In attesa di scoprire come finirà la pantomima greca post-referendum, torniamo a trattare un argomento che ho un po’ trascurato nell’ultimo periodo. Ovvero, il petrolio, la dinamica del suo prezzo e le sue implicazioni finanziarie e geopolitiche. Venerdì il prezzo è tornato a scendere, con il Wti a quota 55 dollari, dopo che un aumento nel numero dei siti estrattivi Usa, saliti di 12 unità a quota totale di 640, ha mandato un chiaro segnale di sovrabbondanza di offerta a livello globale, a fronte di economie in rallentamento come quella cinese. E questo accade in una situazione molto delicata. visto che negli ultimi sei mesi il numero di siti estrattivi era sempre calato e i produttori di shale Usa avevano abbassato il break-even dei costi produttivi (attraverso efficentamento ma anche dolorosi tagli occupazionali) da 35 a 20 dollari il barile, tanto che per Goldman Sachs la produzione statunitense salirà a 135mila barili al giorni su dato annualizzato entro il quarto trimestre di quest’anno, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina.



E se in America la produzione è ai massimi, anche le altre grandi potenze stanno pompando a livelli record per timore di perdere quote di mercato, nonostante i prezzi così bassi comincino a intaccare i bilanci. Come ci mostra il secondo grafico, infatti, gli introiti da esportazione petrolifere delle nazioni che fanno parte dell’Opec lo scorso anno sono scesi sotto la quota psicologica di un triliardo di dollari per la prima volta dal 2010, chiaro segnale di un impatto che rischia di diventare un problema serio se dovesse perdurare nel medio termine. Siamo a quota 964,6 miliardi di dollari per il 2014, giù del 12,7% dal triliardo e cento del 2013 e sempre più lontano dal picco storico del 2012, quando si toccò quota 1,2 triliardi di dollari. In cima alla lista sempre l’Arabia Saudita con 285 miliardi, seguita dagli Emirati Arabi Uniti a quota 107 miliardi, mentre l’Iran sconta le sanzioni internazionali e ha visto le sue revenues scendere al minimo dal 2005 a quota 53,6 miliardi di dollari.



Ora, partendo da questi dati, ci sono due considerazioni da fare. Primo, come vi ho spiegato più e più volte, i minori introiti dei Paesi esportatori vanno a impattare nel cosiddetto riciclo di petrodollari, ovvero meno denaro denominato in biglietti verdi che andrà a comprare assets anch’essi in valuta statunitense, aumentandone quindi il valore e fornendo un supporto al sistema finanziario globale. Secondo e forse più importante sul breve termine, il mondo sta per conoscere la più grossa saturazione del mercato del petrolio da tre decadi a questa parte a causa della sovra-produzione globale, come ci mostra il terzo grafico.



Negli ultimi cinque trimestri, infatti, la fornitura petrolifera a livello globale ha sempre ecceduto la domanda, una stringa temporale che non si palesava dalla crisi asiatica del 1997, stando a dati dell’International Energy Agency (Iea). E la situazione può solo peggiorare, perché se si dovesse arrivare a un accordo tra Iran e partner internazionali (il caos geopolitico ed economico in atto ha messo in frigorifero la deadline del 30 giugno), e quindi Teheran potesse produrre ai massimi non avendo limitazioni all’import, allora il prossimo anno potremmo vivere la più grande saturazione da petrolio di tutti i tempi. Il prezzo, quindi, non potrà che restare basso o scendere ulteriormente. Anche perché tutti producono al massimo, il mercato è inondato e bisogna vendere molto velocemente, innescando inevitabilmente una guerra dei prezzi al ribasso.

L’Opec, che produce circa il 40% del totale della fornitura mondiale di petrolio, nella sua riunione del 5 giugno ha deciso di mantenere la sua produzione fissa a 30 milioni di barili al giorno per i prossimi cinque mesi, ma dati dell’Iea hanno dimostrato come già in maggio Arabia Saudita, Iraq ed Emirati Arabia Uniti insieme avessero prodotto a livelli record e sfondato quella soglia, arrivando a 31,3 milioni di barili al giorno. E state certi che continueranno su quei livelli, se non maggiori, a fronte del dato sui siti estrattivi dello shale Usa.

