Uno degli obiettivi della guerra sui prezzi del petrolio condotta dall’Arabia Saudita era soffocare sul nascere il pericolo rappresentato dal petrolio di scisto statunitense. L’operazione non sembra aver avuto molto successo, anche se ha causato una crisi abbastanza pesante che ha condotto le società più deboli del settore dello shale oil alla bancarotta o in grave crisi finanziaria. Quelle rimaste si sono rafforzate e, grazie a un rapido e consistente sviluppo tecnologico, hanno continuato la produzione a costi sempre più contenuti. Non a caso, Arabia Saudita e Opec hanno dovuto concordare un taglio alla produzione, accettato anche da altri produttori al di fuori della organizzazione, come la Russia. Pur persistendo dubbi sulla reale portata di questi tagli, rimane comunque una dimostrazione dell’insuccesso della strategia saudita.



Ancor più indicativa del buono stato attuale dello shale statunitense è la decisione delle grandi compagnie petrolifere di investire nel settore, come stanno facendo Exxon, Chevron e Shell, avvantaggiate dalla loro forza finanziaria rispetto a molti produttori indipendenti. Oltre i contenuti costi di produzione ora raggiunti, i pozzi dello shale oil e gas offrono anche il vantaggio di essere già operativi, senza gli investimenti di esplorazione e perforazione, comunque più limitati rispetto a quelli dell’offshore. Anche l’italiana Eni ha stipulato un accordo con l’americana Quicksilver, con una partecipazione del 27,5% nello sfruttamento dello shale gas di Alliance nel Texas.



In occasione della prima grande crisi petrolifera, nel 1972 fu pubblicato un rapporto del Club di Roma che prevedeva l’esaurimento delle riserve petrolifere con l’inizio del nuovo secolo; ora il problema è invece la sovrapproduzione. Pur tenendo conto di quanto le previsioni possano essere fallaci, è probabile che non sia vicino un riequilibrio tra produzione e consumo e che, quindi, i prezzi del petrolio tendano a rimanere attorno agli attuali livelli, se non addirittura a riprendere la via del ribasso. Acquistano perciò maggiore importanza fattori intrinseci al mercato, come i costi di produzione, rispetto a quelli finora dominanti di tipo finanziario e geopolitico.



I costi di produzione dovrebbero essere il fattor primario per una materia prima, ma l’aspetto strategico del petrolio è sempre stato prevalente e i differenziali in questi costi non hanno rappresentato un grave problema finché i prezzi si sono mantenuti a livelli molto alti. Gli attuali prezzi e la possibilità che ricomincino a scendere mettono invece in risalto l’importanza dei costi operativi. È quanto visto per lo shale oil, anche se i Paesi mediorientali, Kuwait e Arabia Saudita in testa, continuano a godere di prezzi di estrazione estremamente bassi.

La politica resta comunque un fattore determinante e lo scenario potrebbe essere radicalmente cambiato da eventi bellici o contrasti tali da bloccare la produzione in qualche Paese importante produttore. D’altro canto, il settore sta già facendo i conti con la nuova politica energetica di Donald Trump, delineata nel suo recente ordine esecutivo in cui si prospetta una profonda revisione della politica energetica di Obama, improntata alla difesa dell’ambiente. Già in campagna elettorale Trump si era detto molto scettico su questioni come il climate change o il global warming e, soprattutto, sugli effetti per l’economia americana delle restrizioni imposte alle fonti energetiche fossili. Ecco quindi la decisione di ridare spazio all’utilizzo del carbone, di rivedere le imposte sulle emissioni di anidride carbonica e le regole sulle emissioni di metano e via dicendo. Particolarmente interessante è la “riabilitazione “ del carbone che, secondo Trump, porterà un aumento dell’occupazione, il che è senza dubbio vero, ma sembrerebbe tralasciare la forte capacità inquinante di questo combustibile.

L’ordine esecutivo ha riscosso forti critiche non solo negli Usa, ma anche da parte di governi europei che ritengono deleterio il ritiro di fatto degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi del 2015 sul clima. Anche il governo cinese ha criticato la decisione, fornendo così altro materiale agli oppositori di Trump, che lo hanno accusato di regalare alla Cina il ruolo di guida nella salvaguardia del mondo. Il Presidente cinese, Xi Jinping, a gennaio aveva in effetti dichiarato la ferma decisione di dare esecuzione agli accordi di Parigi, invitando tutti gli Stati a rispettarli, pur ammettendo che si trattava di un compito molto duro.

Malgrado forti investimenti nelle energie rinnovabili, la Cina rimane il più grande produttore e utilizzatore di carbone e Trump deve aver pensato: se lo può fare la Cina, perché non lo possiamo fare anche noi? Trump sembrerebbe però aver dimenticato un aspetto della questione e cioè che le grandi compagnie petrolifere si sono schierate in favore degli accordi di Parigi, vedendovi la possibilità di sostituire il gas naturale al carbone nella produzione di elettricità. Non sorprende perciò la presa di distanza del Segretario di Stato Rex Tillerson, ex capo della Exxon, la cui nuova dirigenza ha inviato una lettera a Trump invitandolo a non ritirarsi dall’accordo di Parigi.

Una ultima nota su Xi Jinping, che sembra molto pronto a trarre vantaggio da ogni iniziativa di rottura di Trump. Lo ha fatto, come detto, proponendosi come leader della lotta contro l’inquinamento, pur essendo a capo di uno dei maggiori Stati inquinatori, e lo aveva fatto in precedenza a Davos, presentandosi come un, improbabile, sostenitore del libero scambio nel commercio internazionale contro il protezionismo di Trump. Un voluto, seppur inaspettato, gioco delle parti, o semplice eterogenesi dei fini?