Il comunicato dell’Opec che annuncia il prossimo taglio della produzione di petrolio richiama alla mente lo shakespeariano “Molto rumore per nulla”, quanto meno questa sembra l’opinione di diversi commentatori. Di fatto, sono molti i motivi di perplessità sugli effetti concreti dell’annuncio. L’Opec ha dichiarato di aver raggiunto un accordo per limitare la sua produzione tra 32,5 e 33 milioni di barili al giorno, tagliando circa 750.000 barili/giorno rispetto ai livelli attuali. È la prima volta dall’inizio della guerra dei prezzi che si annuncia un taglio alla produzione e i prezzi dei due benchmark, Brent e Wti, si sono subito mossi al rialzo.



Tuttavia, per il momento si è soltanto comunicata un’intenzione, in quanto la sua concreta realizzazione è rinviata alla riunione Opec prevista per la fine di novembre. In questa riunione verranno stabilite le quote dei 14 membri, un punto sempre critico per l’organizzazione, e già ora sono state indicate eccezioni al taglio per Nigeria, Libia e, soprattutto, Iran. Quest’ultima esclusione ha permesso di ottenere l’assenso di Teheran, che si è sempre opposta a riduzioni della produzione prima di aver raggiunto i livelli di esportazione precedenti le sanzioni per la questione del nucleare. Non è da escludere che a novembre altri Paesi chiedano di essere esentati dal taglio, per esempio il Venezuela o l’Iraq.



Il 60% della produzione mondiale di petrolio è al di fuori dell’Opec e sono quindi rilevanti le decisioni degli altri Paesi produttori, a cominciare dalla Russia che sta producendo ai suoi massimi storici. È probabile che la Russia attenda di vedere l’esito della riunione di novembre, ma anche se decidesse di ridurre la propria produzione, sarebbe difficile attuare questa decisione durante la stagione invernale su impianti situati in Siberia o nell’Artico. Inoltre, alcuni Paesi stanno riprendendo produzioni interrotte per eventi naturali, come il Canada o il Kazakistan, che ha annunciato la ripartenza a ottobre della produzione da Kashagan, giacimento in cui opera anche Eni, con una produzione prevista di almeno 150.000 barili/giorno.



Rimane da vedere l’atteggiamento del principale bersaglio della guerra dei prezzi condotta dall’Arabia Saudita, gli Stati Uniti con il loro shale oil o petrolio di scisto. I bassi prezzi hanno senza dubbio danneggiato l’industria americana, molti pozzi sono inattivi e almeno un centinaio di piccole società hanno dichiarato bancarotta, con molte altre in gravi difficoltà finanziarie. Peraltro, proprio il petrolio di scisto americano sembra essere il fattore che rende molto difficile un rialzo duraturo del prezzo del petrolio. L’innovazione tecnologica ha decisamente abbassato il prezzo di estrazione dai nuovi pozzi e ne ha reso molto più flessibile la produzione, consentendone la ripresa in tempi piuttosto ristretti e, quindi, con una rapida risposta ai cambiamenti dei prezzi.

Fino a che la domanda non aumenterà significativamente, l’eccesso di produzione renderà temporaneo ogni aumento di prezzo, anche se forse non è molto probabile un ritorno a prezzi attorno ai 30 dollari a barile. Su tempi più lunghi potranno invece farsi sentire gli effetti dei tagli agli investimenti di esplorazione e ricerca e la conseguente non sostituzione dei giacimenti in esaurimento. D’altro canto, sostanziali aumenti del prezzo del petrolio renderebbero più convenienti le fonti alternative di energia, portando a una nuova diminuzione del suo consumo.

Alla luce di tutto questo, il taglio indicato dall’Opec sembra insufficiente a cambiare veramente la situazione. In fondo, la stessa organizzazione si era data un tetto di 30 milioni di barili/giorno, poi aumentato a 31, comunque 1,5/2 milioni di barili meno del limite ora annunciato. La Borsa pare invece aver creduto a una svolta effettiva, ma anche qui viene data una spiegazione di breve, in termini di dinamiche di trading, cioè acquisti di ricopertura di chi ha ritenuto troppo rischioso mantenere posizioni allo scoperto.

Quindi, veramente molto rumore per nulla? No, qualcosa di oggettivo c’è, l’accordo tra due governi avversari su parecchi fronti, quello saudita e quello iraniano, un accordo che sembra francamente una vittoria di Teheran, almeno per il momento. Quella di Riyadh può essere solo una mossa tattica, ma denota le difficoltà in cui si trova attualmente l’Arabia Saudita e, forse, la presa di coscienza di non poter più esercitare nell’Opec il ruolo dominante di un tempo. A livello geopolitico, c’è chi ha messo in rilievo la tempistica dell’annuncio e lo ha interpretato come un tentativo di appoggio alla candidatura di Hillary Clinton, che si pensa preferita dai sauditi rispetto all’imprevedibile Trump.

Comunque sia, sembrano rimanere piuttosto in ombra i dati fondamentali di questa tuttora preziosa materia prima. In passato, il dibattito era centrato sulla minaccia per l’economia mondiale derivante dalla fine delle riserve petrolifere, mentre ora il problema sembra essere la sovrapproduzione di petrolio, non il suo esaurimento. Sotto questo profilo, il fattore che prima o poi dovrà essere messo al centro dell’attenzione è il costo di produzione, per continuare a produrre dove è conveniente, senza distruzione di valore. Data l’importanza geopolitica del petrolio, questo momento inevitabile sembra però ancora lontano.