C’è poi la Russia che in maggio ha prodotto 10,71 milioni di barili al giorno, sfiorando il precedente record post-sovietico e non lontano dalla quota massima raggiunta proprio dall’Urss nel 1987 con 11,48 milioni di barili al giorno. Avendo necessità di cassa e di valuta pesante per mantenere in vita il settore, anche Mosca continuerà a mantenere l’output ai massimi di sempre. Poi ci sono gli Usa, i quali nonostante la chiusura del 60% dei siti estrattivi dal picco del boom shale, il taglio netto alle spese di gestione e investimento e il licenziamento di decine di migliaia di lavoratori stanno producendo circa 9,61 milioni di barili al giorno, dato della settimana conclusasi il 5 giugno scorso, il record assoluto e un aumento del 13,6% rispetto al 2014!

Insomma, con i tre produttori maggiori al mondo che pompano a livelli massimi e l’Opec che produce già oggi sopra la quota obiettivo prefissata, solo un miracolo potrebbe far salire il prezzo del petrolio nel breve o medio termine. Tanto più che negli ultimi dieci anni è stata la Cina ad assorbire circa il 48% dell’aumento della produzione petrolifera ma ora la crescita rallenta e la domanda cala, anche grazie all’efficentamento energetico. Inoltre, né la domanda Usa, né quella europea fanno sperare in miracoli e, come già detto, incombe la minaccia iraniana di ulteriore output sul mercato.

Per Eugen Weinberg, capo delle ricerche in ambito commodities di Commerzbank, «ogni aspettativa di una fine della sovra-offerta entro il 2016 non appare giustificata in uno scenario come quello attuale». Anche perché se la domanda mondiale dovesse salire di 1,4 milioni di barili al giorno nell’anno in corso, come stimato dall’Iea e se la produzione rimanesse al livello attuale (due “se” molto grandi), la sovra-offerta a livello globale resterebbe comunque di 1 milione di barili al giorno nel terzo trimestre e di 600mila barile nel quarto trimestre, stando a calcoli di Bloomberg.

Ma con gli Usa che vedono il settore sempre più a rischio a causa del prezzo basso e del carico di debito legato ai bond ad alto rendimento emessi col badile per finanziare il boom shale, come ci mostra il grafico a fondo pagina e l’Opec scesa sotto quota 1 triliardo di entrate nel 2014, cosa potrebbe far alzare il prezzo del petrolio e dare ossigeno al comparto a livello globale? La ripresa cinese? Scordatevelo, sono troppo impegnati a tamponare lo scoppio della bolla azionaria e del debito locale. Una guerra che vada a colpire un Paese produttore? Possibile, ma occorrerebbe toccare qualcuno di molto forte, visto la quantità di scorte e sovra-produzione a livello mondiale? L’Arabia Saudita? Azzardato e, poi, è ancora formalmente alleato di ferro Usa, anche se ultimamente flirta un po’ troppo con Putin a livello commerciale. Proprio la Russia? Non mi pare il caso, vista la corsa al riarmo in atto sia da parte del Cremlino che della Nato: la terza guerra mondiale in nome del petrolio mi pare eccessivo. Quasi certamente, poi, stante la dinamica attuale, all’Iran non verranno levate le sanzioni troppo in fretta, altrimenti la sua quota surplus se immessa sul mercato schianterebbe i pezzi a 30 dollari al barile.

Cosa, quindi? Un qualcosa che sta per accadere negli Usa. Uno dei motivi per cui il comparto shale ha resistito finora alla dinamica debole del prezzo del petrolio sono infatti gli “introiti” indiretti che ha ottenuto attraverso le posizioni di hedging, ovvero le assicurazioni sul prezzo attraverso strumenti derivati, una strategia che, ad esempio, per la SandRidge Energy pesa addirittura per il 64% degli introiti del primo trimestre di quest’anno. Senza hedging, insomma, sarebbe fallita. Qual è il problema? Che quella rete di salvataggio sta per sparire. Le assicurazione che i produttori hanno infatti comprato prima del crollo delle valutazioni, molte delle quali garantiscono un prezzo minimo attorno ai 90 dollari al barile, stanno infatti arrivando a scadenza e quando questo avverrà i produttori si ritroveranno a far fronte a un potenziale outflows di capitali da mancato introito pari a 3,7 miliardi di dollari guadagnati nel primo trimestre di quest’anno tramite l’hedging, dopo che il Wti è sceso sotto quota 60 dollari dai massimi di metà 2014 di 107 dollari.

