Dopo le contrastanti notizie sul possibile esito della riunione di Vienna, con il conseguente saliscendi del prezzo finanziario del petrolio, l’Opec ha raggiunto l’accordo. La decisione di tagliare la produzione di 1,2 milioni di barili al giorno ha fatto immediatamente decollare il prezzo dei due benchmark, il Wti americano e il Brent del Mare del Nord, riportandoli attorno ai 50 dollari al barile. Al momento in cui sto scrivendo non sono ancora ufficializzate le quote di riduzione per i vari Paesi, un punto piuttosto critico data la divergenza di interessi all’interno dell’Opec. Lo scontro principale è tra Arabia Saudita e Iran, aspramente divisi anche sul piano geopolitico, in quanto gli iraniani sostengono il loro diritto ad aumentare la produzione fino al livello precedente le sanzioni. Anche Iraq, Libia e Nigeria resistono alla richiesta di limitare le loro produzioni, danneggiate dai conflitti interni ai rispettivi Stati. In fondo, queste riduzioni sono andate a favore in particolare dei sauditi, che hanno di molto aumentato le loro vendite.



All’Arabia Saudita toccherà comunque il grosso della riduzione, se non altro perché rappresenta circa un terzo della produzione dell’Opec, ma dovrà farsi carico anche delle “esenzioni” che verranno probabilmente riconosciute ai suddetti Stati per ottenere il benestare all’accordo. A quanto pare, all’Iran verrà consentito di salire ai circa 4 milioni di barili/giorno precedenti le sanzioni, livello cui Teheran è già prossima, mente gli altri tre si limiteranno a non aumentare la produzione.



Sembrerebbe quindi un accordo ragionevole, ma una certa cautela è d’obbligo, dato che non sempre gli impegni siglati sono stati poi onorati. L’accordo di Vienna porterebbe la produzione totale dell’organizzazione a 32,5 milioni di barili/giorno, cioè il livello base stabilito nella precedente riunione e poi abbondantemente superato. La stessa Opec non si fida evidentemente dei dati comunicati dai suoi aderenti e fa ricorso anche a dati esterni, definiti “secondari”, per fissare le quote di produzione.

La riunione di Vienna ha messo ancora una volta in luce che l’Opec non è più in grado di dominare completamente il mercato, pur rappresentandone ancora circa un terzo. Nei prossimi giorni sembra essere previsto un incontro con la Russia e altri produttori esterni, che hanno declinato l’invito a essere presenti a Vienna, per ottenere anche da loro una riduzione della produzione. Vi è il rischio che se questo accordo non fosse raggiunto, qualcuno all’interno dell’Opec potrebbe ripensarci.



Se queste riduzioni verranno confermate e, soprattutto, realmente effettuate, i livelli di produzione e di consumo risulterebbero sostanzialmente bilanciati, con effetti positivi non volatili sui prezzi, che potrebbero attestarsi al di sopra dei 50 dollari al barile. Meno del 50% rispetto ai picchi del 2014, ma quasi il doppio dei minimi raggiunti grazie alla guerra dei prezzi scatenata dall’Arabia Saudita. Tutto questo riguarda tuttavia il futuro immediato del mercato, ma il vero problema è prevedere l’andamento di questo settore nel lungo termine, dato il tipo di investimenti che questo settore richiede.

Il crollo dei prezzi di questi ultimi due anni ha portato a una consistente riduzione degli investimenti nella ricerca di nuovi giacimenti e, pertanto, a una possibile non sostituzione dei giacimenti che andranno a esaurimento. Diversi analisti prevedono, già tra qualche anno, una situazione opposta all’attuale, cioè la difficoltà della produzione a fronteggiare la richiesta di petrolio. Le stime sulla domanda di petrolio sono molto variabili e le previsioni di un aumento del consumo sono strettamente legate alle prospettive di uscita dall’attuale crisi economica e alla conseguente ripresa. Sul lungo termine occorrerà però tener conto di fattori strutturali di più ampia portata. Se in un passato non lontano si ipotizzava l’esaurimento delle riserve di petrolio, ora il rischio sembra contrario, con un suo progressivo ma radicale ridimensionamento a favore di altre fonti energetiche.

La riduzione dell’inquinamento atmosferico non è più argomento limitato agli ambientalisti, come dimostrano le conclusioni della recente conferenza di Parigi sul clima. L’imputato principale è il carbone, il prodotto fossile più inquinante, ma il petrolio è al secondo posto in classifica, e anche diverse grandi società petrolifere si sono schierate per un maggior ricorso al gas naturale, meno inquinante anche rispetto al petrolio. Sempre più importante si delinea poi l’apporto delle fonti rinnovabili, più appetibili economicamente grazie allo sviluppo tecnologico. Lo stesso processo tecnologico che, con il continuo aumento dell’efficienza degli impianti e delle altre misure di risparmio energetico, concorre a diminuire il consumo dei combustibili fossili. Un processo probabilmente irreversibile, ma che richiederà un tempo non breve.