamo le sanzioni. 

E ancora, stando ai risultati di Gazprom del primo trimestre, la pipeline East Siberian Pacific Ocean, quella verso l’Asia, è pesata per il 37,2% del milione e 600mila tonnellate esportazioni di petrolio dell’azienda nei primi tre mesi del 2015. È nato il “petroyuan”? È presto per dirlo, certamente il “petrodollaro” non conta più come prima e gli equilibri geopolitici stanno seguendo, quasi di pari passo, quelli energetici. 

Veniamo ora alla strettissima cronaca. Ieri, infatti, l’Energy Information Administration statunitense ha reso noti i dati della produzione di petrolio per il mese di maggio, la quale ha raggiunto il livello più alto da 43 anni a questa parte, tanto da portare a una revisione al rialzo dell’output non solo per quest’anno ma anche per il 2016. In maggio la produzione media Usa è stata di 9,6 milioni di barili, contro gli 8,4 milioni del maggio 2014: ripeto, non si aveva un dato simile dal marzo 1988. E questo nonostante il greggio stia ancora prezzando un 40% in meno rispetto al picco di 106 dollari al barile del giugno dello scorso anno: com’è possibile? Come può l’America, il cui comparto shale sta patendo sia a livello finanziario che occupazionale, permettersi di produrre petrolio come non ci fosse un domani? Vuole mantenere la sua quota di mercato, evitando di darla vita alla strategia saudita in seno all’Opec? Sta pompando al massimo per seguire l’esempio cinese, ovvero riempire al massimo le riserve strategiche a basso prezzo per poi rivenderle quando le quotazioni saranno risalite? 

Forse, ma c’è un ultima questione che dobbiamo prendere in esame parlando di petrolio e strategie. Ovvero, non saremmo forse di fronte a una scelta deliberata degli Usa o della Cina o dell’Arabia Saudita di schiantare al ribasso il prezzo del petrolio, attraverso l’aumento fino allo scorso mese di aprile dell’import internazionale? La crescita delle importazioni di oro nero, ultimamente, ha toccato livelli senza precedenti e molti mettevano in gioco, per trovare una spiegazione, la mancanza di capacità di processare il greggio da parte delle raffinerie nel contesto shale, di fatto un “intoppo” che portava all’aumento delle riserve. Le raffinerie nei prossimi 24 mesi dovrebbero aggiungere circa 700mila barili al giorno per gestire la sovra-produzione di shale, appena confermata dai dati Usa: contemporaneamente, però, abbiamo assistito a un inusuale quantitativo di petrolio importato, anche negli Usa, come possibile risultato di questo sbilanciamento rispetto alla capacità delle raffinerie. 

Proprio sicuri che non sia una strategia voluta? Guardate il grafico a fondo pagina, allegato a uno studio sul tema compiuto dalla Cornerstone Analytics, quindi non dal Cremlino o da Riyad: nei sei mesi conclusisi lo scorso aprile, il livello di import petrolifero relativo alle necessità o al fabbisogno di riserva da parte delle raffinerie è cresciuto non di una volta ma di due: c’è di fatto un gap di 1 milione di barili al giorno, a fronte di un aumento degli stock che è stato di 5-10 milioni di barili per settimana. 

 

Insomma, senza scomodare un genio della matematica, se aggiustato quel dato ci dice che senza l’import non si sarebbero state le creazioni di riserve che abbiamo visto negli ultimi otto mesi o che sarebbero state molto ma molto inferiori. Quindi, non si sarebbe molto probabilmente sostanziato un calo così netto dei prezzi. Insomma, dobbiamo credere alla mancanza di capacità delle raffinerie di gestire la messe di nuovo petrolio prodotto internamente – vede il boom dello shale oil Usa – oppure è stata una scelta strategica quella di importare per aumentare le riserve e così facendo far schiantare al ribasso il prezzo del greggio? 

Io, in tutta onestà, non posso dirlo con certezza, anche se a molti ha fatto comodo il ribasso shock del prezzo del petrolio, soprattutto in chiave di depotenziamento dell’industria shale Usa. Un complotto saudita di cui la Cina è stata complice, nonché beneficiaria per acquisti a prezzo di favore? Una cosa è certa, la fonte della crescita delle riserve non pare essere la sovraproduzione shale, ma le importazioni in netta crescita: ora che la Cina ha smesso di importare potremmo però scoprire parecchie cose, ad esempio se una normalizzazione del dato dell’import unito a una minore produzione Usa porterà a una correzione degli sbilanciamenti legati al petrolio nel futuro prossimo. 

Il problema è che, come vi ho dimostrato, a maggio gli Usa non solo non hanno diminuito la produzione, ma l’hanno aumentata al massimo dal 1988 e hanno in previsione di crescere ancora, sia quest’anno che il prossimo: a quale gioco stanno giocando? Tanto più che sempre ieri l’Arabia Saudita ha comunicato che la produzione di petrolio a maggio ha toccato un nuovo record con 10,33 milioni di barili al giorno, in aumento dai 10,31 milioni di aprile. 

Ma a rendere ancora più interessante la questione c’è il fatto che, come ci mostra l’ultimo grafico, la BP conferma che lo scorso anno la crescita del consumo energetico globale è stata la più bassa dall’inizio del nuovo millennio, fatto salvo il 2008, ed è al livello più basso dalla fine degli anni Novanta. Ora, al netto di tutto questo, cosa spiega l’aumento del 6% in due giorni del prezzo del Wti, ora in area 62 dollari al barile, il massimo da sei mesi? Algoritmi impazziti sui futures? Speculazione? O un gioco geopolitico e geofinanziario a livello globale? 

Io so una cosa soltanto: quella del greggio è una guerra. Non dichiarata, senza armi, ma in piena regola. E tocca osservarla e seguirla con molta attenzione per capire quale sarà il futuro. Di tutti. Sarà un caso, ma, a mio modo di vedere, l’avanzata continua dell’Isis in Medio Oriente ha parecchio a che fare con la strategia in atto. Non a caso, proprio ieri, Barack Obama (premio Nobel per la Pace per aver portato via i soldati Usa dall’Iraq) ha deciso di aumentare le truppe dislocate proprio in Iraq di altri 400 uomini, portando il totale a 3500 uomini e di aprire una nuova base militare in loco. Tutte coincidenze casuali, ovviamente.