 

A confermare il problema ci pensa Chris Lang, vice-presidente della Asset Risk Management, un adviser sull’hedging che lavora con circa 100 aziende del settore petrolifero ed esplorativo: «Un anno fa, potevi fare hedging tra gli 85 e i 90 dollari, ora solo nella parte bassa del range dei 60. L’anno prossimo potremmo davvero arrivare a un redde rationem». Tanto più che gli hedges hanno calmierato la mancanza di liquidità per le aziende dello shale e aiutato le banche a non tagliare le linee di credito, molte delle quali però andranno a scadenza, revisione e rinnovo il prossimo ottobre. Con i produttori shale alle prese con pagamenti di interessi per 235 miliardi di dollari, 89 dei quali su obbligazioni ad alto rendimento, lo stesso ente regolatore Usa, l’Office of the Comptroller of the Currency, venerdì scorso ha messo in guardia il sistema bancario dal rischio emergente del prestito verso aziende del comparto energetico, visto che in assenza di hedging andranno incontro a una stretta sui cash-flow operativi e quindi a potenziali problemi di insolvenza.

Il pagamento dei contratti di hedging ha pesato per almeno il 15% delle entrate del primo trimestre di quest’anno per 30 delle 62 aziende di gas e petrolio tracciate nell’indice Intelligence North America Esploration and Production di Bloomberg e con gli introiti già in calo del 37% lo scorso anno, la dinamica non potrà che esacerbarsi se i produttori perderanno gli inflows garantiti da contratti che pagavano 90 dollari al barile quando il petrolio era sceso sotto i 44 dollari. Sempre la SandRidge, produttore leader con base a Oklahoma City, aveva circa il 90% della sua produzione di petrolio e gas sotto protezione di contratti hedge all’inizio del 2015, ma il prossimo hanno questa quota si ridurrà a meno di un terzo del totale: detto fatto, venerdì il titolo SandRidge tradava a 85 centesimi, giù dell’88% nell’ultimo anno e più di 3 miliardi di controvalore in bonds stanno tradando già ora a 62 centesimi sul dollaro o meno, 1,25 miliardi dei quali emessi solo lo scorso mese.

Finora, l’hedging ha consentito a SandRidge e altri produttori di prendere tempo per tagliare le spese: i costi dei siti sono calati del 20-30% e la produttività è cresciuta, visto che gli impianti sono stati spostati in regioni più prolifiche e questo ha consentito alle aziende del comparto di racimolare circa 44 miliardi in equity e nuovo debito obbligazionario nel primo trimestre di quest’anno, stando a dati di Ubs AG. «Stanno soltanto spostando in avanti per un po’ il giorno del giudizio», ha sentenziato Carl Tricoli, co-fondatore del fondo di private-equity Denham Capital Management. E anche la Oasis Petroleum non è messa meglio. Essendo uno dei più attivi estrattori del giacimento Bakken del North Dakota, aveva ottenuto un contratto hedge che le garantiva 91 dollari al barile per 19mila barili al giorno, un qualcosa che pesa per oltre il 40% delle sua produzione e la parte maggiore del suo programma di protezione. Alla fine di giugno, però il prezzo garantito è sceso a 77 dollari al barile ed entro gennaio avrà hedging solo su 2mila barili al giorno a 65 dollari al barile.

Le scadenze bancarie di ottobre potrebbe rivelarsi un punto di svolta. Sempre che qualcosa di più serio non accada a livello globale nel frattempo. Una cosa è certa, molta gente si sta facendo male, ma dietro al prezzo del petrolio c’è una strategia precisa. Molto più fine e articolata di quanto oggi possiamo vedere. Chi sarà il vincitore finale?